Archivio mensile:Marzo 2018

Prima di Pasqua


di Giovanna Menegus

Se entrassi nel bosco
in questo pomeriggio di fine marzo
sentiresti il rumore di tutte le foglie secche e rami

vuoti che si spezzano – in un solo rapido
crepitio di bruna polvere
riscuotersi la terra da quanto è vecchio:

insieme, bucando aride scorze
così lievi ormai, pianissimo
udresti l’erba crescere Continua a leggere

La prima cosa


Le maiuscole sono fastidiose. Ricordano quei biglietti coi titoli sempre un po’ grotteschi: Dott. Avv. Com. Grand. Uff. e via esibendo. L’umiltà, invece, è vincente e convincente, secondo il vangelo. Eppure c’è Qualcuno che è grande davvero, e merita non solo la lettera maiuscola, ma anche l’esaltazione e la lode. La mattina, appena svegli, bisognerebbe omaggiarlo, glorificarlo, ringraziarlo. In proposito, c’è un bel pensiero dei Padri del deserto.
Un anziano disse: “Quando ti alzi dopo aver dormito, subito, per prima cosa, la tua bocca renda gloria a Dio. Dovrà intonare inni e salmi, perché lo spirito continua a macinare per tutto il giorno, come una mola, il primo pensiero cui si è unito fin dall’aurora, sia che si tratti di grano sia che si tratti di zizzania. Per questo devi essere sempre il primo a gettare il grano, prima che il tuo nemico semini la zizzania”.

P’ngieng (un racconto di Ambra Stancampiano)

Devo assolutamente tornare a casa, qui non posso essere felice.

Purtroppo sarà più facile a dirsi che a farsi, ed io non spiccico una parola da anni. Rendo l’idea?
In effetti rimanere zitta mentre tutti mi fissano ed aspettano che io faccia qualcosa non è molto educato, ma di parlare non mi va. Non saprei cosa dire: da piccola badavo alle capre, mica andavo a scuola. Nessuno poteva immaginare che un giorno sarei stata così interessante, che il mondo intero avrebbe parlato di me. E per cosa, poi.

Quanto rumore, quante ciarle… non ne posso più. Questi vestiti mi prudono e pizzicano da tutte le parti, dentro la baracca c’è caldo e non si sente nemmeno il canto degli uccelli, sovrastato da questo continuo chiacchiericcio in linguaggi che non ho mai sentito e che non m’interessano.

Questi giornalisti sono una manna per mio padre, che fino a ieri si arrabbattava per sfamare le quindici bocche a suo carico e oggi, grazie a me, si ritrova a essere l’uomo più ricco del villaggio. Ancora non ci crede, papà, dice davanti alle telecamere con gli occhi umidi. Ritrovare la propria figlia dopo così tanto tempo… gonfia il petto, gli occhi gli si illuminano: fissa un uomo che, sulla soglia di casa, sta sfogliando un rotolo di banconote per porgerne un paio a mio fratello maggiore, di guardia sulla porta.
I vicini lo guardano con un misto di pena ed invidia: nessuno vorrebbe essere al suo posto, con una figlia in quello stato; ma tutti quei soldi, tutti questi stranieri, chi li aveva mai visti?
Ogni giorno decine di jeep sfidano il deserto e la giungla paludosa e arrivano da Phnom Penh, cariche di gente che vuole vedermi. Tutti i giovani di Oyadao stazionano davanti alla nostra capanna da giorni e cercano di farsi notare dai turisti per mettersi al loro servizio, lanciando fischi, blaterando qualche parola in inglese insegnatagli dai nonni e sovrastandosi l’un l’altro con la voce o venendo alle mani. Le anziane, riunite in capannelli davanti ai fuochi per il cibo o ai lavatoi, scuotono la testa e borbottano contromaledizioni; la febbre dello straniero sembra aver colto tutti.
Tutti, tranne mia madre: lei non ha occhi che per me.

