Archivio mensile:Aprile 2018

Questo mondo e l’altro


Vale la messa? È una domanda che il sacerdote si sente rivolgere più spesso di quanto si creda. Sono arrivato al Credo, a metà omelia, all’offertorio: è valida la messa? Dentro ti fai ragionamenti che, per fortuna, il fedele non ascolta. Lui, o lei, non sanno che il Cristo vuol essere l’unico, il solo, senza alcun rivale. Se lo può permettere, perché è amore assoluto, purissimo, gratuito. Più è l’unico, più gli altri sono accolti; più è esclusivo, più include questo mondo e l’altro.

Il trasformatore


A volte abbiamo l’impressione che manchi poco per essere felici, per riempire la vita: poi, regolarmente, perdiamo l’occasione, ci sfugge il bandolo, cominciamo da capo. Qual è il segreto, come fare per dare una svolta a ciò che sentiamo vicino e al tempo stesso inafferrabile?
La soluzione è semplice: offrire, fare ogni piccola cosa per Gesù. Lui è un trasformatore inarrestabile: prende i gesti compiuti nel tempo e li restituisce come eternità.

La scuola delle immagini


L’immagine ha una forza intrinseca, perché risveglia, stimola, arricchisce. Per questo sarebbe essenziale una scuola del saper vedere. Chi insegna l’attenzione ai dettagli, lo sviluppo della capacità simbolica, l’esercizio all’interpretazione personale?
Gesù, maestro di comunicazione, parlava per immagini: la perla, la pioggia, il sole; il pastore, il mercante, la massaia. Per questo è felice se, davanti al nostro tavolo, nel luogo in cui ci fermiamo per pregare o meditare in silenzio, campeggia il Santo Volto. Guardiamolo negli occhi, fino a sentire una domanda che affiora sulle labbra dipinte, eppure vere: mi ami?

Eva LIPSKA – Il lettore di impronte digitali

LA RIVOLTA DEI GIOVANI

La Stato ha già smesso di essere
una lettura obbligatoria dicono.
Puoi ma non sei obbligato
a imparare a memoria la bancarotta dei secoli.

Non ci interessa
la natura subdola.
Un inetto al potere.
I dizionari di cemento delle città. Continua a leggere

Sul monte


Tendiamo a stare comodi: scoperta una formula, vorremmo replicarla all’infinito, assumerla per sempre, farne un’etichetta buona per tutte le stagioni.
In realtà, la vita è un’altra cosa: è crescere momento per momento, non permettere mai al corpo, alla psiche, allo spirito, di pensare o di dire: decido di fermarmi qui. Facciamo tre tende, chiese Pietro a Gesù, sul monte della trasfigurazione. Ma non si può: di strada ce n’è tanta, rimbocchiamoci le maniche e partiamo.

Di troppo


Il segreto della vita è un fondamento stabile. Quando manca, siamo colti da paure, ansie, turbamenti. L’insicurezza dipende dall’assenza di un centro, di una stella polare, un punto intorno al quale ruoti la realtà. Se questo punto fossimo noi stessi, saremmo messi male: nonostante le arie di autosufficienza, siamo figli, creature, dipendenti. Se invece è il Cristo, non dobbiamo temere tempeste o cataclismi: è la roccia incrollabile, ben rappresentata nel finale del discorso del monte.
Se Gesù è il fondamento, possono esserci momenti in cui è di troppo? È un bel tema per l’esame di coscienza.

Risposte


Il politicamente corretto richiede che si eviti di parlare di Dio, o se ne parli in modo naïve, per guarnire con una spruzzata di cielo una terra che vuol fare da sola. Io, allergico a correttezze simili, ne parlo sempre e in modo specifico, per non equivocare. Sono convinto che il nome di Gesù faccia miracoli: lo senti per sbaglio e basta per cambiarti. I monaci avevano un libro chiamato Antirrheticos: una risposta biblica per ogni tentazione. A chi difettasse di memoria si raccomandava di pronunciare il nome di Gesù, capace di scacciare ogni demonio.

Il peggio


Dal cuore alle labbra il viaggio è breve. Pensiamo di avere tempo e modo per deviare, rimandare, occultare, ma se un pensiero si fa strada nell’anima, e gli diamo il benestare, diventerà parola. A volte non basta una vita per capirlo. Dobbiamo fare uno sforzo per divenire consapevoli di un meccanismo inevitabile: se non applico quella che il Vangelo definisce vigilanza, finirò per estrarre, da dentro, il peggio di me stesso.

Giardini immaginari con rospi veri

Marianne Moore

Poetry

I, too, dislike it: there are things that are important beyond all
this fiddle.
Reading it, however, with a perfect contempt for it, one
discovers in
it after all, a place for the genuine.
Hands that can grasp, eyes
that can dilate, hair that can rise
if it must, these things are important not because a

high-sounding interpretation can be put upon them but because
they are
useful. When they become so derivative as to become
unintelligible,
the same thing may be said for all of us, that we
do not admire what
we cannot understand: the bat
holding on upside down or in quest of something to

eat, elephants pushing, a wild horse taking a roll, a tireless wolf
under
a tree, the immovable critic twitching his skin like a horse that
feels a
flea, the base-
ball fan, the statistician–
nor is it valid
to discriminate against ‘business documents and

school-books’; all these phenomena are important. One must
make a distinction
however: when dragged into prominence by half poets, the
result is not poetry,
nor till the poets among us can be
‘literalists of
the imagination’–above
insolence and triviality and can present

for inspection, ‘imaginary gardens with real toads in them’, shall
we have
it. In the meantime, if you demand on the one hand,
the raw material of poetry in
all its rawness and
that which is on the other hand
genuine, you are interested in poetry.
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Qui a Roma


