Archivi categoria: Fabrizio Centofanti

Continua a leggere. 67


La colonna sonora dell’adorazione s’intreccia col gorgoglìo dell’acqua della bombola a ossigeno, con l’ansimare del condizionatore, che sembra sempre sul punto di spirare, come tutti i condizionatori che si rispettino in questa estate torrida, con i passi felpati della badante africana che non vuole disturbare, coi rumori provenienti dal piano superiore, le grida dei bambini, della cognata sul punto di una crisi isterica, coi richiami della piazzetta che ci ha visto giocare da bambini, col canto degli uccelli, il frusciare dei pini, lo scorrere lento della storia, che certamente ha un senso, anche se in pochi lo capiscono. Che ne pensi, lettore, che ne pensi lettrice? Dio, da qualche parte, fa il tifo per noi, ci suggerisce, cercando di parlare più chiaro del nemico, che è sempre lì, a confondere le carte. Mi commuovo pensando a questa lunga battaglia che si svolge in mezzo a noi, dentro di noi, questa guerra all’ultimo sangue tra il bene e il male, mentre qualcuno vede le partite, qualcun altro agonizza sul letto d’ospedale, i bimbi giocano nella piazzetta e io già m’innamoravo della bambina bionda che veniva in bicicletta dall’isola di fronte, gettando lo scompiglio nella banda di noi nullafacenti imberbi e stralunati, com’è giusto a quell’età, quando ancora non sai niente della partita a scacchi tra l’Onnipotente e il suo avversario, e torni a casa sudato, pronto a divorare quello che la mamma mette sulla tavola, e ora che è distesa sul letto e si addormenta davanti alla TV, ti sembra, all’improvviso, che siano passati secoli o millenni, e non vedi quasi l’ora che Dio ti dica vieni, combatti con me, ah, me l’ha già detto, sono anni che combatto, inseguendo i rumori della colonna sonora della trasmissione, della bombola a ossigeno, del condizionatore che non ce la fa più, ma continua a respirare, come mia madre, che ha gli occhi fissi sull’Ostia, come se dovesse giungere da lì l’unico rumore, l’unica voce degna di essere ascoltata, come se la storia scorresse tutta verso quel punto, e tutti, tutti, nello stesso momento, dicessero, anzi, gridassero: vieni, vieni Signore, non ci abbandonare in questa lotta sanguinosa, dicci, grida anche tu, che alla fine, proprio alla fine, vinceremo.

0
2

Continua a leggere. 65


È bastato un solo giorno di pioggia. Dopo una lunga siccità, un caldo innaturale, ci sembrava che non potesse accadere, come un tempo sospeso, un’epoca senz’acqua, un cielo azzurro per forza, da meraviglia a condanna, da squarcio mistico a incubo infernale, quando si dimenticava che cosa fosse una nuvola, per non parlare di un ombrello – immagini? un mondo senza ombrelli, queste trappole fatte per essere perdute e ricomprate, se persino le canzoni – Azzurro, di Conte – diventavano antipatiche, addirittura insopportabili, se persino i vescovi cominciavano a fare la danza della pioggia, o la preghiera, non ricordo, e tornavano alla mente le giornate grigie, i nuvoloni che sembrano ovatta impolverata, così cupi e così desiderati, è bastato un giorno di pioggia per cambiare lo scenario, per sentire il sollievo dei giorni di montagna dove avverti l’odore inconfondibile, hai presente, lettore, hai presente, lettrice, quell’odore perduto, che ti afferra e ti porta in un’altra dimensione, ti ricorda di te, perché il peccato, lo sai, è dimenticare, non tenere presente, non apprezzare più, questo è il problema: non dire più grazie. L’ho annunciato, nel funerale di stamane – tanto nessuno legge – che ringraziare è il paradiso, è l’angolo di cielo che cerchiamo, e così, lentamente, ti rammenti del battito del cuore, dicevano i Padri, la vita di Dio dentro di te, la forza, l’energia, il potere vero che puoi comunicare, di cui ti servi per realizzare la missione, la tua missione folle, incompresa, che qui, fra gli alberi delle confessioni, appare di nuovo decisiva, l’unica possibile, e allora eccolo, si affaccia di nuovo, si propone, esplode, il fantastico, straordinario, ineguagliabile – l’ho detto anche nel funerale di stamane, il vero testamento – il grazie. In paradiso sarà l’unico linguaggio. Basta un giorno di pioggia, per capire.