Mia madre ha occhi grandi e stanchi, ma pieni di allegria. Continua a leggere

Sapori


La religione ha i suoi segni, perché l’uomo è un essere concreto: per questo consiglio di pregare davanti a un Volto di Gesù, potente antidoto alla preghiera generica che induce in distrazione. La fede è comprendere che al di là della formula e del rito è presente una Persona. Altrimenti, si rischia di compiere gesti apotropaici che hanno lo stesso valore del corno o del ferro di cavallo. Non a caso la gente, in certi casi, viene a messa per “prendere” le ceneri o i rami d’ulivo, nella domenica cosiddetta delle palme.
Mettere in primo piano la Persona significa che, quando il prete benedice, è Cristo stesso che riempie la vita: si comunica con la sua divinità, a cui aderisce la miseria umana. Solo così la religione diventa portatrice di salvezza e l’uomo “prende” qualcosa: né ceneri né rami d’ulivo né ferri di cavallo, ma il sapore dell’eterno.

SUL TAMBURO n.69. Alberto Rollo, “Un’educazione milanese”

Alberto Rollo, Un’educazione milanese, San Cesario di Lecce (Lecce), Piero Manni, 2016

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di Giuseppe Panella
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Il libro struggente di Alberto Rollo sulla sua formazione culturale, umana, sentimentale apparterebbe al genere letterario che molti critici amano definire auto-fiction (con un termine a mio avviso improprio) se non fosse perché al suo interno si opera un passaggio imprevedibile, una vera e propria “mossa del cavallo”, mediante la quale la storia personale dell’autore viene assorbita all’interno dei destini generali della città cui egli appartiene.

Nell’aneddoto iniziale in cui il piccolo Alberto viene offerto alla città da un cantante di strada, forse uno zingaro, che lo solleva in aria e chiede alle persone circostanti “Milano lo vuole?” è già inscritta tutta la successiva parabola della sua formazione di intellettuale.

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Coordinate


Il futuro ci affascina o ci inquieta. Ci facciamo dei film che sembrano dei veri e propri gialli: non si sa come andranno a finire. Tifiamo per noi stessi, mettiamo insieme i pezzi in modo che il mosaico corrisponda, almeno parzialmente, ai nostri gusti: verrà un capo intelligente e comprensivo, o dipendenti che lavorano; mia moglie diventerà più dolce, mio marito più attento e disponibile; i figli saranno meno ribelli e incontentabili.
Dall’altra parte, il passato è una fonte di rimpianti, rimorsi, nostalgie. Possiamo perderci nei suoi meandri, ripetendo all’infinito che sarebbe andata meglio così, che avremmo potuto evitare quell’azione, tacere, quel maledetto giorno, perdonare, invece di mettere il dito nella piaga.
Passato e futuro ci sottraggono una quantità enorme di tempo e di energie. Se ascoltassimo il Cristo, probabilmente sentiremmo parole come queste: una sola cosa ti manca, il presente.

La terra promessa


Siamo fatti di terra. Ce ne accorgiamo dalla tendenza alla vita materiale; si capisce dalle confessioni, dove c’è sempre lo stesso ritornello: la carne, la carne, la carne. In qualunque stato, c’è una forza di gravità che ci spinge verso il basso, con gli effetti a esso collegati: quelli che in Occidente si chiamano vizi capitali e in Oriente pensieri cattivi.
Tuttavia, creando l’uomo, Dio non ha preso soltanto la terra – adamà, la rossiccia -: la simbologia biblica, racchiusa nel libro della Genesi, informa che vi ha soffiato il suo alito portatore di vita, un’energia concentrata di amore.
Ecco perché dovremmo smettere di guardare solo buche e tombini, e abituarci a rivolgere lo sguardo verso il cielo. Da lì sboccerebbe il nostro desiderio più profondo, totalmente proteso alla terra promessa dello Spirito.

Preoccupazioni


Si potrebbe scrivere una Storia della preoccupazione, un’Analisi comparata delle ansie quotidiane. Tutti ci preoccupiamo per qualcosa: famiglia, salute, lavoro. Cosa dirò a quello, se lo incontro? Mi accoglieranno in quell’ambiente? Mi accorderanno le ferie programmate? Altre domande sembrano più serie. Pensiamo ai luoghi di persecuzione: mi arresteranno? Finirò impiccato o crocifisso?
Il Vangelo ci propone una ricetta valida per tutte le occasioni: fidarsi di Dio. Se mi abbandono a Lui come un bambino ai propri genitori, non devo aver timore: qualunque cosa accada, sarà per il mio bene. Solo così è possibile comprendere le parole di uno che, a seconda dei punti di vista, è un alienato o un santo: per me vivere è Cristo, e morire è un guadagno.

