Archivio mensile:Giugno 2017

L’isola misteriosa. La Biblioteca dei libri inutili. N. 5

 

Come per l’idea rimasta incompiuta di realizzare un Catalogo delle idee chic, che avrebbe dovuto essere il seguito e la conclusione del romanzo Bouvard e Pécuche di Flaubert, letture e proposte di libri singolari eppure dimenticati.

Il maestro di Vigevano, Lucio Mastronardi (1962)

Il maestro è un mi… E’ un mi…», il maestro chiama gli alunni a completare la frase. «Il maestro è un mi… E’ un mi…» . «E’ un missile!», rispondono i ragazzi in coro, con la loro ingenua sfrontatezza. E il maestro strabuzza gli occhi: «E’ un missionario! E’ un missionario!».

Il maestro di Vigevano è più noto per l’interpretazione che ne ha dato l’attore Alberto Sordi che per Lucio Mastronardi, autore dell’omonimo romanzo. Grazie alla comicità grottesca del film, moltissimi conoscono le vicende del maestro Mombelli senza aver mai letto il libro. La stessa sorte – pur con esiti letterari diversi – di tanti personaggi della letteratura.

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La Punta della Lingua

La Punta della Lingua 2017

Walter Siti e Antonella Anedda alla 12^ edizione del poesia festival

dal 2 al 9 luglio ad Ancona e in trasferta a Casa Leopardi

si parte da Bologna, con la prima e unica sfida poetica italiana online

8 giorni di festival, 40 ospiti italiani “italieni” e stranieri, musica dal vivo, proiezioni, tributi a Bob Dylan e Leonard Cohen, reading e incontri in 10 location

Una vacanza poetica in riva al mare, nei boschi del Parco del Conero e in monumenti secolari.

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Il punto


Ti scrivo da un luogo di cui ignoro qualsiasi coordinata: è in cima a una collina, a strapiombo sul mare. Non so neanche come sia riuscito ad arrivarci, o chi mi ci abbia portato. A dire il vero, mi accorgo di aver dimenticato molte cose, tra cui il mio nome. Ma il tuo l’ho ben presente.
Forse è un vantaggio non rivangare più il passato, percepirsi liberi da errori e fallimenti. O forse mi illudo soltanto di non avere più di che rimproverarmi: l’essenza della vita è riconoscere umilmente la propria identità, senza ipocriti perfezionismi.
Da qui si vede bene l’orizzonte, la fine che non è una fine: come il giorno, che sembra esaurirsi e invece continua nella notte, nei sogni, che per me, nella presente condizione, sono l’unica chance di ritrovare un frammento di memoria; per sapere, ad esempio, se sono interessato a te, o è una forma di compensazione di quello che ho perduto e temo di non poter mai più ricuperare. Ciò che mi collega alla realtà è il filo tenue della nostra relazione, l’idea che da qualcosa si debba cominciare e che l’io sia questo ponte sospeso sopra il nulla, da cui mandiamo baci, o grida angosciate come appelli impossibili da udire.
Oggi ho maturato una certezza: qualcuno mi ha portato qui; dunque, un senso ci dev’essere. Per la prima volta sperimento la fiducia del bambino, che non mette in discussione il volere dei propri genitori.
La collina, per me, è un simbolo a due facce: può rivelarsi un cimitero silenzioso, in cui ombre furtive accumulano fiori che presto appassiranno; o il luogo da cui, finalmente, si vede il punto da cui tutto nasce, invece di finire.

Incontro


Certe volte era tentato di dirgliene quattro: si faceva un film con le parole giuste, i gesti adeguati, l’intonazione perfettamente consona al momento. Si guardava allo specchio, faceva le facce, era quasi tentato di prendere con forza, per un braccio, la sua immagine riflessa. Sì, sarebbe stato il gesto decisivo, quello che scioglie i nodi più intricati, che arriva alla fine di una lunga, infinita incomprensione: tutto sembra perduto quando, a un tratto, ecco che il volto si illumina, il corpo si protende, l’anima si affaccia sulle labbra per spingersi fuori, in un assalto fermo e irresistibile. Nessuno l’avrebbe fermato, l’impeto avrebbe sbaragliato le ultime, fioche resistenze, e tutto, all’improvviso, sarebbe apparso diverso: il cielo estivo, il gatto sdraiato sulla panca, il manifesto del concerto di Bach, con il coro del duomo.
Il giorno in cui s’incontrarono, non accadde nulla: ognuno pronunciò le solite parole, disegnò gli stessi gesti nell’aria, riprodusse in modo meccanico le pause, le smorfie, l’andirivieni delle mani.
Ma qualcosa era cambiato: le prove allo specchio non avevano raggiunto il suo interlocutore, ma avevano toccato lui, cambiando per sempre il cielo d’estate, il gatto sulla panca, il concerto di Bach e qualsiasi altro segno di vita sulla Terra.

