Archivio mensile:Ottobre 2018

Qui comincia


Portare anime a Gesù, desiderare di salvare con Lui, è la missione che ci viene consegnata e la fonte della nostra gioia. Per fare questo bisogna offrire la nostra miseria al Dio infinito e onnipotente, che in cambio ci darà molto di più. L’importante è non avere paura. Perché temere un Dio che è amore senza limiti? Fidiamoci: qui comincia la vita.

Premi letterari: da trent’anni, poesia e impegno sociale a Porto Recanati

I premi letterari sono tanti, anche quelli dedicati alle opere poetiche, a differenza di come si potrebbe pensare, vista la difficoltà con cui si legge e si promuove la poesia. Molti premi hanno vita breve, nel giro di una manciata di edizioni sono solo un ricordo impresso su pagine di blog e trafiletti nei quotidiani.
Il premio letterario internazionale “Città di Porto Recanati” celebrerà nel 2019 il suo trentesimo “compleanno”; tutto sommato un premio giovane, ma dalle spalle forti e lo sguardo proiettato verso il futuro, non tralasciando mai di fare riferimento al passato. Marco Pigliacampo, segretario del Premio, è il figlio del fondatore, Renato, e prosegue il percorso tracciato con passione, amore e una fortissima motivazione, dal papà.

Marco, il premio è nato trent’anni fa per volere di tuo padre. Come mai ha istituito un premio letterario?Mio padre Renato, che purtroppo è scomparso tre anni fa, era un sociologo; si occupava di problemi dei portatori di handicap e li viveva in prima persona, in quanto non udente. Ha dedicato tutta la vita a cercare di migliorare l’integrazione sociale dei sordi italiani, con il lavoro di ricerca, l’insegnamento universitario, i testi scientifici. Con il premio di poesia volle estendere questo suo messaggio alle persone più sensibili e ideative, ossia i poeti, proponendo un tema fisso: la disabilità o l’emarginazione sociale in genere. La risposta fu positiva, perché induceva i poeti a riflettere sulla realtà che avevano attorno a loro. Continua a leggere

SUL TAMBURO n.79: Paolo Marati, “Gli indecenti”

Paolo Marati, Gli indecenti, Siena, Melville, 2017

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di Giuseppe Panella

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Perché Gli indecenti come titolo di un romanzo di costume? Perché l’in-decenza come categoria centrale in una riflessione sulla deriva della società contemporanea? Marati riprende alcuni personaggi del suo precedente L’intrusione delle onde anomale (Siena, Barbera, 2014) per raccontare una società in declino che non riesce più a trovare un centro, una direzione, un “centro di gravità permanente”. Soprattutto non riesce più a capire dove vuole andare a parare con i suoi stili di vita, i suoi tic, le sue mode, la sua ricerca di qualcosa di nuovo che la faccia uscire dalle asfittiche pareti del già visto. Federico Galbiati è un anti-eroe, un “inetto” – si sarebbe detto ai tempi di Verga e di Svevo. Divorziato ma felicemente accoppiato con una ragazza svedese, Harriet, conosciuta in circostanze avventurose nel primo romanzo, in procinto di volare a Stoccolma come fa ogni due settimane, viene bloccato da una perentoria richiesta di sua madre: l’anziana donna vuole rivedere Claudia, la figlia primogenita, l’un tempo severissima professoressa di latino protagonista di vicende sentimentali molto sfortunate narrate in L’intrusione delle onde anomale e apparentemente scomparsa quattro anni prima. La madre è radicale nelle sue richieste: se non rivedrà la figlia entro domenica, sicuramente il suo cuore si schianterà.

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Orbite


Alzo gli occhi versi i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Così recita il salmo. È il segreto della vita sulla terra: guardare il cielo. Il Padre è lì, Gesù e lo Spirito, la Madre nostra Maria, sono lì. Perché sprofondare negli affanni di un granello di polvere che gira in un’orbita minuscola dell’universo? La svolta, nella vita, è lasciarsi attrarre nell’orbita di Dio: il suo Regno, la sua gloria. Il resto, che conta?

Adriana Libretti, Parole presenti (Le Mezzelane 2018)

Ricordate la battuta di Woody Allen che conclude con la voce fuori campo lo splendido Io e Annie? “Bè, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi. E assurdi. Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova”. Non è un caso che mi sia venuta in mente leggendo questo ultimo libro di Adriana Libretti. La comicità di Allen è tutta costruita sulla parola. L’autrice è un’attrice e doppiatrice. E Parole presenti si chiama questo suo libro. Le “uova” – ma se volete le relazioni con gli esseri umani, gli oggetti e le parole – Adriana ha imparato a coglierle da bambina frequentando la Casa del Sole di Milano, meglio conosciuta come Scuola all’aperto del Trotter. Nata per educare, irrobustendoli, i bambini più gracili delle famiglie meno abbienti, aveva poi introdotto la sperimentazione di metodi di apprendimento molto innovativo. Di questa scuola dal 1956 al 1963 sua nonna paterna, Nonna Bea, fu Direttrice. I bambini venivano educati alla “cooperazione”, accompagnati a condividere la gestione di una piccola banca di risparmi, l’orto, la fattoria.