Una bella giornata


Il pessimismo è una pessima cosa. Se le cose vanno male, andranno peggio. Aiutare per la discesa, come diceva mio padre, non è una grande idea. C’è gente che vede tutto nero: si lamenta per partito preso; la prima cosa che affiora sulle labbra è una smorfia di disgusto o delusione, un borbottio, un grugnito.
Essere ottimisti è più sensato: pensare che non ci sia un limite al bene, che tutto sia possibile; che ci si possa sostenere a vicenda, e ci si abbracci, piuttosto che fare a gomitate. Per questo, non giova criticare il mondo: conviene pregare, invece, che il Signore lo converta, a cominciare da me. Allora, che piova o ci sia il sole, sarà sempre una bella giornata.

Conservatori


Siamo dei conservatori. Anche se combattiamo sulle barricate per abbattere il sistema, issando lo stendardo della libertà sul pennone della nostra insofferenza, restiamo dei conservatori; perché sebbene viaggiamo in lungo e in largo per annunciare il verbo della novità, manchiamo la rivoluzione più efficace: condividere non le nostre idee, ma la vita che abbiamo ricevuto. Se scegliessimo di metterla in comune, crescerebbe a dismisura.
Ma siamo dei conservatori: combattendo sul fronte del progresso, continuiamo a tenerci troppo stretto ciò che evolve donandosi.

Erika Kronabitter, Requiem per una madre


di Stefano Zangrando

Erika Kronabitter è una scrittrice e artista austriaca e vive a Bregenz, nel Vorarlberg. Membro dell’Associazione Autrici e Autori di Graz, ha curato varie antologie e ottenuto numerosi riconoscimenti per la sua opera. Le poesie che seguono, tratte dal volume Einen Herzschlag nur bist du entfernt (“Sei lontana solo un battito di cuore”), sono tradotte da Sabrina Stabile.

 

1

garten leer

 

vor dem haus nicht mehr

im garten nicht mehr

auf der straße nicht mehr

beim b?cker nicht mehr

auf dem marktplatz nicht mehr

beim busplatz nicht mehr

vor dem haus nicht mehr

auf der straße nicht mehr

garten leer

 

1

giardino vuoto

 

davanti alla casa non più

in giardino non più

per la strada non più

dal panettiere non più

in piazza del mercato non più

alla fermata dell’autobus non più

davanti alla casa non più

per la strada non più

giardino vuoto

 

*

 

2

überall leer

 

im badezimmer nicht mehr

stundenlang

beim frisieren nicht mehr

stundenlang

beim eincremen nicht mehr

stundenlang

beim pflegen nicht mehr

alle stunden

überall leer

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Trovare un posto


Quando parliamo con Gesù, se ci parliamo, gli chiediamo conforto, aiuto, orientamento. Lo cerchiamo, dunque. Siamo come quei discepoli che, incontrandolo per la prima volta, gli chiedono: maestro, dove abiti?
Lo immaginiamo, mettiamo il Volto santo davanti al posto di lavoro, lo guardiamo negli occhi; a volte piangiamo, o ridiamo, sempre con l’idea che Lui ci accolga e, per così dire, ci riceva.
E se fosse Lui a chiedere asilo, rifugio, o addirittura – adesso la sparo grossa – conforto? Se, non essendoci chi gli apra quando bussa alla porta delle anime; se, ancora oggi, non trovasse posto nell’albergo, e venisse da noi – sì, proprio da noi -, e ci chiedesse di ospitarlo? Non so a voi, a me vengono i brividi. Se capissimo davvero che cos’è la fede, forse crederemmo tutti.

arabeschi

di Antonio Sparzani

Arabeschi
Nei momenti dell’oro
il buon senso quotidiano
non trattiene l’émpito
che preme sullo sterno,
una piena che strazia
prorompe, esonda,
e
alla
fine
distilla
profumati arabeschi,
dal guizzo – rapido – degli occhi
dal tremito – leggero – nella voce
dall’incertezza – d’un istante – del gesto,
un abbandono – vertiginoso – del cuore.
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Inutili


Temiamo di fare cose inutili. Ci frustra la sensazione che i nostri sforzi non servano a un bel niente: lavoriamo a una causa e non vediamo I risultati; ci facciamo in quattro per la pace e si scatena la guerra; ci prepariamo al meglio per qualcosa e l’esito è un fiasco. Ma più ancora temiamo d’essere inutili noi stessi: ci siamo o non ci siamo, non cambia proprio nulla.
È qui che salva la fede. Chi crede, sa che Dio valorizza ogni intenzione; mette nei suoi depositi ogni gesto d’amore, anche maldestro e acerbo, al fine di beneficiare qualche anima in pena che noi, magari, nemmeno conosciamo. Questo ci incoraggia, ci motiva, ci consola. Tanto più che il Salmo 56 ci assicura che il Signore tesaurizza persino il nostro pianto: “le mie lacrime nell’otre tuo raccogli”.