Continua a leggere. 64


Il tronco è tagliato alla base: era un albero maestoso, uno di quei pini che svettano e vedi da lontano, per esempio dalle scale che partono dalla piazza del santuario antico, e che percorri come un viaggio dell’anima o del cuore, in cui un gradino è un’epoca passata, un cerchio dell’albero, un tronco tagliato via di netto con l’accetta, come il Battista predicava, sant’uomo d’altri tempi, che parlava della scure posta alla radice, siamo lì, qualcosa che va tolto, o trasformato, che dovrebbe ritornare come un tempo, in origine, quando tutto era buono, anzi, addirittura molto buono, perché Dio le cose le fa bene, non vorremo anche dargli la colpa dei pasticci, e così, dicevo, l’albero, che poi, era l’albero della vita o qualcos’altro? che c’entra l’albero del bene e del male? Forse perché l’ebreo non era tanto interessato a quello che chiamiamo eternità, ma a ciò che definiamo morale, a come mi comporto, a cosa scelgo, e l’uomo, la donna, ish e issha, decisero loro cos’è bene e cos’è male, e così venne fuori un tronco storto, ed è quello che vedo, a pochi metri da qui, è il taglio radicale che il sant’uomo del Giordano auspicava o temeva, valli a capire questi santi. Il vento si è alzato in uno spazio di peccati e confessioni, in questo luogo che non avrebbe motivo di esistere se l’uomo e la donna non avessero mangiato il frutto, se il serpente non li avesse convinti a pensarsi come dèi, che poi, io dico, è meglio tenersi sempre bassi, è meglio fidarsi di qualcuno che affidarsi ad ambizioni smisurate, come quelle del demonio, sempre fuori misura, dall’inizio. I pappagalli conversano tra loro, non finiscono mai di raccontare, come se vivere non fosse che un racconto senza fine, interrotto da azioni secondarie, dormire, mangiare, che vuoi che sia rispetto allo snodarsi continuo degli eventi, al ritrovarsi qui con un taglio radicale, con l’idea di ripartire da capo, ora che hai capito che all’albero della vita ci si arriva arrotolando il nastro, tornando a quella prima parola, alla cosa molto buona che abbiamo perso per strada, lettrice, che abbiamo perso per strada, lettore, ma ti pare, come si fa a permettersi errori così scemi, come si fa a non capire? Come si fa a sbagliare vita?

Continua a leggere. 63


Che sia la volta buona? Che davvero, questa volta, cadano le squame, che si cominci a vivere, ora, proprio ora che cambia il tempo, che il sole dei giorni passati cede il posto alle nuvole – bianche, grigie, nere -, che l’acqua spazzi vie le maschere e non resti che la nuda verità? I preparativi sono incerti, non sai mai se basteranno le valigie, se basterà il viaggio per tornare fra persone che di te non sanno nulla, mentre tu sai quasi tutto, di loro. Il silenzio di attimi, che divide un brano dell’organo dall’altro, ti ricorda che c’è un poi rispetto alla realtà, un abisso di silenzio in cui fare le tue scelte, in cui il giudizio finalmente cade, come quel giorno che parlaste e tu sentivi che nulla era più come prima, e che i passi della gente, l’abbiare dei cani, l’oscillare degli alberi era quello di sempre eppure tutto era diverso, come se le cose incontrassero una luce accecante che le trasformava. Pregare, inginocchiarsi, giungere le mani, gesti che si fanno in automatico, rituali che danno sicurezza, forme che la gente può approvare: la gente, la gente, come se la gente fosse qualcosa, come se non fossimo veri solo davanti a quell’abisso di silenzio, tra un brano d’organo e l’altro, come se ogni azione, ogni sguardo, ogni parola, non fossero la copia difforme di qualcosa che suonerebbe vero solo in quel silenzio, tra un brano e l’altro, tra una vita e l’altra, fino al giorno in cui ogni mossa sarà autentica, il volto del Cristo risorto, le mani non più giunte, i ginocchi ritti, lo sguardo fisso su di Lui, in attesa di una Sua sentenza, eppure tace, tace, non dice una parola, solo ti guarda, come se chiedesse a te di raccontarti, di vedere in un attimo tutta la tua vita, di cercarne il senso, di capire se resista un gesto, una parola, la cipollina data al mendicante, il sorriso regalato per nulla, la mano tesa verso l’altro, se ci sia stato anche solo un atomo, una particella subatomica, che si possa chiamare, anche di sbieco, anche forse per sbaglio, che si possa chiamare amore.

Continua a leggere. 62


Non avevo capito che la musica piena, spiegata, era il segno del dono, della grazia ricevuta in questi giorni. Con Dio bisogna stare attenti, a ogni minimo dettaglio. Sono esattamente nello stesso punto in cui don Mario ha scritto le preghiere: era dopo l’ictus che l’aveva devastato: colpito, ma non ucciso, oppresso, ma non schiacciato, e scriveva e sudava, l’ho già detto, lettore, l’ho già detto, lettrice, ma come si fa a non ricordarlo, ora che sono qui, esattamente nello stesso punto, e la musica dell’organo ricorda che tutta quella sofferenza, quell’eccesso di dolore è diventato gloria, note sublimi che lui ascolta come me, insieme con me, fra terra e cielo, perché qui, davanti alla cappella dei francesi, non c’è più differenza fra alto e basso, superficiale e profondo, è un grande abisso di luce, ciò che Kafka temeva, quando l’amico gli chiese perché non aderisci a Gesù, tuo correligionario, e lui rispose perché Cristo è un abisso di luce e bisogna chiudere gli occhi, per non precipitarvi. Ma ora so, davanti alla cappella dei francesi, esattamente nello stesso punto in cui don Mario ha scritto le preghiere, ora so che l’abisso di luce è il nostro luogo, la nostra vera patria, e che qui siamo tutti pellegrini, in cammino verso noi stessi, come Abramo, quel giorno che partì senza sapere dove andava, e ora che la musica suona, spiegata, trionfale, ora che i giorni sono quasi finiti, e che torno da mia madre, nell’eccesso del dolore, ora so che proprio qui è il mio luogo, che questa è la mia patria, e ogni volta che tornerò qui, davanti alla cappella dei francesi, esattamente nello stesso punto in cui don Mario ha scritto le preghiere, mi chiederò come ho fatto a non capire, quel giorno, che questo era il tuo segno, Signore, che questo era il mio segno.