“I LEONI D’ORO”, CLASSICI PER RAGAZZI

I leoni d’oro

Classici della letteratura per ragazzi da tutto il mondo

Carroll, Goethe, Tolstoj e Vivanti i primi quattro autori della nuova collana

diretta da Livio Sossi per la casa editrice Lisciani

 

Teramo, 20 giugno 2017. Nasce I leoni d’oro, una nuova collana di classici della letteratura per ragazzi. Lewis Carroll, Wolfgang Goethe, Lev Tolstoj e Annie Vivanti sono i primi quattro autori della collezione di libri illustrati diretta da Livio Sossi per la casa editrice Lisciani.

La collana. Classici della letteratura celebri, sconosciuti, dimenticati o mai tradotti in Italia danno vita a una collana di libri per ragazzi pensata per far scoprire ai più giovani l’incantesimo della lettura: è questo l’obiettivo dei Leoni d’oro, la collana varata dalla casa editrice Lisciani con la direzione di Livio Sossi, fra i massimi esperti in Italia di letteratura per l’infanzia.

Si parte con un quartetto d’assi che racchiude in sé il senso dell’intera collezione: sono infatti Lewis Carroll con Alice dei piccoli, Wolfgang Goethe con La fiaba del serpente, Lev Tolstoj con Il tonto alla ventura e altri racconti e Annie Vivanti con Il viaggio incantato a inaugurare una biblioteca che spazia tra epoche e paesi per offrire ai giovani lettori (a scuola come in famiglia) un viaggio nella fantasia, lungo un itinerario capace di raccontare i grandi temi della vita tra scenari favolistici e fiabeschi. Continua a leggere

Nessi


Mi piace contemplare i gabbiani. Hanno un modo di muoversi curioso: si guardano in giro come uomini, sicuri di sé, perfino prepotenti, perché attaccano i piccioni per un pezzo di pane o di biscotto. Sono anche violenti, quando infliggono colpi di becco micidiali nel momento in cui meno te lo aspetti. Se non esistessero, il mondo non potrebbe sopravvivere: avrebbe nostalgia di quelle ali impeccabili, bianche come lenzuola ripassate sotto il ferro da stiro. Se non ci fossero i gabbiani, non ci sarebbe il mare: l’hai mai visto un mare in cui non planino o si posino un momento, in cerca di cibo? Non ci sarebbe acqua, quindi, né vita: la storia sarebbe solo un sogno che svanisce da svegli, quando non sai più se sei a casa o in qualche posto del mondo dove hai passato la notte per lavoro. I gabbiani hanno questo di bello: se li vedi, non puoi fare a meno di seguirne il movimento, come fosse di vitale importanza conoscere la loro direzione, perché senza di loro il mondo non esiste. Non ci sarei neanch’io, a cercare d’intuire in quale modo le ali, bianche come pagine, proveranno che sempre, nell’amore, tutto è collegato. È il motivo per cui se sei qui, a leggere quello che ora ho scritto, è un miracolo che mai finirà di stupirti, di stupirmi.

Ricordare Liu Xiaobo

Ho pubblicato questa poesia di Liu Xiaobo sei anni fa – quando si sperava ancora che il poeta e premio nobel per la pace potesse, un giorno, essere liberato.
Infatti, ieri o l’altro ieri, ha lasciato la prigione. Non come uomo libero però, ma con un tumore in fase terminale. Senza, così sembra, alcuna speranza.
Ripropongo la lettura della sua poesia che è la lettura della sua persona.
Voglio anche ricordare che in questi giorni, precisamente il 7./8. 7, ad Amburgo si svolgerà il vertice del G20, dei potenti di questa terra. Ottimo occasione per stringere ancora più forte le nostre intime relazioni eco-politiche con la Cina, un regime totalitario che, per nulla diverso dalla Germania nazista, commette i suoi crimini contro l’umanità sotto la luce del sole che vuol dire alla visti di tutti.
Probabilmente, in questo intreccio perfido di esclusivamente interessi economici, siamo coinvolti tutti quanti.
Basta controllare le etichette dei vestiti che abbiamo addosso!

