L’albero di Jammes, dalla deposizione alla raccolta.

di Gian Piero Stefanoni

“questo nido sulla vostra fronte”

Quello che ho detto ho detto, eppure nel momento della deposizione, laddove il movimento di gravitazione è segnato per sempre in quelle carni, in quel sangue, chi è davvero per noi quell’uomo nel cui sudario è tutta la risposta ad una contrastata e disordinata oscurità d’amore? Sciolti i lacci, strappati i chiodi chi ha volto nell’abbandono tra quelle donne, tra quelle mani nel riflesso di uno sguardo cui va ad affidarsi? 

In realtà, forse, solo la madre sembra saperlo davvero (in una raffigurazione che ha per me la sua immagine nell’affresco della cappella di Santa Giuliana Falconieri in via dei quattro venti a Roma, nel quartiere dove abito). 

Nell’umiltà di quella forza in cui il mondo continua a reggersi prima della domenica, prima di tutte le albe e le domeniche delle nostre resurrezioni, è la coscienza di un carico portato non nell’immagine di un credo nel recinto delle proprie attese ma raccolto nello spazio di una incarnazione nel compimento definitivo della sua Parola.  Continua a leggere

L’arte dello scrivere, di Gualberto Alvino

Esiste un verbo, anzi una particolare accezione di un verbo comunissimo — tentare — che potrebbe tornare utile a quanti lavorano con le parole: non solo l’abbastanza nota tentare le tenebre ‘aprire uno spiraglio di luce nel buio’, ma tentare un foro ‘cercare di allargare uno stretto pertugio’.
La consiglio vivamente agli amici scrittori.

Marina Petrillo, Indice di immortalità

di Gino Rago

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus Editrice, Milano, 2023

 Non è possibile accostarsi a questo nuovo, recentissimo libro di Marina Petrillo senza ricorrere a quell’armamentario barthesiano incentrato sulla conoscenza dei tre piani del linguaggio scritto. Più precisamente, sulla tripartizione lingua-stile-scrittura che governa la produzione di ogni autrice/autore, nell’atto stesso dello scrivere, così come si presenta ne Il grado zero della scrittura, volume che si apre proprio con la domanda: «Che cos’è la scrittura?»., su cui lo stesso Barthes scrive: Continua a leggere

Quando tutto era intero: le 100 poesie di Franca Alaimo

[immagine di Clara Beatriz]

a cura di Biagio Accardo

 C’è un tempo nel quale noi e il mondo siamo una sola cosa? C’è uno stadio della vita in cui il disegno dell’Essere e dell’esserci coincidono? Forse sì. La ricerca di questa immagine originaria 
( l’arché dei  presocratici, la meta luminosa e, nello stesso tempo, oscura, cui tendevano i grandi mistici, l’e-stasi di cui ebbe a parlare Plotino), ovvero la ricerca di questo intero, costituisce la materia soggiacente a tutte le 100 poesie di Franca Alaimo, nel libro edito di recente da peQuod, per la Collana Portosepolto. All’altezza ormai del suo vastissimo e profondo magistero poetico, l’autrice indaga l’inafferrabile natura del nostro esserci, quell’ “ininterrotta notizia che dal silenzio si forma”, (1) per dirla con Rilke; quello spirare di un dio di cui non riusciamo mai a figurarci il volto, mossa da un’unica e forse ultima ambizione, quella della totalità. Non è forse questa la vocazione che il grande poeta austriaco, Rilke, vero maestro della nostra autrice, affida al suo Orfeo, quando nel nono sonetto canta? : “ Solo colui che anche tra ombre/levò la lira,/può con cuore presago cantare/ la lode infinita… Solo nel duplice regno/le voci si fanno/ miti ed eterne”.
Poesia dunque come parola della totalità, parola che vuole ricomporre l’originaria ferita dell’ esserci, perché, per il solo fatto d’essere stati vissuti, e di viverli,  “ i dolori sono tali per darci infine più frutto” (2); poesia come  itinerario poetico di ricomposizione, come vedremo dopo, che si snoda attraverso una geografia spirituale nella quale trovano posto creature semplici e umili, colme di una bellezza indicibile; mediante un linguaggio meditativo, quasi sapienziale che, lontano da ogni impellenza del dire, ha acquisito una sua più rarefatta essenzialità che consente a chi legge di entrare subito in sintonia con l’anima della scrittrice. 
Si tratta di un viaggiare, poesia dopo poesia, per territori in cui non servono più indicazioni, si tratta di un andare per terre  che solo i poeti “sciocchi e beati” sanno percorrere. Chiaro è lo scopo: ricongiungersi con “quell’acqua di Sorgente” da cui tutto ha preso inizio.  Continua a leggere

Lo stato dell’arte. Enrico Fraccacreta

Immagino paesi nei deserti
sino a scoprire le coperte
di ogni landa.
Avvitandomi nella scala elicoidale
di ogni discendenza.
Cercare nei secoli di ogni abitante
le virtù scomparse
i giorni tormentati.
Fare un giro nelle strade metafisiche
e bere un thè insieme
a un impenetrabile califfo,
nella città delle terre vergini
o nel silenzio calato sugli spazi.
Trovare l’avviso dei propri peccati
sulla faglia di Ninive,
e la forza di superare la montagna
il vento del deserto,
per la città immortale.