Sembra facile scrivere sul Bacio. Non lo è affatto. “Proprio come non lo è affatto cuocere alla perfezione un uovo al tegamino”. Si coglie che l’umanità di Adriana Libretti viene da lì. Anche l’amore per la parola nella sua dinamica “globale”, credo, le è derivato da quell’imprinting iniziale. Questo libro è infatti un alfabeto intimo e familiare, un abbecedario di parole-chiave nella formazione e nell’esistenza dell’autrice, tenute insieme, però, non dalla semplice sequenza letterale, ma dalla loro collocazione nel contesto lessicale costruito dalla memoria, dalle sensazioni e dai sentimenti. Più che una sequenza, dunque, un ordito, anzi, una maglia, una rete che assolve al compito – come per il Ragno a cui l’autrice dedica una delle sue parole – di mettere ordine tra i ricordi e dentro questo abbozzare un bilancio o provare a tracciarlo.

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Chiacchiere


Si parla, si chiacchiera di tante cose. A volte si sparla, si denigra, si irride. Regolarmente, ci sentiamo svuotati: ma insistiamo, come se perdere, fallire, in questo campo, fosse diventato inevitabile. Eppure, se parliamo di Dio, se lasciamo che lo Spirito conduca il discorso, sperimentiamo una pienezza duratura, un anticipo di eternità. Pensiamoci bene, alla prossima occasione.

Il dardo dei serafini


Siamo coscienti di non amare abbastanza, soffriamo per il fatto di non sentire a sufficienza l’amore per Gesù. Dobbiamo dirlo a Lui: guarirà questa piaga, magari, con un’altra sofferenza, quella che chiama, parlando con Gabrielle Bossis, il “dardo dei serafini” . Essere trafitti dall’amore: ecco il dono che ci aspetta. Dovremmo desiderarlo più di ogni altra cosa.

Casa


Dimorare nella misericordia: è lì la nostra casa, la patria a cui davvero apparteniamo. Stare a nostro agio nell’intenso desiderio di Gesù di amare e perdonare. Non c’è pericolo di montare in superbia, di cedere a qualche tipo di arroganza: più entriamo nella verità, più ci illumina su quello che siamo.

Eroi

La santità è virtù eroica: per entrare nel regno, dev’esserci un istante in cui questa viene chiesta a tutti. Perché ciò sia possibile, è necessario portare con pazienza i pesi quotidiani: chi è fedele nel poco, lo sarà nel molto.

Semplice


Con Gesù è semplice, perché ha fatto l’umanità, il mondo, l’universo. Chi meglio di Lui può sapere come funzionano le cose? Se fossimo disponibili a capirlo, la vita cambierebbe: scopriremmo un modo diverso di pensare e immaginare.

Intenzioni


C’è chi si confida di più, e chi di meno. Qualcuno è chiuso in se stesso, come una fortezza; altri non fanno che rovesciarsi, l’uno sull’altro, un mare di parole. Quello che evitiamo è parlare con Gesù: ci sembra assurdo considerarlo un confidente. Se lo facessimo, la vita cambierebbe, perché nessuno ci ama come Lui. Ma forse il problema è proprio questo: non vogliamo cambiare. Che tutto rimanga come prima.

Un gioco da ragazzi


L’obolo della vedova è stato molto apprezzato da Gesù. Lui vuole il tutto, come i due spiccioli della donna, che non aveva altro. Diamogli anche noi il quattrino della nostra vita. Scopriremo che sa trasformarlo in un tesoro inestimabile. È un gioco da ragazzi, per un Dio.

Qol demama daqqa


Non ho bisogno di scrivere poesie.
C’è la vita che esplode
come il frutto di una mente concentrata
per accogliere il dono.
So che mi vuoi:
l’infinito mi abita e il mutuo da pagare
è la morte per croce, il grido del tuo venerdì
che squarcia i veli,
i muri che qualcuno
a nostra insaputa costruisce:
una pianta velenosa
che potrebbe folgorarci all’istante,
se il battito del cuore, questo segno tenace,
l’ultima Thule della vocazione,
il tesoro prezioso consegnato
al monte dei pegni del tuo desiderio
di perdono, se il respiro
non potesse intendere che questo:
Io ti amo, da sempre,
memoria senza inizio
e senza fine.