Per Liu Xiaobo – e per tutti colore di cui non conosciamo nemmeno il nome! – vivere significa morire.

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Il poeta cinese Liu Xiaobo è l’unico premio nobel per la pace al mondo, tutt’ora in prigione.  Co-autore della “Charter 2008”, un manifesto a favore della democratizzazione nel suo paese, nel 2009, Liu Xiaobo è stato condannato a 11 anni di prigione. Ovviamente gli fu impedito dalle autorità cinesi di andare a Oslo per la consegna del premio.

L’unico caso paragonabile nella storia è quello del giornalista  e pacifista tedesco Carl von Ossietzky ( 1889-1938) , impedito dal regime nazista a ricevere il premio a Oslo nel 1936. Due anni più tardi, von Ossietzky muore a Berlino in seguito ai maltrattamenti e la tortura subita in vari campi nazisti.

“Writers in Prision” , un organizzazione internazionale che si occupa di scrittori e poeti in tutto il mondo, detenuti in prigione per motivi politici, ha lanciato una campagna per la liberazione immediata di Liu Xiaobo.

Si propone la lettura pubblica della  sua poesia Tu mi attendi insieme alla polvere il giorno 20 marzo come atto simbolico. In questi versi, il poeta presta la sua voce a  tutti coloro che non hanno la libertà di parola e che, anzi, per le loro parole non gradite dai tanti regimi dittatoriali nel mondo, rischiano di pagare con la propria vita.

Come membro di “Writers in Prison” ho deciso di tradurre – e fare tradurre –   la poesia di Liu Xiaobo in più lingue possibili. Voglio precisare che tutte le traduzioni si basano sulla traduzione in inglese della poesia. Si tratta quindi di traduzioni libere. Sarà un atto filologicamente non del tutto corretto, ma, spero, giustificato dallo scopo…

Vorrei ringraziare di cuore a  tutti i traduttori che hanno risposto alla mia richiesta e invitare altri lettori ad aggiungere una traduzione nella loro lingua!

L’attività verrà segnalata a  “Writers in Prison” (London) e al “ Internationales Literaturfest Berlin” . Disse lo stesso Liu Xiaobo che  in un sistema dittatoriale, campagne pubbliche come questa , a volte, sono l’unico mezzo per  fare pressione sui regimi in questione.

E, purtroppo, al mondo ce ne sono ancora tanti.

Stefanie Golisch Continua a leggere

La visita


Se un extraterrestre approdasse sulla Terra, avrebbe molte cose da ridire. Noterebbe subito la mancanza di cordialità, l’antagonismo, l’atteggiamento difensivo diffuso un po’ dovunque. Perché questa paura? Perché tanta mancanza di condivisione? Si meraviglierebbe della freddezza nel compiere riti che dovrebbero invece rallegrare: le facce scure, l’aria depressa della gente chiusa nel tempio, l’indifferenza fra un tavolo e l’altro in ristoranti e trattorie, l’assenza di saluti negli auditori e negli stadi. Proverebbe a interrogare i passanti, chiederebbe, che so: come stai, o cosa c’è di bello nel tuo mondo. Ma la risposta sarebbe un silenzio sospettoso, un’alzata di spalle, un inarcamento rapido di sopracciglia, che direbbe assai più delle parole. L’extraterrestre, allora, vorrebbe raccontare qualcosa di sé, cercherebbe di suscitare un interesse, un desiderio di contraccambiare la visita di cortesia. Parlerebbe di luoghi in cui la gente si ferma a conversare, a scambiarsi pareri, ricordi, sensazioni. Tenterebbe di contagiare un entusiasmo, un inizio di sana emulazione, la speranza di cambiare, non tutto in una volta, ma almeno un poco al giorno. Alla fine, gli individui, i capannelli, la folla, lo prenderebbero di peso, trascinandolo all’uscita della loro malinconica città e lo appenderebbero a un palo, come monito per qualunque extraterrestre cui saltasse in mente l’idea balzana di venire qui. Molti rimarrebbero stupiti di non vederlo più sospeso in alto, il terzo giorno; si chiederebbero come sia possibile sparire in questo modo. Poi, con un’alzata di spalle, tornerebbero a guardarsi di traverso, a ignorarsi, a farsi dei dispetti da nulla, ma sempre fastidiosi.