Uno dice: va bene, mi metto davanti al volto di Gesù; e poi?
Ci vorrebbe una guida, un formulario delle frasi corrette da rivolgere al divino, una sorta di galateo delle buone maniere, un vademecum che ci eviti gaffe, o spiacevoli incidenti. Col Figlio di Dio, non si sa mai.
Se sapessimo che il Cristo vuole solo intimità, fiducia, rinuncia a qualsiasi meccanismo di difesa; che non è minimamente interessato, in questo caso, alle questioni formali, allora sì, cominceremmo a pregare come piace a Lui. Ma noi siamo duri, resistenti. Qui a Roma si dice: de coccio.

Siamo un popolo


Rimproveriamo i capi dei giudei, perché hanno fatto condannare Gesù; rimproveriamo la folla urlante, perché si è fatta trascinare nel rifiuto; rimproveriamo Pilato, per essersene lavate le mani; i soldati, per aver percosso e schernito il Nazareno. Rimproveriamo quelli che lo hanno abbandonato, tradito, facendone ciò che hanno voluto, sebbene il Cristo si fosse dato loro totalmente.
Ma anche oggi si dona, nell’eucaristia, e ne facciamo ciò che vogliamo: negligenti, distratti, indifferenti; pensiamo a tutto, tranne che al suo dono generoso, totale. Siamo un popolo di dura cervice, ora come allora. Ma a qualcuno, Gesù, toccherà il cuore.

Brian Panowich, quando la paura diventa leggenda

Brian Panowich Come leoni.jpg

Bull Mountain è una giogaia della Georgia del nord sulla quale da decenni dominano i Burroughs, una stirpe di illustri disprezzatori della legge, colmi d’orgoglio fino alle orecchie. Nel precedente romanzo di Panowich, Bull Mountain appunto, abbiamo conosciuto i vecchi Burroughs, Cooper, suo figlio Gareth e i nipoti Halford e Clayton: di questi ultimi, Halford, dopo la morte del padre, ha preso in mano le redini del clan, mentre Calyton è diventato lo sceriffo di Waymore Valley, un pugno di case ai piedi di quel monte ‘sacro’ in cui le generazioni dei Burroughs si sono adattate a sempre nuovi commerci, quello clandestino del whiskey, poi della marijuana e delle metanfetamine, preparate in vasche da bagno dentro a capanni disseminati nel bosco, dentro a cui “ci lavoravano dei veri bastardi”. Continua a leggere

Servire Dio


A volte, tocchiamo con mano la mediocrità. Le giornate ci sembrano inutili, come se, impegno dopo impegno, il fare ci svuotasse, anziché riempirci. Gli altri ci ignorano, o ci sono ostili; le incompetenze superano le competenze, ci sentiamo inadeguati. Gli anni passano, la debolezza cresce, ci pare che tutto si inoltri verso il nulla.
Eppure una via d’uscita ci sarebbe. Prendo a caso dal deposito dei santi, che qualcosa della vita hanno capito. San Leonardo da Porto Maurizio dice questo: Oh, che gran verità abbiamo per le mani! Badate: noi siamo nati per servir a Dio. Che gran parola!
In effetti, se comprendessimo questo dettaglio, l’esistenza cambierebbe aspetto, per miracolo.

SUL TAMBURO n.70: Antonio Paolacci, “Piano americano. Il romanzo che non scriverò”

Antonio Paolacci, Piano americano. Il romanzo che non scriverò, Milano, Morellini Editore, 2017

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di Giuseppe Panella
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Antonio Paolacci di romanzi ne ha scritti e uno, il primo, lo ha pure ristampato. Eppure è insoddisfatto della sua attività di scrittore, della sua capacità di investimento sentimentale sulle parole scritte, sulla resa stessa di esse a livello di comunicazione e di confronto. Paolacci non vuole scrivere più e manifesta questo suo desiderio, questa sua necessità nell’unico modo che conosce: appunto scrivendo un romanzo. Rifiutandosi di scrivere un’opera narrativa, in realtà, la scrive (e ricorda molto il metanarrativo Gide quando cita se stesso come autore dell’opera che sta scrivendo e cioè Paludi). Non volendo scrivere un romanzo su un personaggio evanescente che passa inosservato, quasi un “uomo invisibile” e che per questo truffa e rende impalpabili le sue attività ai confini della legalità, lo fissa in realtà sulla carta come il protagonista di una storia che si vuole comunque scrivere, anche se non nella dimensione tradizionale della forma narrativa.

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Confidenzialmente


Se Gesù potesse lamentarsi, ne sentiremmo delle belle. Non credo che avrebbe da ridire su qualche sbavatura rituale o normativa, anche se la dottrina e il rito continuano a essere fondanti – e forse proprio per questo, oggi, vengono così demonizzati (sarà il demonio che li demonizza?). Penso che Cristo sarebbe addolorato per il fatto che non ci confidiamo, che non gli raccontiamo come va la vita, ciò che ci ferisce o ci consola. “Vi ho chiamati amici”, dice; ma noi teniamo le distanze, timorosi che rompa le uova nel paniere, che, se gli diamo un dito, si prenda tutto il braccio. Così Lui rimane là, a guardarci come chi si aspetta, da un momento all’altro, che qualcuno si decida a sbottonarsi.