Archivio mensile:Ottobre 2015

Frammenti di un discorso poetico

Arendt
(Saggio breve inedito)

di Rosa Salvia

Questa mia ‘irruzione’ nel labirinto della comunicazione poetica prende avvio con una riflessione di Simone Weil: “in poesia non c’è atteggiamento di maggiore umiltà dell’attesa muta e paziente. È l’atteggiamento dello schiavo pronto a qualsiasi ordine del padrone, o all’assenza di ordini. L’attesa è la passività del pensiero in atto. L’attesa è trasmutatrice del tempo in eternità”. (1) Continua a leggere

9. La fede della Chiesa

battaglia
Era la nostra relazione il fondamento, il perno della storia. Più si procedeva, più il Signore ci faceva comprendere che occorreva trovare lì energie e motivazioni, che l’incontro tra noi era il nucleo incandescente, il big bang da cui si sarebbero formati gli eventi promessi, come una serie potente di deflagrazioni. Proprio per questo il demonio ci attaccava, cercava di mettere zizzania, suscitava incomprensioni e gelosie, che portavano sull’orlo di rotture irreparabili. Ogni volta però, nella preghiera, riemergeva la coscienza di un dono, di un Progetto che andava al di là delle nostre mancanze e insicurezze. La storia della profezia era piena di queste insufficienze, del dolore di chi viaggia in direzione opposta, lottando coi fantasmi delle tentazioni e della propria umanità recalcitrante. Ci invadeva una forza misteriosa, spingendoci ad andare oltre noi stessi, approdando, come dice il Vangelo, all’altra riva. Era questa la chiave che ci dava il coraggio di affrontare un contesto refrattario e ostile, di combattere una guerra con nemici invisibili e mortali, annidati in ogni angolo, pronti a sferrare in ogni istante il colpo decisivo. Ma con noi non l’avrebbero spuntata: questa era la nostra fede, questa è la fede della Chiesa.

Inerzia 3: un salto di due millenni

di Antonio Sparzani

Sesto Empirico
Vi raccontavo, nell’iniziare questi discorsi sull’inerzia, che un modo per caratterizzare la rivoluzione, detta comunemente Copernicana, che si verificò nella conoscenza del mondo occidentale nei primi secoli dell’era moderna, è quello di dire che il cambiamento più drastico fu un sostanziale allargamento, nella nascente scienza del moto, dell’idea di inerzia.

Per spiegare questa affermazione dobbiamo riferirci allo studio dei fenomeni naturali, riguardanti oggetti inanimati, e ricordare che per la filosofia antica ciò che va spiegato da una scienza naturale del moto è il moto stesso, di qualsiasi tipo esso sia: qualsiasi moto va spiegato, cioè deve possedere una causa: solo la quiete non richiede spiegazione; quiete e moto sono due estremi, due opposti, essi si escludono a vicenda, come il bianco e il nero, o il bene e il male (paragone da brivido, chissà mai . . .). Continua a leggere

8. Il suo combattimento

tronco
La prima impressione fu quella di trovarsi all’improvviso nel posto sbagliato al momento sbagliato: un pacchetto già pronto, dove il prete era poco più che un soprammobile. Un’idea simile sarebbe potuta scaturire solo da qualcuno convinto di disporre di persone e cose alla stregua di una proprietà privata. Tentarono di instradarmi nei binari, censurando ogni minima obiezione. La sostanza dell’approccio si riduceva a questo: qui fai quello che diciamo noi. Non c’era l’ufficio parrocchiale, ma una segreteria dove il gruppo laico dirigente era padrone incontrastato. Da anni continuavano a ripetere le medesime cose nell’identico modo: provare a cambiarle avrebbe significato guerra aperta. Il mio ufficio diventò un tronco d’albero nel giardino antistante la parrocchia, situata al di sotto di una struttura alberghiera annessa all’opera del Divino Amore. Dopo un primo istante di sorpresa, cominciai a procedere in direzione opposta a quella suggerita: dosi massicce di ecclesialità e di Parola di Dio, che restituirono agli spauriti catechisti una coscienza della loro dignità. Un po’ alla volta, la comunità fioriva, iniziava a coltivare in cuore la parola libertà. Dalla grotta di Elia ai nuovi posti dove era possibile incontrarsi, noi due ci lasciavamo ispirare dal Progetto di un Dio che si faceva ogni giorno più vicino, più coinvolto, come se il combattimento fosse il suo, e non il nostro.