William Merritt Chase, The Young Orphan

di Roberto Plevano

Era nel salone del piano nobile di Ca’ Pesaro. Forse fu concepita in un luogo così, e se non fu un salone, allora una calle nei pressi del canale, o un campo in un giorno di nuvole. Perché col sole l’intera città scintilla come un occhio febbricitante, ma è quando il cielo è coperto, e soprattutto al crepuscolo, che Venezia riceve quei lunghi raggi di luce riflessa che danno luccicanza al bianco e rosa dei marmi, ai morbidi grigi dei masegni, e non si spengono.

Qualcosa di questo brillio riluce nel fondo degli occhi della giovane donna del quadro. È uno sguardo che arresta.
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E se


E se Abramo avesse detto no, di fronte alla richiesta di uccidere suo figlio, se Mosè si fosse rifiutato di affrontare di petto il Faraone, se Davide non avesse voluto diventare l’uomo secondo il cuore di Dio, se Maria si fosse ritirata da un progetto troppo grande e impegnativo, se Paolo di Tarso avesse urlato “basta!” a tutto il dolore della sua missione, se Antonio, Francesco, Ignazio, Teresa, Teresina, Rita, Caterina, avessero cercato un’altra strada, più comoda, più gratificante, se tutto l’amore del mondo, la capacità di sacrificio, la rinuncia al proprio tornaconto, insomma, se avesse prevalso, sulla Terra, soltanto la nostra volontà, ebbene, oggi non saremmo qui: la catena di generosità, le mille forme del verbo dare si sarebbero esaurite, il moto della vita si sarebbe bloccato, proprio come rischia d’incepparsi ora, come se un corpo estraneo stesse per piombarci addosso, un pianeta alieno, un asteroide, in cui si rapprendesse tutto il male del mondo, l’affetto negato, l’onestà dimenticata, la giustizia ignorata, il bene soffocato dall’unico obiettivo reputato degno e conveniente: godere, possedere, dominare. E allora: grazie ad Abramo e a Mosè, a Davide e a Maria, a Paolo e a tutti gli uomini e le donne che chiamiamo santi, e al Santo dei Santi, che ancora una volta costruirà la sua arca di salvezza per chi gli dirà “sì”, con la sua vita.

SPIGOLI VIVI, di Daria De Pellegrini

spigo

Pubblichiamo alcuni testi, di grande valore, di Daria De Pellegrini, dalla raccolta “Spigoli vivi”, uscita da poco presso le edizioni di Interno Poesia, con la prefazione di Franca Mancinelli.

*

abito pensieri bassi e bui come
queste stanze dalle finestre piccole
dove a dicembre il sole, occhieggiando
strabico tra cataste e magazzini,
viene a dire che abbandono e polvere
sono impudica e prematura resa.

*

neve, non molta. Quel tanto che basta
per non uscire a spalare. Aspettare qualcuno
che non verrà. O altra neve, sicura prima
di sera. Il pettirosso vola nervoso dove
erano torsoli sul mucchio dell’umido.
Lui sa allontanare anche i corvi.
Alla finestra io fantastico
che finiscano presto
cibo legna e gasolio.

*

nella casa chiusa da decenni
tornerò per godere la paura
tra il fumo della stufa e il buio
delle stanze tutt’intorno alla cucina,
tremando che gli oggetti fedeli
a chi li amò e a me del tutto ostili
mi faranno tanto male quanto
un coltello può su una tendina lacera

*

l’aldilà come un presente
eterno di bambini orfani,
ognuno per proprio conto intento
a giocare con i lego,
mattoncini di una vita
da montare e rimontare,
e se di qua si chiude
da dementi di là si godrà
nel gioco qualche azzardo
e non sarà l’inferno ovvio
del piangere e rimpiangere
su dolori dispetti e dispiaceri