Continua a leggere. 61


Non più note stirate, pesanti accordature, è una musica che fluisce cristallina, come lo spirito – mi dirai, cos’è lo spirito? le note corrono come allegria inattesa, come quando mi dicesti del sogno di don Mario, e io che pregavo così tanto, ecco cos’è lo spirito, nella cappella dell’adorazione è pieno di oranti, di orazioni, di orecchie che ascoltano – cos’è che ascoltano? dirai, lo spirito, le note che ora s’interrompono, manca poco alla messa, persone parlottano qui dietro, arrivano messaggi dalla chat sulla salute fisica di mamma, pericoli, paure, e poi speranze, come quella di Peguy, la sorella più piccola che trascina le grandi, l’ho sempre vista così, anche ora che l’organo non suona, che il piccione non irrompe nella cappella dei francesi, ricordi? ricordi? eppure ancora appari, nei sogni degli amici, in questa estate più calda di tutte, ora che il mondo può finire, ma certo non stasera che vado dal poeta, girato altrove rispetto alla gente nella piazza, zotica, vil, cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo son dottrina e saper, per questo il mondo non potrà finire stasera a Recanati, perché ancora una volta ci incontriamo, dietro la siepe da cui ancora intravedi l’infinito pur non credendo, con quella poesia che piace a Dio, – chi è Dio? mi dirai, nella cappella dei francesi entrano, escono, solo io sono fermo in ginocchio, con l’organo che ha smesso di suonare perché c’è la messa, e io, dietro queste suore, dietro il ragazzo con la maglietta blu, dietro le grate, dietro il tempo e lo spazio degli umani, anch’io intravedo l’infinito, vedo Te che non smetti di guardarmi, di pensarmi, anche ora che la musica è finita, che il poeta mi aspetta, a undici chilometri da qui, con le spalle al popolo ignorante, che si chiede, a volte, chissà dove ho sbagliato, chissà perché non l’abbiamo mai capita, la poesia – cos’è la poesia? mi dirai, è quasi come Dio, il quale non va a capo, però, Lui che mi guarda, proprio lì, oltre la siepe, oltre il poeta che crede, che crede in qualcosa, ma non sa cos’è.

Continua a leggere. 60


Le note dell’organo, perché? Forse vuoi dirci che dobbiamo accordare, in mezzo ai suoni stridenti che inquinano l’udito, che disperdono qualunque sintonia, le note, le note, una per una, una dopo l’altra, allungate, stirate, come a dire è così, non può essere un’altra, o altre, è solo così che suona l’universo, sullo spartito del Creatore, la musica che cerchiamo ogni momento, quella che inseguiva don Mario, proprio qui, quando ha composto le preghiere, e sudava, sudava, e scriveva, scriveva, e le note, una dopo l’altra, seguivano il suggerimento del Creatore, Lui solo sapeva, anche ora, nella cappella sbattuta dal vento di due ventilatori di metallo, al contatto col sudore, ci ammalia, ci convince, Lui solo conosce i miei pensieri, quelli ancora sepolti, quelli che ancora aspettano che il vento li reclami, le preghiere di don Mario che aleggiano, spinte da correnti misteriose, stai parlando, vuoi dirmi qualcosa, in questo tempo fermo, in questo grido che sorge dal profondo, le note, le note, ora le sento, mi guidano verso le preghiere, le stanno ripetendo all’infinito, come se tutto l’universo non fosse che questo stirarsi, allungarsi sullo spartito dell’eterno, come se il fatto di stare avanti a te, Creatore, direttore d’orchestra, unico maestro, che parli al mio cuore silenzioso, immobile, scosso soltanto dai due ventilatori di metallo, come se Tu volessi dirmi, il vento, ricordi, il grano, mi diceva, quando scuote il grano, la nota, la nota, il passaggio, la musica di Dio, qui dentro, per un attimo, o per l’eternità, ora, era ora di venire qui, a sentire la tua musica, Creatore.