Dieci domande a dieci scrittori-traduttori. Riuscire a trasmettere la voce dell’autore: Silvia Pareschi

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Silvia Pareschi, traduttrice dall’inglese all’italiano di grandissimi autori – da Jonathan Frazen a Zadie Smith, da Junot Díaz a Julie Otsuka, da Nancy Mitford a Don DeLillo (e molti altri ancora) – …… Ciao Silvia, innanzitutto complimenti per il tuo lavoro di traduttrice e per aver dato la possibilità a moltissimi italiani di conoscere le opere di alcuni dei migliori autori degli ultimi anni. Comincerei con un paio di domande alle quali hai già risposto probabilmente molte volte, ma che possono aiutarci a capire chi sei.

1) Come sei arrivata a fare la traduttrice?

Grazie a una buona dose di fortuna. Mi sono laureata in lingue con una vaga idea di voler tradurre letteratura, quella russa, però. Dopo la laurea e una serie di lavoretti per sbarcare il lunario, mi sono iscritta al master in tecniche della narrazione alla scuola Holden di Torino, sempre con una vaga idea di voler lavorare nel mondo dell’editoria. Durante il master, mentre seguivo un seminario sulla traduzione, venni notata dalla docente, Anna Nadotti, che mi segnalò alla casa editrice Einaudi. La mia prima traduzione pubblicata fu Le correzioni di Jonathan Franzen. Non potevo sperare in un esordio migliore.

2) Parliamo, appunto, dei tuoi esordi nel difficile mondo della traduzione. Te lo chiedo soprattutto a nome di quanti non conoscono certe dinamiche dell’editoria. Come funziona? Scegli tu chi tradurre? Vieni scelta? E cosa succede se non riesci a sviluppare un feeling con l’autore e col testo?
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7. L’ignoto

ignoto
Il primo impatto, dunque, fu durissimo. Dentro mi sentivo morire, ma mi sforzavo d’essere aperto e disponibile, per non propormi sotto forma di problema, ma semmai come risorsa. Nel Santuario era il caos: una riunione del clero locale fu interrotta da un intervento telefonico del Cardinale, che proibiva le consultazioni indipendenti. Nessuno sapeva cosa fare. Paradossalmente, ero l’unico in possesso di certezze: l’urgenza di scaricare le valige, sistemare la stanza, prendere coscienza dell’ambiente. Il mio mentore era il vice del don, che mi trattava con squisita gentilezza, cercando d’alleviare l’angoscia del momento. Era il primo settembre: dietro di me lasciavo una parrocchia e un Centro giovanile cui trasmettevo il mio carisma, ereditato da don Mario, il maestro di sempre; davanti a me, l’ignoto.
Presto, al Santuario, fu nominato un amministratore, che conoscevo dagli anni del seminario diocesano. Mi stimava, e valorizzò largamente i miei talenti: mi affidò messe importanti e mi permise di tenere, settimanalmente, una catechesi cui presto affluirono cento e più persone. Da febbraio in poi, mi delegò la pastorale parrocchiale: lì subii il secondo trauma, che si aggiunse alla scomparsa imprevedibile del don.

Joseph Czapski, «Proust a Grjazovec»

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Józef Czapski, Proust e il ritorno della memoria nella ‘terra disumana’ dei gulag.

Proust a Grjazovec (Adelphi, pp. 125, euro 18) è un libro decisamente particolare. Denso, a tratti commovente, luminoso. Di che si tratta? È un saggio, una lezione, una conferenza su Proust, un florilegio della memoria sfuggito, per miracolo, alle maglie strette del gulag di Grjazovec – uno dei tanti nell’enorme arcipelago –, a quattrocento chilometri da Mosca. Continua a leggere

