E’ di moda criticare il ’68, ci dicono: ma non è mica tutto da buttare. Daccordissimo.
Infatti credo che gli anni Sessanta abbiano espresso istanze di genuino e democratico rinnovamento, che però, soprattutto in Italia, sono state quasi subito fagocitate da una sinistra fondamentalmente statalista e giacobina, che ha barattato l’emancipazione delle menti con la burocrazia dei diritti: risultato, l’istruzione dequalificata e obbligatoria.
Perfino dalla pedagogia di don Milani, che era uno straordinario maestro, capace di rimotivare e e ristrutturare i percorsi educativi di chi veniva scartato dalla scuola borghese, si è preso solo quel che si voleva prendere: la difesa delle pari opportunità, senza lo stile educativo, fondato sul personalismo cristiano e non su un astratto ugualitarismo.
Risultato? Il famoso Gianni (“che non va più in chiesa, nè alla sezione di nessun partito. Va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente. Il sabato a ballare, la domenica allo stadio”) all’epoca era il ritratto di uno che non andava a scuola, oggi è quello di un diplomato medio delle superiori.
Eppure istanze antiburocratiche e antiautoritarie furono sollevate all’epoca, contro il sistema dell’istruzione pubblica, e le tre voci che ho raccolto qui non sono tra le meno importanti.
Cosa resta di tutto questo, che forse dell’effervescenza di quegli anni era la parte migliore?
Poco, direi, visto che, proprio grazie alle generazioni di politici e sindacalisti italiani partorite dal ’68 la scuola è diventata il diplomificio che è, gl’insegnanti gl’impiegatucci che sono, il sapere la ratifica della cultura dominante, orfano di qualsiasi autentico spirito di ricerca.
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