Continua a leggere. 58

Una zanzara non ha una bella vita. Sempre in cerca di sangue, ha molte probabilità di estinguersi schiacciata, o folgorata da dispositivi elettrici o a ultrasuoni, o avvelenata da qualche zampirone. Sarà calata nella parte, accetterà la sua missione di rendere difficile la vita, si sentirà perfino utile, in prospettive teologiche ineffabili. Se fossi una zanzara, mi sentirei a disagio, anche se il maschio si nutre di nettare, non è così nocivo. Convivere con una partner che succhia il sangue altrui mi metterebbe in imbarazzo, come avere un famigliare della banda Baader-Meinhof. Dirigevo spiritualmente un brigatista pentito, della cellula di Ostia, che mi dava l’impressione di saperne meno di me di quel mondo dove il sangue scorreva copioso e non si faceva caso ai dettagli personali, come la zanzara non si chiede mai che tipo sia il soggetto del prelievo. Quella che mi gira intorno, per esempio, ignora che io scrivo di lei, tra un penitente e l’altro, non s’immagina di passare alla storia  in queste pagine che ne immortalano la presenza fastidiosa, insieme al gatto sdraiato qui vicino, ai botta e risposta degli inseparabili, agli insetti che s’incrociano sullo sfondo della chiesa all’aperto. C’è sempre qualcuno che succhia il sangue a qualcun altro: noi lo succhiamo a Dio, se questo è il mese del preziosissimo Sangue di Gesù, se lo prendiamo di mira come allora, zanzare insaziabili e incoscienti, che non sanno di far parte del grande racconto della vita, che scendono in picchiata a pungere la vittima di turno, ignara, incolpevole, come se il male fosse questa forza cieca che non ti guarda negli occhi, si disinteressa togliendoti la vita, ti distrugge pensando a qualcos’altro. La zanzara è il simbolo del caos; per questo il Cristo insegna a perdonare i nemici: non sanno perché succhiano il sangue, perché opprimono, salassano, massacrano. Perché, invece di nettare, si nutrono di sangue.

Continua a leggere. 57


È tutto apparentemente così calmo, un quadro manierato, ogni cosa al suo posto. C’è un gatto sdraiato proprio sotto l’altare di pietra, boccheggiante per il caldo. Chi mai direbbe che sotto la patina bucolica si svolge una lotta furibonda, un duello tra la vita e la morte, il bene e il male. Basta poco, per accorgersene: la malattia di mia madre, le incursioni del demonio, che si presenta per distruggere al momento opportuno, come sempre. 
È tutto apparentemente così calmo. I corvi passeggiano sul tetto erboso del santuario: un’invenzione sorprendente, per dire che la fede è incastrata nella vita e non possiamo pretendere di stringere il cielo tra le mani. Mi sento come il primo uomo sulla luna: c’è tutta la precarietà di un universo insidiato dal serpente, un arazzo sul punto d’essere sfregiato, un ponte sospeso sopra il nulla. Mi affaccio alla ringhiera e vedo Orione, con la sua cintura di brillanti, Vega, Betelgeuse, Alpha Centauri, e mi chiedo se qualcuno, se qualcosa, in questo immenso scenario, sappia della partita a scacchi della terra, del dolore, dell’attacco mortale del nemico. Il gatto si rotola, proprio sotto l’altare: non lo incuriosiscono le grida stridule dei corvi, che ha a lungo inseguito, in stagioni meno torride. Siamo in tre nel boschetto delle confessioni, che si affaccia sull’abisso del peccato: da qui si vede Andromeda, il Cigno, Cassiopea, s’incrociano Ofiuco, la Lira, il Sagittario; ti sembra di toccare le braccia della Vergine, di prendere l’Orsa minore per la coda, di bere dalla brocca dell’Acquario. È tutto apparentemente così calmo. Basta un passo per sprofondare nella tenebra, per farsi abbracciare dalla luce. Ricominciare la partita. Il gatto non si fa confondere: impara da loro, mi diceva don Mario, e aveva ragione, come sempre.

Continua a leggere. 56


La finestra di don Umberto è l’altro occhio: vede tutto, da quella postazione che è al di là del tempo, dove le beghe umane sono giochi di bambini che nulla hanno compreso della vita. Non sappiamo. Però facciamo finta: come il pellegrino che parla nello smartphone a voce alta, snocciolando l’elenco delle medicine come se dovessero aggiornarsi tutti sulla terapia. Sì, la terapia: i pensieri che producono emozioni, che stanno al di là della finestra, nel tempo senza tempo dell’infanzia, quando un dolore, una paura, un’allegria, sono per sempre. Siamo appesi sul nulla, ma inseguiamo una logica qualunque, associazioni mentali per cui questa signora dovrà dirmi del figlio operato tante volte, o quel giovane chiederà informazioni sul celebrante della messa, la segretaria passerà
  con un rumore di tacchi e di efficienza che testimonia a favore di un qualche ordine dell’universo. La salute mentale è un’utopia? Se mettessimo insieme i frammenti sparsi in questa piazza – sentimenti, pensieri, intenzioni, gli istinti più brutali, le repressioni patologiche, le ambiguità, e tutto l’armamentario della mente -, ne avremmo a sufficienza per un manuale diagnostico statistico,  che non direbbe nulla, tuttavia, sul versante da cui don Umberto inquadra tutto questo dalla finestra di fronte, da cui l’eternità si affaccia con la consueta discrezione, come potesse influire sulle cose, ma avesse al tempo stesso imparato, da Dio, la libertà. Eccolo il punto: siamo liberi? Potrebbe questa signora a due metri dalla porta evitare di chiedere l’ubicazione dell’ufficio, il sacerdote che confessa fare a meno di parlare a voce alta, il signore con la mascherina non fissarmi così, chiedendosi cosa ci faccia un prete al cellulare in quest’angolo di mondo? Fermiamoci un momento: proviamo a fare qualcosa di diverso, una cosa qualsiasi, purché non sia quella che gli automatismi della psiche ci costringono a fare in questo istante. Una tortora si posa sul tetto della chiesa, si guarda intorno, con movimenti a scatto. A un certo punto, decide di volare.