6. Sorprese

caffè
Alla fine la spuntammo: avrei fatto un anno sabbatico, poi sarei tornato. Dentro di me, però, sapevo bene che non si sarebbe trattato di un tempo così breve. Intanto, bisognava pensare a un sostituto: sua eminenza disse di aver trovato la persona giusta, “un uomo di Dio”, che poi si rivelò diverso da quanto potessimo pensare.
Avvicinandosi il giorno del trasferimento, m’interrogavo sugli scenari nuovi che si aprivano. Con il don si parlava di creare un centro di spiritualità e cultura, e già mi vedevo contattare questo e quello, tessere reti con scrittori, pittori, musicisti. Ma soprattutto pensavo a quanta gente avremmo avvicinato, grazie al santuario di recente costruzione, capace di accogliere due migliaia di fedeli.
Venne il giorno fatidico: mi preparavo all’incontro con il don. Assaporavo la bellezza di poter condividere con lui l’ebbrezza di una vita nuova, la realizzazione di un Progetto pensato su misura, la manifestazione potente della volontà di Dio. Ora lo chiamo, ora mi chiama. Per prima cosa cosa andremo a prenderci un caffè.
No, niente chiamate, né caffè: il don se n’era andato.

Le voci del Pretorio. Il romanzo epistolare di Angelo Ascoli e Pasquale Vitagliano. La quinta risposta

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Quinta risposta

Mio caro Daniele,

Ma c’è stato davvero qualcuno che ci ha impedito di trovarci a Caserta? Cosa succede? Cosa è accaduto? Che cos’è che mi sfugge? Se non avessi visto io stesso il corpo gelido di Emilia, se non fossi certo, certo almeno di ciò, che lei è morta, uccisa, a Caserta, che lei era a Caserta per incontrare te e da lì non è più tornata, se non fossi sicuro di ciò, Daniele, oggi sarei certo che è stato tutto un gioco, o sei vuoi un sogno, un incubo. Se non sei stato tu a rinviare l’appuntamento, allora è stata Emilia. Lei forse non voleva intrusi tra di voi. Oppure è stato chi l’ha poi uccisa: anche per lui, io sarei stato un intruso.
Da qualche parte devo aver letto che ci sono delle menzogne che non riescono a restare nascoste, che chiedono di uscir fuori, di essere dette. Smascherate. “Se tu hai mentito”: ti è scivolata così, alla fine di quella tua ultima, strana lettera. Mentito. Io non avrei mai pensato che tra noi due potesse esserci la menzogna.

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Charles Baudelaire, un maledetto romantico

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di Augusto Benemeglio

1. Il destino.

Charles Buadelaire – forse – non meritava quella madre, né quelle eterne angustie finanziarie; non meritava quel gretto Consiglio di famiglia formato dalla stessa madre, dal patrigno e dal fratellastro, che lo deprivò della sua libertà d’agire, né quell’amante tirchia; non meritava di morire di sifilide a soli quarantasei anni. Continua a leggere

5. La sua spiaggia

Spiaggia
Il tempo passava, e sembrava non succedere nulla. Poi, all’improvviso, ci fu un’accelerazione inaspettata. Nella preghiera, emerse la necessità di puntare molto in alto, di parlare del Progetto con la gerarchia. Divisi tra speranza e panico, percorremmo una strada che solo il Signore avrebbe potuto suggerire, perché le autorità costituite erano del tutto refrattarie a questioni di tal fatta. Ogni volta che mi presentavo in Vicariato, mi sentivo un alieno in visita fugace a un pianeta lontanissimo. Eppure avvertivo una strana sicurezza, come se le istanze non fossero mie, ma agissi su delega di qualcuno più importante. Sarà per questo, sarà che la preghiera diventa infallibile se si allinea col volere di Dio, accadde quello che non avremmo mai sperato. Scegli il divino amore: l’invito imperioso apriva le porte che in qualunque altro caso sarebbero rimaste invalicabili. Cominciai a preparare i parrocchiani e i membri del Centro giovanile. Mi sentivo tirato da due parti, lacerato da opposti desideri. Ma sapevo quale fosse il mio destino, avvertivo la presenza di un Dio che ti lascia sempre libero, ma al tempo stesso ti rende consapevole di dove ti vorrebbe: e quando vuole, è un’onda irresistibile che ti trascina dritto alla sua spiaggia.

Chandra Livia Candiani, Un invito per un tè

Segnalo due incontri nell’ambito di Bookcity.