Fiabe


Un tempo si raccontavano le fiabe, dove il lupo era il lupo, l’orco l’orco , la fata la fata. Oggi il lupo è travestito da fata, e viceversa. Il bambino non distingue più tra chi lo salva e chi lo sbrana, e cresce con l’idea che un’azione cattiva possa essere anche buona: insulta, ferisce, uccide, come se collezionasse fioretti per la prima comunione. In un mondo in cui bene e male si confondono può accadere di tutto: è già un miracolo che una macchina si fermi al rosso, che un cliente paghi la spesa, che un uomo o una donna vadano al lavoro. Ma capita più spesso che un’auto ignori la segnaletica stradale, che qualcuno si appropri della roba altrui, che la gente si assenti dai doveri quotidiani in modo fraudolento. Quando tutto sarà capovolto, ci guarderemo in faccia e proveremo a chiederci da dove sia nata questa storia. Riesumeremo dal cassetto le fiabe di un tempo, dove il lupo era il lupo, la fata la fata, l’orco l’orco. Sperando, di nuovo, che tutto finisca per il meglio.

103. Il torto e la ragione


Scoprivamo sempre meglio quello di cui i Padri erano stati convinti dall’inizio: il segreto della vita di fede è la memoria dell’amore. Senza il ricordo, la storia, la traccia concreta che giace nel profondo, non può esservi fede, ma solo un’aggiunta posticcia senza carne né sangue. Del resto, non era stato l’ultimo arrivato a dire: “fate questo in memoria di me”. E il memoriale era l’asse portante non solo del Nuovo, ma anche del Primo Testamento. La vita cristiana è l’unica realtà in cui si può dire, con un’accezione positiva, che si vive di ricordi. Il primo Vangelo è tutto nel paolino “vi trasmetto quello che a mia volta ho ricevuto”. Il tempo, per noi, era dunque scandito da un intreccio incandescente tra il futuro apocalittico, il presente dell’attesa e un passato nel quale rirovare le radici profonde di cui tutto si nutriva, in aperto contrasto con la superficialità inquietante di un’eresia, ormai, acclamata e conclamata. Ci veniva in mente la parabola del seminatore, con la sua denuncia dei terreni inconsistenti, incapaci di portare frutto, e la necessità di un’accoglienza attenta e generosa del seme-Parola, della sua azione potente e rigeneratrice. Chi aveva interesse a occultare una verità così lampante? Chi poteva arrivare a strappare dal cuore della gente l’unica possibile fertilità, condannandola a un destino da zombi o da automi, a una vita senz’anima, così lontana dal credo-spero-amo di cui don Mario s’era fatto banditore? Ancora una volta, gli eventi avrebbero chiarito con la forza incontrovertibile della realtà da quale parte fossero il torto e la ragione.

CRESTOMAZIA 27: “Sì come i marinar’ guida la stella” di Monte Andrea da Firenze

“Sì come i marinar’ guida la stella” di Monte Andrea da Firenze

Sì come i marinar’ guida la stella,
che per lei ciascun prende suo vïag[g]io,
e chi per sua follia si parte d’ella
radoppia tostamente suo danag[g]io:
la mia dritta lumera qual è, quella
che guida in terra me e ‘l mi’ corag[g]io?
Voi, gentile ed amorosa pulzella,
di cui m’ha mess’ Amore in segnorag[g]io,
ché troppo è scura la mia via e fella
a gir, se vostra lumera non ag[g]io.

La qual fa disparere ogn’altra luce,
ché, laove apar vostro angelico viso,
altro sprendor giamai non vi riluce.
Pulzella, poi m’avete sì conquiso
che sol per voi mia vita si conduce,
merzé, dal vostro amor non sia diviso.


“Dell’altra moltitudine che abbiamo di versi, quasi infinita, ha scelto ciò che gli è riuscito o più elegante, o più poetico, o anche più filosofico, e infine, più bello […]” (Tratto dalla Prefazione alla crestomazia italiana de’ poeti di Giacomo Leopardi)


CRESTOMAZIA

La poesia del pianoforte: intervista a Sivia Belfiore


di Guido Michelone

 

Un nuovo CD ‘Per Musicam Ad Divinum’, basato sui Vangeli porta alla luce la poesia del pianoforte di Silvia Belfiore, giovane solista alessandrina che sta lavorando a un progetto impegnativo, riguardante l’edizione discografica dell’opera omnia pianistica del compositore casalese Federico Gozzelino. In esclusiva e in anteprima per ‘La poesia e lo spirito’, Silvia Belfiore racconta questa straordinaria esperienza. Continua a leggere