Continua a leggere. 55


Si aggira intorno all’ingresso del santuario come una tigre intorno alla preda: come dev’essere chiedere sempre? È una psicologia particolare? Si vede tutto sotto questo aspetto? Riguardo a loro, è inevitabile che qualcosa si perda, sia rubato, sottratto; perfino il nome ha un destino di rapina, perché non si sa mai come chiamarli: nomadi, zingari, rom? Neanche la pignoleria del politically correct ha potuto battezzarli. Ma è altrettanto inevitabile chiedersi se non siamo coinvolti anche noi in questo eterno nomadismo, nella loro romità, nell’essenza zingaresca del pellegrino sul pianeta terra, sempre in cerca di qualcosa, questuante, invadente, importuno, esposto a rimproveri e minacce, senza fissa dimora, con quell’aria supplichevole, colpevole e furba che è quasi una seconda pelle. La facciata del santuario è scrostata; se potesse, chiederebbe anche lei: verniciami, restaurami, abbi cura di me. Anche il libro che ho davanti chiede d’esser letto, la sedia di essere usata senza urti e spintoni, la signora che esce dalla messa di venire salutata, questi tre che arrivano ora d’essere accolti per la benedizione della macchina; io stesso chiedo d’essere ascoltato da me stesso, di ritornare al centro, dell’anima, del cuore, dove c’è qualcuno, uno solo, che non chiede, che dà, al nomade, alla sedia, alla facciata del santuario, l’unico capace di prendersi cura e restaurare, l’unico a cui rivolgersi per ottenere una fissa dimora, un obolo salvifico, una benedizione che tocchi quella corda, proprio quella, che duole, che preoccupa, quella paura d’essere che ci prende alla gola e chiede, reclama, supplica, fino a essere importuna, invadente, soggetta a rimproveri e minacce, oppressa dal senso di colpa per il fatto di stare, semplicemente, qui. Attingendo al Donatore, il rom che siamo tutti noi, nessuno escluso, può fermarsi, sorridere, e smettere di chiedere almeno una volta, nella vita.

Continua a leggere. 54


Mamma scrive i messaggi sullo smartphone. La vedo da qui, da una galassia lontanissima, quella dei ricordi, dell’infanzia, delle uscite al Belsito, le corse con le biglie, sulla spiaggia, la faccia di Gimondi, che vinceva sempre, almeno mi pare, da qui, dalla nebbia del futuro. O in montagna, nell’albergo dei laureati cattolici, come se i diplomati fossero da meno. Mi ricordo le marce forzate col gesuita sardo, la sosta nei rifugi pieni di grappa, di voci alterate dalla gioia d’avercela fatta, finalmente. Telefona la penultima sorella, che racconta della festa del figlio, degli auguri cantati e del suo imbarazzo di nipote troppo timido. Ho detto a mia madre della mia vacanza, del viaggio che è sempre nel tempo, delle incursioni con don Mario, le preghiere dopo l’ictus, e sudava e scriveva, e scriveva e sudava, davanti alla Cappella dei Francesi, con la mia ansia per la sua salute, le malattie infinite, il dolore a catena , come nelle fabbriche, come se senza dolore non valesse, come se Dio volesse somigliare a noi, il Crocifisso del Calvario, come se tutto ripartisse da lì: se è possibile, allontana da me questo calice, ma no, non è possibile, tutti lo sanno, c’è una galleria da attraversare, come al luna park, con le streghe che ti colpiscono con la scopa di paglia, e quando esci ti sembra che tutto ti spaventi, anche il bancone dello zucchero filato. Ricordi, ricordi? Al cinema eri svenuto all’improvviso, cosa sarà stato? Una delle tante malattie, la reazione a catena, la fabbrica della sofferenza, mentre il cavallo diviso a metà del Barone di Münchhausen beveva, beveva, come mia madre che prende la medicina rossa che non può sopportare perché è amara, amara come il calice del Gat Shemanin, se è possibile, lo sai, non è possibile, da questo tempo dilatato, ora che le ho detto della mia vacanza, ora che il passato diventa già futuro, che la badante le fa bere il farmaco per la cistite, ora che don Mario si riprende, che usciamo dal cinema più risollevati, ora che abbiamo pagato il nostro dazio, ora, lettore, ora lettrice, solo ora, tutto riparte, tutto, come sempre.