Il 23 ottobre: Invito a un tè con i morti. Chandra Livia Candiani legge dalla nuova edizione di Bevendo il tè con i morti (Interlinea 2015) e dialoga con Vivian Lamarque. Presso la Sala della Balla del Castello Sforzesco, a Milano. Alle ore 17.

Il 25 ottobre: Il silenzio è cosa viva. Chandra Livia Candiani legge dalla nuova edizione di Bevendo il tè con i morti (Interlinea 2015). Presso Philo, via Piranesi 12, a Milano. Alle ore 18.30.

In occasione della riedizione di questo libro, ormai introvabile nell’edizione pubblicata nel 2008 da Viennepierre, ripropongo una intervista da me fatta a Chandra Livia Candiani nel 2008. Continua a leggere

Vivalascuola. Un tempo si sarebbe detto: la scuola dei padroni

I governi dell’ultimo ventennio stanno realizzando la scuola pianificata da industriali e finanzieri, per i quali l’Associazione TreeLLLe si è assunta il ruolo di “esperta” in faccende scolastiche. Ecco allora la scuola modellata sull’azienda per rispondere agli interessi dell’azienda. Aziende italiane, cioè aziende a bassa tecnologia, che chiedono scuole e lavoratori a bassa cultura. In altri tempi si sarebbe detto: la scuola dei padroni. Oggi diciamo: la scuola di Renzi e dell’Associazione TreeLLLe. Cos’è questa associazione? Chi ne fa parte? Cosa vuole? La presentano in questa puntata di vivalascuola Pietro Ratto e Michela Di Paolo. Mentre Giuseppe Nicolao, Massimo Calcalella e una nota congiunta di Alvaro Berardinelli, Francesco Mele, Vincenzo Pascuzzi e altri dimostrano la falsità di alcune affermazioni del suo presidente Attilio Oliva.
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4. Naufraghi

mare
Parlavo col don a intervalli regolari. Lui era minuto, con gli occhiali che prendevano sul volto uno spazio esagerato. Mi capiva: solo più tardi seppi che era uno dei direttori spirituali più quotati, nella nostra città.
Ascoltava senza mai interrompere e ciò m’incoraggiava a raccontare, sgranando la mia vita come un rosario logoro per l’uso. Dai colloqui con lui non trapelava nulla della reale situazione del Santuario: quando entrai e mi resi conto, mi chiesi spesso come avesse potuto resistere anche al minimo sfogo, pur essendo la vittima innocente del sistema. Dagli incontri con lui ritornavo migliore: una lezione di ascolto e di accoglienza, che faceva maturare in me una fiducia radicale nel Progetto. Fino ad allora, questo termine non era, per me, così importante: adesso, invece, si rivelava un credo di cui non avrei più potuto fare a meno. Intorno c’era gente che procedeva incerta, come a tentoni; persone angosciate o rassegnate, indifferenti, impegnate a sopravvivere facendo il morto a galla. Io no, ero parte di un Disegno, un volere di Dio che mi chiamava nel mezzo di una prova in cui da tempo navigavo a vista. Il Signore, per intercessione del mio amico, mi aveva sottratto a poco a poco a una rovina più certa della morte. Nelle nostre preghiere alla luce delle stelle, mi sentivo un naufrago sospinto sulla spiaggia da un’onda irresistibile. Elia ci fissava con le braccine alzate, indeciso se esultare o disperarsi. Il gatto non osava avvicinarsi: ci studiava da lontano, per decidere, alla fine di una lunga riflessione, se fidarsi o meno dei due strani personaggi con cui condivideva il territorio.

Inerzia 2: un vizio antico

di Antonio Sparzani
accidia
Dopo aver conosciuto la singolare inerzia del pigro Sole, conviene forse, per meglio comprendere l’idea d’inerzia e quanto le sta intorno, rifarsi alle origini almeno (perché altre parole appariranno lungo la strada) delle parole inerzia e accidia nelle letterature classiche. L’antecedente etimologico immediato per la prima è naturalmente il latino classico inertia, formato da in – ars, cioè assenza di arte, di attività, con lo slittamento di significato verso l’idea di non-fare in generale, e quindi inattività, pigrizia, inettitudine. L’antecedente etimologico del secondo è invece greco (esiste in latino un verbo acedior, d’uso assai raro e che significa mi intristisco, divento scontroso) ed è il sostantivo, anche qui piuttosto raro, ak?dìa (??????), talvolta ak?deia (???????), non usato dagli scrittori attici, ma solo in testi più tardi, tipicamente medici, per indicare spossatezza, esaurimento, abbattimento dello spirito.