Vede

Solo Gesù conosce il nostro desiderio. Sa che spesso è deviato, sfigurato. Sa che ci vuole pazienza perché emerga nella sua purezza originale. Allora sarà pronto per l’incontro della vita, quando il cuore, finalmente, vede.

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Lo stato dell’arte. Alberto Fraccacreta

La poesia ha oggi un singolare destino: è diventata a tutti gli effetti una merce di consumo, peraltro prodotta da centinaia di milioni di persone nel mondo (solo in Italia si contano due milioni di poeti), ma la sua reale incidenza nella società è minima, marginalissima, direi nulla. In alcuni paesi essa ha ancora una forza politica (comunque in senso lato), ma in Italia e in alcune parti dell’Occidente rischia di essere un momento di puro otium letterario, sganciato dalla realtà, non esente da tentazioni narcisistiche. In generale, la letteratura non gode più del prestigio e della considerazione di cui godeva nel Novecento e nei secoli passati. Il titolo di un libro di Todorov del 2007 è, non a caso, La letteratura in pericolo. Sarebbe sbagliato, tuttavia, cadere nell’insignificanza. Per massimizzare il potenziale della poesia bisogna lavorare umilmente dal basso, nella quotidianità: valorizzarla nei corsi universitari, costituire movimenti letterari, leggere libri ad alta voce in gruppo (come fanno a New York, notizia di pochi giorni fa), favorire il contatto con la musica. Ma soprattutto è necessario cambiare prospettiva: considerare la poesia e la letteratura come un patrimonio comune che si radica nel nostro partecipare al genere umano, che è di tutti, gratuitamente, e deve essere ‘vissuta’ nell’autenticità. In un’epoca in cui è in crisi la figura dell’autore, è certamente un’opportunità ricordare e riaffermare la centralità della poesia come postura esistenziale e non come possibilità di affermazione personale né come estetizzante solitudine del testo. Questa è la speranza, questa forse è la vera vita, secondo Adam Zagajewski.

Lucerne nella luce, di Lucio Brandodoro

IV dom. Pasqua B

[Gv. 10,11-18]

 

?Troppo spesso, la tradizione cristiana ha dato al “Buon Pastore” un senso pietistico. Quel “buon” è stato inteso come connotazione morale, nel senso di “colui che è buono, che non fa del male”. In realtà, il termine greco è “kalòs”, “bello”, che non indica una caratteristrica estetica ma, piuttosto, una efficienza. Il buon pastore, insomma, è colui che fa bene il suo mestiere di pastore. Continua a leggere

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Lo stato dell’arte. Marco Amore

Caro Fabrizio, la poesia conserva una voce significativa persino in ambiti estranei alla sua natura apparente, come l’urbanistica tattica, dove si sperimenta la reinvenzione di attività con una creatività che potremmo assimilare all’arte poetica, senza il timore di essere smentiti; il che, del resto, vale anche per l’art thinking e la logica d’impresa. Questo concetto è al centro del mio libro, L’Ora del Mondo (Samuele Editore, pag. 82, prefazione di Luigino Bruni), che propone di riconsiderare gli aspetti economico-finanziari da una prospettiva altra, attraverso lo strumento – non solo linguistico – della poesia. Se consideriamo la poesia come un filtro emotivo indispensabile per reinterpretare la realtà in tutte le sue sfaccettature, non solo stimolando l’intelligenza emotiva e il pensiero divergente, ma anche nella sua funzione primaria, la quale spesso è travisata dall’autore a meri fini promozionali, allora essa assume una utilità fondamentale. In risposta alla tua domanda sul “ritrovare una strada”, e spostandoci dalla sfera sociale a quella individuale, la poesia è certamente uno strumento efficace per tracciare un percorso personale o quantomeno utile a superare momenti difficili, poiché, come le tecniche immaginative proprie delle arti visive e, in particolare, della pittura (ut pictura poesis!), illumina il nostro mondo interiore e dà forma ai nostri pensieri e alle nostre emozioni più profonde, che altrimenti resterebbero sopite o inespresse, mentre incoraggia l’introspezione e il pensiero critico. Infine, per quanto riguarda la speranza, non credo che la poesia debba necessariamente risvegliarla, ma piuttosto essere uno strumento che favorisce il cambiamento.