Continua a leggere. 53


La Madonna, da qui, non si vede: l’immagine ufficiale sta sopra l’altare; poi c’è la statua in cima al tetto, ugualmente invisibile, da qui. Nell’ufficio delle letture, sant’Ambrogio ci ricorda che l’essenziale è invisibile agli occhi. Prima della volpe di Saint-Exupéry. Il nostro carisma è non vedere, è fidarsi: che la Madonna stia là dentro, stia là sopra. Gli occhi del piccolo principe si spingono al di là, come quelli dei bambini. Il bambino vede così bene perché ha incorporate nel cuore fede, speranza e carità. Chissà che fine fanno, dopo. Restano lì dentro, sull’altare; o là sopra, sul tetto. Ci infiliamo nel tunnel, iniziamo la scalata, per recuperarle. Le signore si avvicinano per la confessione, i pensieri si interrompono. Dio mi deve perdonare, dice, perché gli chiedo: dove sei? Il Padre ci guarda; aveva fatto la stessa domanda all’Adamo, quel giorno: dove sei? Dio e l’uomo si cercano, non vedono l’ora d’incontrarsi. A volte si perdono, almeno a quanto dice la signora: Dio mi deve perdonare perché gli domando: dove sei? Dov’è Dio? Dove lo si lascia entrare, dicono i rabbini. Qui, la porta è aperta: sento la voce del prete che celebra la messa. Neanche lui riesce a vedere la Madonna: ce l’ha alle spalle, sopra l’altare; l’altra è sopra il tetto, invisibile a entrambi, come se davvero l’essenziale non potesse mai vedersi, come se quello che ciascuno cerca, potesse salutarsi solo da lontano.
  Dios está muy lejos, scriveva Garcìa Lorca, Dio è molto lontano. Davanti al plotone d’esecuzione, forse, l’ha sentito così, guardando la campagna all’alba, quando tutto è invisibile, se le lacrime ingombrano gli occhi. C’è qualcosa d’importante, che non può vedersi. Per questo, nella Bibbia, il verbo è un altro: ascolta. Ciò che è invisibile al piccolo principe, alla volpe, alla signora che è venuta a confessarsi, quello che è sempre un po’ più in là, sopra l’altare o sopra il tetto, tutto l’invisibile, lettrice, tutto l’invisibile, lettore, però si può ascoltare. Sì, si può ascoltare.

Continua a leggere. 52


Non è difficile immaginare il pellegrino che si trova all’improvviso davanti a un branco di cani inferociti. In fondo, è capitato anche a noi di provare uno spavento, un terrore: 
a me è successo il primo giorno di vita, provocando un trauma che mi ha abitato per anni, fino a quando, in via Prassilla, ho incontrato don Mario. La morte, che ci segue come un’ombra, ha sempre un appuntamento con la luce. Il pellegrino non avrebbe immaginato di essere aggredito a tradimento, altrimenti se ne sarebbe stato a casa: questa scelta, semplice, banale, avrebbe impedito la nascita del Divino Amore, la conversione di milioni di persone, il dispiegarsi della grazia che da secoli si effonde in quest’angolo di mondo. È inevitabile pensare che un fiume di bene proviene da un inizio doloroso, spaventoso, come un parto, quando, d’un tratto, si è costretti a lasciare una condizione di tranquillità per affrontare il pellegrinaggio della vita, il branco di cani feroci dei pensieri, delle situazioni, dei grovigli che l’esistenza ha in serbo per ciascuno di noi. Il santuario emerge da un pericolo mortale, da un vicolo cieco, una condanna senza scampo. Se non avessi dovuto affrontare una nascita così complessa, al punto che mi battezzarono il giorno dopo il parto per timore di non fare in tempo, non avrei sentito il desiderio di rivolgermi alla fede, né avrei vagato di vuoto in vuoto, fino ad approdare a via Prassilla, alle lunghe chiacchierate con don Mario, alla netta percezione di vedere, per la prima volta, i colori della vita, di sentirne i sapori, di scoprire i cani inferociti placarsi all’improvviso, come se la Madonna stessa avesse fatto un gesto, detto una parola, pensato un pensiero, e allora sì, valeva la pena sperimentare la paura, il senso di abbandono che mi aveva segnato dall’inizio, l’ansia dei genitori e dei parenti, la fretta di versarmi quell’acqua benedetta sulla testa, la faccia pallida e tirata di zio Eugenio, prete all’antica, con la casula di un tempo, la voce balbettante, e solo in questo modo avrebbe potuto nascere il santuario del progetto di Dio, l’opera da portare a compimento, la musica che avrei potuto suonare solo io, la gioia d’essere scampato ai cani inferociti, strumenti di una forza invisibile che si chiama Provvidenza. Se guardo la torre del miracolo, mi sembra già diversa: è il centro del mondo, la matrice delle storie, la madre di tutti i veri inizi.