Mettiamo


Mettiamo che non fosse questa qui la vera storia del mondo, che Trump stesse solo fingendo di guidare l’America, che l’Isis usasse dei pupazzi per mettere paura, che l’Ilva non inquinasse proprio nulla, che anzi spargesse, nel cielo sopra Taranto, un profumo delicato di violette. Mettiamo che non ci fossero pochissimi ricchi a sfruttare una moltitudine di poveri, che la TV, la radio e i giornali non si lasciassero condizionare da un manipolo di lobby, che le strade non continuassero a essere infestate da prepotenti che saltano la fila. Mettiamo che Dio fosse contento delle sue creature, che non prevalessero rancore e antagonismo nei rapporti sociali, nelle stesse famiglie, che non si moltiplicassero ogni giorno odi invincibili per un’eredità, o per un semplice parcheggio; mettiamo che cibo e bevande non fossero avariati e non si registrasse un dilagare di tumori a causa dell’inquinamento alimentare e atmosferico; mettiamo che la merce si rivelasse davvero come appare negli spot, che i cuochi si lavassero le mani e che il libero pensiero non venisse conculcato da mille repressioni. Mettiamo che, per il solo fatto di scriverlo, le contraddizioni del mondo, personificabili e riconoscibili, si consegnassero a un’autorità superiore che decretasse la fine di ogni male; mettiamo che i conti tornassero, che svanissero nel nulla ingiustizie e cattiverie, che si potesse uscire in strada ed essere abbracciati come un amico che non s’incontra da tempo. Mettiamo che il cambiamento cominciasse da me, o da te che stai leggendo. Allora scrivere servirebbe a qualcosa, e non avrei perso una decina di minuti della mia breve vita.

Franco Di Giorgi, Una lettura dell’Ottava Elegia duinese

Les choses ne sont pas cachées – elles sont évidentes. Ce sont nos yeux qui sont voilés, épais, chargé de mémoires, d’a priori qui défigurent ce qui est devant notre visage. (Jean-Yves Leloup, commento al quinto lòghion del vangelo di Tommaso: Gesù diceva: Riconosci ciò che è dinanzi al tuo volto).

Una lettura dell’Ottava Elegia duinese
di Franco Di Giorgi

Sia in alcuni scritti critici ed estetici raccolti in Del poeta (Einaudi, Torino 1948) sia soprattutto nell’Ottava delle sue celebri Elegie duinesi Rainer Maria Rilke scopre nell’occhio umano quella specie di limite che un secolo prima Novalis aveva individuato all’interno dell’intelletto. Un limite visivo che, come un destino (Schicksal), non consente all’uomo di poter vedere l’esterno (draußen) e soprattutto quello che egli chiama das Offene, l’Aperto. Continua a leggere

È arrivato il tempo


Quando accadde la cosa, se ne accorse soltanto chi rimase in vita. Il mondo fu messo in ginocchio. Quanti commenti arguti non videro la luce, per la scomparsa di famosi opinionisti! Qualcuno, forse, ne avrebbe sentito la mancanza. Ma quel qualcuno, nella catastrofe, fu spazzato via.
Ora tutto è cambiato. I social non esistono più, è impossibile mettere un “mi piace” a qualche post a effetto. Tutto è essenziale come ai tempi delle Origini, dove il verde era verde, l’azzurro era azzurro, e non c’era bisogno di spiegarne il senso. Ora ci si guarda negli occhi e ci si dice il vero, magari con belle parole, ma senza pretendere o desiderare qualche genere di approvazione.
Ora, in un negozio, si vende un certo tipo di merce, e perfino in Chiesa si parla e agisce in sintonia con i duemila anni precedenti. Ora nessuno ha intenzione di confondere le carte, di mescolare i riti, di mettere insieme quello che insieme non ci sta. Si dice pane al pane, vino al vino, e non si tengono o annullano discorsi per far piacere o per non dispiacere.
Ora che il mondo è in ginocchio, è più facile guardare verso l’alto, accorgersi che è bello che Qualcuno ne sappia più di noi.
È arrivato il tempo di ricominciare: rimbocchiamoci le maniche, lasciamo fare a Dio.