Primitivo Americano, di Mary Oliver

di Mauro Ferrari

Mary Oliver, Primitivo americano, a cura e con traduzione di Paola Loreto, Einaudi 2023

Nella splendida traduzione di Paola Loreto (autrice anche di una interessante nota di apertura) è stata appena pubblicato Primitivo americano, l’ultima raccolta della poetessa americana Mary Oliver (1935-2019). Si tratta di poesia etichettabile, in senso molto limitativo però, come spesso accade anche per le etichette più significative, come “ecopoetry”, quindi inquadrabile in quel vasto movimento culturale che ha radici profonde nella cultura e nella poesia americana (ma non solo). Il manifesto della ecopoetry, anche reperibile in rete, enfatizza il lato ecologista, diciamo pure politico, e mette l’accento sulla salvaguardia del pianeta e un nuovo rapporto con gli altri esseri viventi, sui diritti fondamentali dell’Uomo, la pacifica coabitazione dei popoli e “le nuove e varie introspezioni dell’Io”: punta insomma su aspetti cruciali del pensiero contemporaneo, compreso il distanziamento dalle poetiche paludate e accademiche, “per aprirsi a una comunicazione poetica chiara e semplice, comprensibile per tutte le culture” e quindi anche facilmente traducibile, per diffondersi almeno negli intenti tra un pubblico più ampio.
Legami e apparentamenti poetici sono evidenti con autori come Walt Whitman e la sua poesia intrisa di oralità; l’American Renaissance, anche con i suoi risvolti misticheggianti: R. W. Emerson e H. David Thoreau, Robert Frost e il contemporaneo Gary Snyder. Ma, restando in ambito anglofono, è impossibile non citare Wordsworth e, nella poesia più o meno recente (e per motivi diversissimi) il Ted Hughes di Moortown, River e Wolfwatching Continua a leggere

Scaletta sì, scaletta no

di Riccardo Ferrazzi

Qualche mese fa, poco dopo l’uscita del romanzo “Modus in rebus”, un lettore mi ha scritto per chiedermi: “Lei quando scrive un romanzo fa prima una scaletta?”. 

Ho risposto: “Generalmente no” e non mi sono addentrato in una spiegazione. In realtà, la scaletta bisognerebbe farla per dare una risposta esaustiva a questa domanda. Ma quel lettore si aspettava probabilmente una risposta ampia e argomentata, e si sarà sentito defraudato. 

Ora: l’ultima cosa che può permettersi uno che scrive e pubblica un romanzo è defraudare i suoi lettori. Sia che non risponda, sia che lo faccia rimasticando qualche chiacchiera da “scuola di scrittura”. Avevo il dovere di spiegare perché “generalmente” non faccio una scaletta, e dovevo farlo senza dare l’idea di disprezzare chi invece la scaletta la fa. Quindi dovevo pensarci su. Continua a leggere

La parola ai poeti. Vincenzo di Maro

Ho iniziato a leggere e scrivere poesia abbastanza precocemente, quando ancora non ero adolescente; sopratutto, in modo del tutto inconsapevole. Il mio apprendistato – se di apprendistato si può parlare – si è svolto in modo del tutto particolare: leggevo molti racconti e romanzi; c’era in me l’idea – anche incoraggiata dagli insegnanti – di voler diventare soprattutto scrittore in prosa. L’esercizio del racconto ha in sé qualcosa di egotistico, ha a che fare con lo scrivere storie in uno stile riconoscibile, personale. Raramente portavo a termine i racconti cominciati: mi venivano incipit che consideravo prodigiosi, ben presto però la vena svaniva. Troppo faticoso, per una mente disordinata come era allora la mia, costruire una storia. Di contro, ogni tanto ero folgorato alla lettura di poesie che ritenevo bellissime, avendo oltretutto l’impressione di non comprenderle appieno. Se ci penso, è ancora questo il compito che assegno a una poesia: quello di aprirci a una dimensione che le parole possono solo suggerire, senza chiarire mai del tutto. Bisognerebbe leggere una poesia con la stessa misteriosa gratitudine con cui si percorre un tratto di strada accanto a uno sconosciuto. Continua a leggere

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Frammenti di Cinema # 75

di Pasquale Vitagliano

Nella “zona di interesse” non si vede passare la storia. Dunque, è lo spazio indolore dell’indifferenza. Questa è l’idea che sta alla base de La zona d’interesse (2023) di Jonathan Glazer, vincitore dell’Oscar come migliore film straniero. Svuotata di ogni significato etico, cinematograficamente si tratta di una “trovata”. Di uno spiazzamento. L’etica resta di lato e resta importante. Come si può parlare di orrore senza farlo vedere? Questa è la domanda di partenza. Esclusivamente estetica. Quante volte abbiamo visto le immagini terribili dell’Olocausto? Rischiamo l’assuefazione. Quante volte abbiamo visto le immagini dell’assassinio di JFK ad Atlanta il 1963? Peter Landesman ha inseguito la stessa idea di Glazer? E l’ha, appunto, trovata. In Parkland del 2013 entriamo nel pronto soccorso dell’Ospedale. Partecipiamo al disperato e inutile tentativo di rianimare il presidente degli Stati Uniti. Ma non una volta (ri)vediamo le immagini dell’attentato. Il punto di vista è del tutto fuori campo, nello sguardo involontario di Zapruder sui cui occhiali intravediamo il riflesso di ciò che ha filmato.

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