Continua a leggere. 51

Se guardo, sembra uguale. Piccoli spostamenti impercettibili: una sedia più in là, un volo d’inseparabili provenienti dal santuario nuovo, un ramo di palma più secco e più piegato. È lo sguardo che cambia: l’attesa di un ritorno che si fa più intensa, un ricordo da purificare, un’idea da tradurre in azione. Il fatto è che qui, l’eternità, si tocca con mano: non c’è bisogno di morire per intuire una presenza, né del genio di Leopardi per vedere, oltre la siepe, una traccia d’infinito. Un uomo si confessa col foglietto in mano: legge i peccati a testa bassa, come parlasse da solo. La coscienza eterna si fa tempo in quelle poche righe, la scrittura è una fila di formiche che trascina un bagaglio pesante, una merce tossica da consegnare alla prima stazione di servizio. Siamo operai che scavano gallerie per arrivare al cielo, perché l’alto è nel profondo, tutti lo sanno. Siamo certi di giungere alla meta pur non vedendo nulla, per questo l’Altissimo s’impietosisce, all’altro capo del filo, sempre attento che il piede del passato non schiacci le formiche e le parole, che i sogni di salvezza non si trasformino nella disperazione nera di certi pomeriggi. Il silenzio è questo: i canti degli uccelli, il vento che scuote i tendoni dell’assemblea all’aperto, le suore che scendono come colombe bianche dalla casa in cima alla collina. Da qualche parte sparano, si ammazzano, tremano. I rumori della guerra penetrano fin dentro la preghiera, calano sul santuario come fiori in braccio alla Madonna. È qui, la sento: mi poggia una mano sulla testa, in questo tempo immobile attraversato da movimenti impercettibili: una sedia un po’ più in là, un ragno che striscia sul muretto, un manipolo d’inseparabili che torna in direzione del santuario. Con Lei tutto è diverso: non c’è più il tempo, il dolore, la paura. La guerra è diventata pace.

Continua a leggere. 50


Siamo qui, ma anche altrove: già voliamo verso la luce che ci aspetta, la pace che ci accetta come siamo, un amore che sognamo sempre e non troviamo. Il punto è questo: si desidera qualcosa che non c’è eppure c’è, perché altrimenti non potremmo desiderarlo così tanto. Già ci immaginiamo in quella luce, in quella pace, già tocchiamo con mano il mondo in cui i limiti svaniscono, e quelli che restano si trasformano in qualcosa di possibile. Già e non ancora. Se provassimo a vedere il mondo in questo modo, se fossimo profeti di noi stessi, intravedendo una terra che qualcuno ci ha indicato, qualcuno di cui fidarci ciecamente per trovare ristoro, oppressi e affaticati come siamo… Se leggessimo il Vangelo capiremmo: il problema è che il Vangelo vola al posto nostro, vola sulla dura cervice di noi tutti, come se il creato credesse a qualcosa d’importante e solo noi fossimo immersi in una insignificanza incorreggibile: 
insoddisfatti, viviamo di lamenti, di critiche, all’opposto di ciò che siamo veramente. Ma c’è dell’altro. Ho appena confessato una donna che ha passato di tutto. È entrata disperata. Ha sciorinato una serie sorprendente di eventi terribili, che ascoltavo con calma, come l’albero che accoglie la pioggia nel Siddharta di Hesse. Non so quanto tempo sia durata la cronaca agghiacciante. Più parlava, più ero calmo, raggiante. Si è calmata anche lei, un po’ alla volta: alla fine mi ha detto di quando le è sembrato di vedere Gesù, con un lungo abito bianco e i sandali marroni. È possibile sorridere in un film dell’orrore? C’è un oltre. C’è un Altro. Già e non ancora. Gli uccelli chiacchierano sull’albero di fronte. Loro ci credono, noi no. È questo il nodo da sciogliere. Oggi, adesso, prima che sia tardi.

Continua a leggere. 49


L’igienizzante e il cielo. Questo vedo dalla stanza provvisoria, mentre la signora mi rifà la camera e i confratelli salgono e scendono sulla scala di casa. È strano passare dal prodotto farmaceutico, simbolo delle prigionie del nostro tempo, all’emblema più potente di un Dio che è libero e che libera: come se urgesse una scelta non più procrastinabile. Gli operai gridano, dal piano di sotto. Le porte si aprono e si chiudono. Le voci delle donne delle pulizie s’incrociano sorvolando le cose di ogni giorno: il sapone, la sedia, il secchio con lo straccio. Si costruisce, si ripara, si pulisce, come se qualcosa minacciasse sempre di marcire, o di crollare, come se tutto avesse bisogno di manutenzione, soprattutto l’anima, divisa tra l’igienizzante e il cielo, fra il tavolo immobile e la finestra aperta, scossa dal vento, come a chiedere di cogliere il confine tra prigione e libertà, di congiungere realtà inconciliabili, di unire gli opposti, di fare delle sbarre la cornice di un ritratto, delle catene un rosario che liberi dal potere oppressore, della disperazione un trampolino per tuffarsi nell’ignoto. Tutto ha bisogno di una svolta, di un riscatto. Tutto e tutti, tranne Uno: l’igienizzante è il cielo.

