Io sono un jazzista e altre storie. La nuova opera narrativa di Guido Michelone

Intervista di Giuseppe Garavana, esclusiva per la Poesia e lo Spirito

 

Guido Michelone, parliamo della sua nuova opera narrativa Io sono un jazzista e altre storie?

Certo, fa bene a chiamarla ‘opera narrativa’ e non ‘romanzo’ anche se il libro viene spesso etichettato come tale e in molti mi chiedono se sia il mio nuovo romanzo. No, sono quattro racconti (tre lunghi, uno breve), di cui il primo porta lo stesso titolo del libro, tranne la piccolissima variante del punto interrogativo (presente nel racconto, ma non in copertina). Fatta questa precisazione, inizierei col dire come nasce questo libro: un amico mi parlò nella primavera del 2020 di una nascente collana di un piccolo editore, basata sui racconti di argomento jazzistico. Mi convinse a scriverne uno, sicuro che, dopo le prime due uscite (già programmate e realmente avvenute) toccasse poi a me. La collana però è rimasta ferma a quei primi due titoli e io non solo avevo scritto il racconto, ma mentre lo scrivevo mi accorgevo che stavo diventando qualcosa di più di un semplice bozzetto.

E come lo ha trasformato da bozzetto a libro?

Terminato Io sono un jazzista? (il primo dei brani del volume), ho pensato subito al romanzo breve e l’ho proposto a uno dei miei editori, il quale mi ha risposto che come romanzo era troppo breve e che, per la sua linea editoriale, non se la sentiva di pubblicare un libricino minuscolo. Quindi mi ha chiesto se potevo allungarlo e o se avessi ulteriori alternative. Il testo era già finito e completo e non volevo cambiarlo anche se, per come è strutturato, si presterebbe benissimo a un sequel. Avevo però uno scritto ancora inedito da un paio d’anni, un altro risalente a vent’anni prima, che volevo aggiornare, e un quarto invece che ho concepito e redatto ex novo proprio per fare un libro che avesse un senso compiuto. Ed ecco infatti Io sono un jazzista e altre storie

Ci sono affinità fra le quattro storie?

Direi di no, salvo un comune denominatore, sul piano dei contenuti, che è il jazz, almeno in tre racconti su quattro. Dunque, il primo Io sono un jazzista? è una biografia immaginaria appunto di un jazzman, giocata sul registro comico; il secondo, Snodi, è una fiaba anche per adulti; il terzo Nat il cornettista è un giallo con un tocco di humour (una volta si diceva un giallo-rosa) e il quarto, Free Jazz New Thing, è una sorta di monologo ispirato a un jazzista autentico, che scrissi moto tempo fa e che ho in parte rielaborato. Anche a livello di forme non sussistono grosse affinità tra i quattro racconti: il primo ha degli inseriti in dialetto milanese, il secondo ha una scrittura vagamente surreale, il terzo usa gli stereotipi del genere poliziesco, il quarto è decisamente sperimentale con i punti di vista che oscillano continuamente senza soluzioni di continuità.

Da come parla dei suoi racconti, sembra che vi sia, in tutti, un lavoro di ricerca, di scavo, di consapevolezza nella prosa a livello di sostanza e di espressione: è vero?

Probabilmente è vero, non spetta a me dirlo, semmai ai critici o ai lettori. Certo, non sono uno scrittore d’azione, non incarno quel vitalismo che trae dai fatti quotidiani la materia per una narrativa di getto, con un unico registro. La mia età e soprattutto i miei studi mi hanno portato nel tempo a meditare sul come scrivere una fiction letteraria (romanzo o racconto), quasi a pianificare o progettare, benché i momenti di ispirazione improvvisa siano anche molti. Sono più Borges che Hemingway o Kerouac, senza fare assurdi paragoni, visto che sto citando alcuni grandissimi prosatori, tra i maggiori in assoluto del XX secolo, sia pur in maniere fra loro diversissime, che amo tutte. Ma, per assurdo, se dovessero chiedermi chi vorrei essere come autore, direi senz’altro il Borges dei formidabili racconti.

Ma, a parte Borges,  ci sono per lei altri scrittori da cui trae ispirazione?

Borges è più un modello o un metodo: i miei temi sono altri rispetto a lui e poi io amo molto usare la comicità nell’arte, nella letteratura, forse anche nella vita. Borges non fa ridere, tutt’altro! Però talvolta, forse, esterna un sottile filo ironico che ne aumenta la statura letteraria. Mi è difficile elencare nomi di scrittori, ovvero le cosiddette fonti primarie. Da anni non ho il tempo materiale per leggere molto, anche se mi piacerebbe farlo.  Devo scrivere! E nell’arco della giornata sono più le ore che passo a scrivere (o studiare) che a leggere. Studiare non è leggere, quando lo studio nel mio caso non riguarda la storia della letteratura bensì il jazz e la popular musica (e in parte i mass media). Non saprei oggettivare, ma forse sono molto influenzato dal cinema, perché in gioventù, e fino a qualche anno fa, ne vedevo moltissimo e lo studiavo pure come linguaggio visivo e meccanismo narrativo. Anche la pittura, il mondo delle immagini, dal fumetto al videoclip, fanno parte del mio immaginario, con moderazione però, tranne il caso dell’arte contemporanea di cui talvolta riesco a scrivere (non quanto vorrei).

Non le interessa quindi la narrativa di oggi, italiana o internazionale?

Mi interessa, anche se l’offerta abnorme crea difficoltà a scegliere: purtroppo la  politica editoriale, attualmente – da almeno trent’anni – è votata quasi esclusivamente ai numeri, ossia al numero di copie vendute. Più vendi e più vali e più hai visibilità mediatica, indipendentemente dalla qualità del  prodotto letterario, che dunque finisce per diventare pura merce, verso la quale non esistono nemmeno più gli strumenti critici per valutarne la consistenza.  E non parlo dei social, ma di giornali e riviste che, anziché fare informazione autentica, finiscono per diventare le casse di risonanza degli uffici stampa dei grossi potentati editoriali, che, a loro volta, in catalogo, non hanno il meglio bensì i libri che vanno in classifica. Le eccezioni sono assai rare. Ma forse sto dicendo delle ovvietà, benché mi sembra che esista molta assuefazione a queste regole, che poi sono giochetti che, ad esempio, impediscono la solenne stroncatura o favoriscono la narrativa mainstream banalissima.

Per concludere quali messaggi ha voluto  lanciare con il suo libro Io sono un jazzista?

Non credo a una letteratura pedagogizzante e nemmeno amo i romanzi psicologistici: preferisco una sorta di arte epica alla Bertolt Brecht o come il Gruppo 63, che carichi o  motivi l’attenzione del fruitore, invitandolo a ragionare, a indignarsi o a riflettere sulla scrittura, su cosa esista dietro una frase o un personaggio, che appartengono innanzitutto a una costruzione stilistica, a un lavoro sul linguaggio. Ho quasi cancellato dal mio dizionario parole come emozione o emozionare, preferiscono semmai, in letteratura e in tutta l’arte, concetti quali passione, attrazione, condivisione. Oggi parlano tutti di emozioni, un autentico abuso verbale: non ci si chiede nemmeno cosa voglia veramente connotare, quasi si trattasse di fenomeni irrazionali. No, è la ragione che deve prevalere, lo ‘sguardo vigile’, come disse una volta il cardinale Carlo Maria Martini a proposito della televisione. Anche un racconto comico – e sto parlando del mio caso – non deve solo condurre alla risata, ma portare a una serie di ragionamenti possibilmente costruttivi.

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