Vite da raccontare: Quelli accanto di Silvia Angeli

Quelli accanto di Silvia Angeli, Italic *Scritture* (2018).

Quante volte nella vita ci siamo trovati in situazioni “scomode”, dalle quali avremmo voluto

solo fuggire, annientarci magari? Quante paure abbiamo cercato di scacciare dalla nostra testa e dal nostro cuore con un gesto della mano? Paura di ammalarci, di non essere all’altezza di una situazione, di sentirci abbandonati.

Questi otto brevi racconti sono un concentrato di vita, di relazioni con gli altri e con noi stessi. Anche se a volte ciò che leggiamo ci appare lontano, è come se Silvia Angeli mettesse davanti al nostro viso uno specchio e ci costringesse a guardare dentro, oltre la superficie, chiedendoci: “E tu, che faresti al mio/suo posto? Cosa provi?”.
In alcuni racconti è un narratore esterno che idealmente ci si siede accanto e ci pone di fronte alla scena; in altri è il protagonista che si rivolge al suo antagonista o al lettore stesso, in cerca forse di empatia o di una persona esterna con cui sfogarsi, e li rende partecipi di un processo intimo, introspettivo. Continua a leggere

SUL TAMBURO n.68: Raul Montanari, “Sempre più vicino”

Raul Montanari, Sempre più vicino, Milano, Baldini & Castoldi, 2016

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di Giuseppe Panella
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L’ultimo romanzo di Raul Montanari rientra a pieno titolo in quella categoria letteraria (quasi un nuovo genere o sottogenere volutamente non codificato come tale) che è stato battezzato post-noir dalla critica e che si rifà ad autori che sfuggono alle regole del noir classico e tradizionale per approdare a un progetto di scrittura libero dai condizionamenti che il genere inevitabilmente comporta. Vi apparterrebbero autori come la Patricia Highsmith di Sconosciuti in treno o il Friedrich Dürrenmatt del ciclo del commissario Hans Barlach o del “requiem per il romanzo poliziesco” intitolato La promessa. Che cos’è il post-noir? E’ un romanzo che non presenta personaggi particolari, dotati di abilità investigative perspicue se non eccezionali (come nei romanzi di Chandler o di Hammett) oppure interessanti per le loro caratteristiche fisiche e morali ma persone comuni che si trovano in circostanze avventurose o straordinarie spesso senza volerlo o per loro errore e spesso improntitudine. Si tratta di persone “normali” in situazioni non comuni costrette ad affrontarle con i (pochi) mezzi a loro disposizione. Il risultato è una sequenza di eventi misteriosi che trovano uno scioglimento, spesso tragico (ma non sempre), alla fine di un percorso di ricerca scandito da colpi di scena, di trovate bizzarre, di soluzioni inedite.

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“Ti aspetto”


Una mattina, intorno alle dieci, ero seduto davanti al Volto di Gesù. Gli dicevo: se sono consacrato a Te, vuol dire che da Te devo attendermi la vita, ciò che mi serve, l’amore di cui ho fame.
Ho chiesto con tutte le mie forze, fissandolo negli occhi, deciso a non staccarmi prima d’aver ottenuto la risposta.
In quel momento mi è arrivato un messaggio da qualcuno con cui avevo in sospeso un incontro di lavoro. Non c’era alcun motivo per cui dovesse contattarmi in quel giorno, in quell’ora, nell’istante in cui ho rivolto al Cristo la richiesta più importante della vita, in cui l’ho quasi costretto a presentarsi, a mostrarmi una concreta volontà di comunione. Prendo il telefono, clicco sul link, comincio a piangere, leggendo quello che c’è scritto: “Ti aspetto”.
Da allora, non perdiamo occasione d’incontrarci. Non abbiamo bisogno di parlare: ci fissiamo, come se l’eternità fosse già qui, fosse già ora.