Continua a leggere. 47


Questo spiraglio è interessante: una linea che congiunge la sala del coro, dove confesso, all’ingresso del santuario, che appare in penombra, quasi al buio, come se entrare in contatto con Dio significasse uscire dalla luce più evidente, banale, ed entrare in una tenebra in cui i soliti strumenti non sono più adeguati, dove bisogna misurarsi con qualcosa di più grande. Chissà che non sia questo l’ingresso dell’ateo che si credeva credente, che pensava la fede come uno svolgersi lineare di eventi rituali, un officiare alla luce del sole con le parole consolanti della liturgia. Da qui si capisce, invece, la svolta necessaria, il tuffo nell’oblio delle certezze, quello che i teologi chiamano salto nel buio, che magari rovescia valori e prospettive, per cui l’uomo che è appena entrato a confessare il solito peccato, come fa ogni due mesi, senza attendersi un consiglio, anzi sperando di non sentirne alcuno, se non le parole dell’assoluzione, ora se ne va riconoscente perché finalmente ho capito, perché non ho quasi aperto bocca, mentre prima cercavo di aprire spiragli, di avviarlo sulla via di una presa di coscienza, e mi aveva guardato di traverso, come se violassi una zona irraggiungibile, o volessi strapparlo da quel buio, quella penombra che sta oltre l’ingresso, che si disegna oltre la piazza di vasi e sanpietrini, oltre quest’albero su cui i passeri si posano per cominciare a chiacchierare fitto, a discutere, a sviscerare argomenti che nessuno conosce, tranne loro. Il buio, la penombra, sono dunque anche di qua, in questa luce apparente, dove accadono cose solo a prima vista scontate e risapute, mentre bisogna, con tutta evidenza, scavare, andare al di là della corteccia, fino ad arrivare all’alt, allo stop, dell’uomo che mi ha sorriso, addirittura, ora che finalmente, dopo tanti, inutili sforzi di crescita e di miglioramento, dopo tanto, vano consigliare, non gli ho detto nemmeno una parola.

Continua a leggere. 46


Questo pezzo di mondo sembra l’Eden: a quest’ora e in questa stagione, si sentono soltanto i versi degli uccelli e il frinire di grilli e cicale. Immagini un mondo senza umani, un pianeta dove restino solo gli animali, le piante, i minerali. La coscienza è al minimo, limitata all’istinto naturale: la paura, la riproduzione, l’aggressività, la ricerca del cibo. Ricordo d’aver visto dei gabbiani che attaccavano i passeri: li avevo idealizzati, e all’improvviso mi sembravano cattivi. Ma può essere cattiva la natura? Ci sarebbero carneficine, guerre, oppressioni in una terra senza gente? Sussisterebbero i buoi senza il contadino, le galline prive di un pollaio, le pecore senza il pastore? Così è per noi: abbiamo bisogno di Gesù, solo Lui va al di là dei tentativi, delle ricerche fallibili o fallite, dell’incertezza che avvolge tutto quello che non è allineato con l’intenzione originaria: il paradiso terrestre, una creazione da accogliere con gratitudine, da condividere con gioia, da contemplare con ammirazione. Che sia questo il problema? Che tutto dipenda dal fatto inoppugnabile che non c’è più meraviglia? Che non si sia più capaci di ascoltare, di vedere, di sentire? In questo pezzo di Eden, mi esercito a fare ancora questo, a intravedere un mondo senza il male, un ritorno alle origini. Pensa, lettrice, pensa, lettore, se per un istante intercettassimo la stessa cosa, se ci immergessimo nella meraviglia del primissimo giorno, di quello sguardo limpido, di quella lingua capace di dare un nome alle cose, di quel segreto dei segreti che una volta si chiamava anima.

Continua a leggere. 44


Le campane avvertono sempre di qualcosa: l’inizio della messa, certo, ma non tutti e non tutte vanno a messa, neanche qui al Divino Amore. Penso alla ragazza che accompagna la disabile su carrozzina, parcheggiando l’auto a destra della sacrestia. Dev’essere un’ottima persona, ma non varca la soglia del santuario. E come lei, chissà quanti si spingono fin qui per vedere il panorama, per godere di uno spazio verde, aperto, salubre da ogni punto di vista. A questo si aggiungano le piante, gli animali, che pur sentendo, in qualche modo, il suono delle nostre campane, lo vivono in una versione che difficilmente riusciremo a decifrare. Senza contare le campane stesse, che obbedendo al meccanismo programmato chissà quando dall’essere umano, lanciano un messaggio che per loro è solo, forse, un movimento vitale, un dire ci sono pure io, un segnale simile al nostro, quando dimentichiamo che il tutto ha un senso più alto, e anche il solo esserci è un dono inestimabile, una presenza da valorizzare, perché tutto rimanda, inevitabilmente, a un inizio, be-reshit, en arché en o Logos, inizio del Vangelo di Marco, e altri esordi che spingono lo sguardo in direzione della fonte, là da dove tutto proviene, da cui tutto prende senso, e se non collegassimo, se non mettessimo sempre in relazione, rischieremmo di essere gli unici nell’universo a non capirci un’acca, il che non impedisce di esserci lo stesso, ma con la stessa coscienza di un sasso, di uno dei sanpietrini qui davanti, o questa sedia della sala delle benedizioni che ognuno sposta dove vuole, tanto nessuno ci si siede. Le campane, dunque, hanno suonato. Per me è l’inizio della messa, l’omelia infinita del prete, amplificata nella piazza, la sfida di sopravvivere al sacro sotto forma di rito, la natura che ha ogni cosa che proviene dall’Inizio e si deforma senza scampo, si sfigura, ma proprio in quell’immagine distorta, in quella smorfia tragicomica da cui lo sguardo fugge, proprio in questo risultato abnorme, in questo aborto, c’è il segreto dell’amore, il messaggio ultimo delle campane e della vita, il senso, il fine, di tutto.