Certo che se però si desse un’occhiata ad esempio al recente libro del monaco eremita Gabriel Bunge, intitolato Akedia, il male oscuro (Qiqajon, 1999) Continua a leggere

Liguria Spagna e altre scritture nomadi, di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi

Magliani
Prefazione di Giuseppe Panella

Sì, viaggiare…
Letteratura di viaggio e stile della visione

«Potrei cominciare l’elogio del mio viaggio col dire che non m’è costato un quattrino: il che costituisce un punto degno di considerazione. Per questo dunque, esso sarà soprattutto decantato e applaudito dalla gente di modesta condizione. Ma c’è un’altra categoria, presso cui esso è ancor più sicuro di ottenere successo per la stessa ragione che non costa un quattrino. Chi sono dunque costoro? Come, me lo chiedete? Sono i ricchi. Inoltre, questo modo di viaggiare offre non pochi vantaggi agli ammalati, i quali non avranno più da temere l’inclemenza del tempo e delle stagioni. Quanto poi ai timorosi, questi saranno al sicuro dai ladri, non incontreranno precipizi e paludi»
(Xavier de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera) Continua a leggere

SUL TAMBURO n.8: Costanza Geddes da Filicaia, “Dura Lex sed Dura”

Costanza Geddes da Filicaia, Dura Lex sed DuraCostanza Geddes da Filicaia, Dura Lex sed Dura. Parodie di uomini di legge in letteratura italiana, Firenze, Nicomp Editrice, 2015

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di Giuseppe Panella

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La dizione esatta sarebbe, ovviamente, Dura Lex sed Lex ad indicare la necessità di rispettare la legge stabilita e vigente anche in presenza di molte attenuanti per chi ne è l’oggetto e soprattutto se le sue pratiche punitive possono sembrare disumane e impossibili da accettare e applicare. La capacità di far funzionare la legge e di farla rispettare equanimemente dovrebbe, infatti, permettere a ogni consorzio civile stabilito di vivere tranquillamente nelle proprie occorrenze quotidiane e di stabilire, di conseguenza, regole consolidate e accettate da tutti.

Ma altrettanto ovviamente non è così. La letteratura, vista come un osservatorio privilegiato delle storture della vita umana e dell’imbecillità in essa predominante, contiene innumerevoli momenti significativi di scontro tra il buon senso e l’esercizio della giustizia e molte esemplificazioni rappresentative del cattivo esercizio del modo in cui essa viene applicata.

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3. La grotta di Elia

grotta di Elia
Non ricordo come emerse la questione del Divino Amore. Pregavamo in cima alla collina, nella grotta di Elia. Leggevamo i pensieri scaturiti dalla preghiera intensa cui da tempo eravamo abituati; ogni tanto si affacciava un gatto: non si capiva se cercasse compagnia o protestasse per l’usurpazione del proprio territorio. Per poter decifrare la scrittura, a quell’ora, occorreva una torcia: sembravamo due eremiti in un rifugio in capo al mondo, dove solo le stelle osservavano i nostri movimenti. Una sera di quelle, espressi il desiderio di rimanere lì, in un luogo dove avrei coltivato il mio carisma. E fu in un’atmosfera come questa che sentimmo una voce proveniente dal profondo: scegli il divino amore. Avrebbe potuto trattarsi di un’esortazione a non fermarsi all’amore solamente umano, imperfetto e insufficiente; una spinta a fare con coraggio il salto che traghetta dalla nostra volontà – la famigerata filautia – alla volontà di Dio, che tanto invochiamo, ma spesso ci rimane estranea. Solo più tardi comprendemmo che l’appello prediceva che sarei stato trasferito qui, che il Signore l’aveva previsto dall’inizio, e che l’enigma della vita non avrebbe trovato soluzione se non in questa casa dello Spirito Santo e di Maria.