Può accadere di sentirsi soli. Non che non s’incontrino persone, le presenze abituali della quotidianità: famigliari, colleghi di lavoro, i contatti che attraversano la vita e con cui non sempre si sa essere sé stessi. Anzi, se ne torna spesso col sentore d’aver perso qualcosa, senza, magari, saper dire cosa.
Resta una fame di essere, sempre più intensa, sempre più insaziata.
Poi, un bel giorno, guardi il volto di Gesù, davanti a te, con gli occhi che sembrano cercarti: non ti impongono nulla, sono solo una proposta discreta, delicata, attenta a non violare la tua libera adesione. È lì: e tu non credi che ti stia guardando, che sia il Gesù che percorreva le strade della Palestina predicando il Vangelo, guarendo i malati, chiamando Zaccheo arrampicato sopra l’albero, assicurando al paralitico, calato dal tetto, il perdono dei peccati, conversando con la donna al pozzo di Sicar.
Sei certo di essere indegno della sua attenzione, che il suo potere sia attratto da altre cause, ben più importanti della tua. No, non sta guardando te, anche se sembra, anche se tutto lascerebbe sospettare che voglia convincerti che se è appeso lì, se hai deciso di piazzarlo di fronte al tavolo di studio e di preghiera, no, non può essere un caso, ma una sua precisa, eterna volontà.
Allora, all’improvviso, ti lasci persuadere: chiudi gli occhi, cominci a sentire le sue mani posate sulla testa, sei uno di quelli che ha incontrato per la strada, nei campi, nelle sinagoghe scalcinate, e provi un senso di pace, come se i suoi occhi, il suo tocco, cambiassero qualcosa, come se, per la prima volta in vita tua, potessi dire “io”, “tu”, e avessi ritrovato, per miracolo, la tua vera, fino ad oggi incredibilmente ignorata, identità.
Solo da allora, ogni persona che incontri non è più un pretesto per sentirti solo, ma un’occasione per essere te stesso, riflesso, finalmente, nella luce mite del suo sguardo.