Archivio mensile:Aprile 2017

Luigi Maria Corsanico legge Trilussa

[youtube=https://www.youtube.com/watch?v=Mgzc0ajmqss&feature=youtu.be]

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TRILUSSA
La ninna nanna de la guerra
Ottobre 1914
Interpretata da Luigi Maria Corsanico

Ancient Roman Music – Musica Romana I
Tracks “XVII” from Symphonia Panica album
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95. L’ultima Thule


Dovevamo parlare e agire con prudenza: dire e non dire, lasciar intravedere, aprire spiragli su scenari che già apparivano evidenti, ma di cui si accorgeva solo chi voleva. C’era una tendenza irresistibile a chiudere occhi e orecchi alla realtà. Le due fazioni della Emmerich erano sempre più chiare, giorno dopo giorno, ma non riguardavano soltanto le questioni dottrinali, bensí la visione stessa della storia, le mosse degli Stati, le trame del terrore “religioso”, le vie tortuose di un’umanità plagiata dal principe della menzogna. Perché quasi di plagio si trattava, anche se il libero arbitrio era l’ultima parola, l’adesione a Dio o a Beliar, l’avversario, il serpente antico, il nemico della natura umana. Noi potevamo procedere solo per accenni, allusioni, che pure a molti sembravano minacce, messaggi criptici capaci di insinuare angoscia ed inquietudine. Magari fosse stato questo l’effetto degli appelli! Avevamo ricordato più volte che i turbamenti provengono dal diavolo, eccetto quello che serve a sradicare da scelte sbagliate, che portano alla morte. Questi sono l’opera dello Spirito Santo, che cerca d’incrinare le certezze di un popolo, oggi come allora, dalla dura cervice. La sensazione strana era toccare un punto, nei discorsi, oltre il quale non era possibile procedere: erano le colonne d’Ercole, l’ultima Thule di un cuore refrattario alla voce di silenzio sottile che il profeta aveva udito sul monte di Dio, e che tutti, ancora una volta, eravamo invitati ad ascoltare.

L’isola misteriosa. La Biblioteca dei libri inutili. N. 3

Come per l’idea rimasta incompiuta di realizzare un Catalogo delle idee chic, che avrebbe dovuto essere il seguito e la conclusione del romanzo Bouvard e Pécuche di Flaubert, letture e proposte di libri singolari eppure dimenticati.

Corruzione al Palazzo di giustizia, Ugo Betti (1944)

Il Palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido, del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi… E’ come una cancrena che si allarga», dice il giudice Bata all’inizio del dramma teatrale di Ugo Betti, scritto nel 1944 e rappresentato per la prima volta il 7 gennaio 1949 al Teatro delle Arti di Roma.

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Finale


Il male ha una faccia monocorde,
è il canto stonato che non cessa,
la nube velenosa
che impregna le sinapsi
e ti corrode il cuore.
Non hai più pedine da spostare:
avanza la Regina, con sortite
sempre troppo varie, improvvise, da agente
segreto del destino. Tu gridi, invochi,
finché non torna il Padre, o il Figlio,
l’affondo trinitario della Pace,
la mossa sconosciuta, che ti salva.

La Georgia di Panowich, tra droga, alcol e senso dell’onore

Fog_Panorama

NN editore non è solo Kent Haruf. Se è vero che la squadra milanese capitanata da Eugenia Dubini in poco più di un anno ha scalato le classifiche delle vendite e lo ha fatto con quella Trilogia di Holt, ormai da annoverare tra i capolavori della letteratura americana del XXI secolo, ecco che sulla soglia di questo 2017 che già ha donato il più tardo gioiello del cantore della pianura statunitense, da via Sabotino mettono sul tavolo un poker di libri nuovi che non sono il riempitivo di un catalogo dominato da Haruf ma opere a tutto tondo, dotate di una forza sorprendente e di una bellezza autonoma. Qualcuno ha detto che i ragazzi di NN non ne sbagliano una; e io mi unisco a quello che potrebbe diventare un coro. Così, dopo Mia figlia, Don Chisciotte di Alessandro Garigliano e Il Salto di Sarah Manguso, da un paio di settimane – ma frattanto è uscito anche La fine dei vandalismi di Tom Drury, primo capitolo di una nuova trilogia, quella di Grouse County – è in libreria Bull Mountain (portato in italiano da una cordata di traduttori che hanno deciso di rimanere anonimi, pp. 296, euro 18) dell’esordiente Brian Panowich, una storia da cardiopalma che ha fatto dire a James Ellroy che lì dentro c’è tutto: “whiskey, droga e caos”. Continua a leggere

Luigi Maria Corsanico legge Rainer Maria Rilke. 3

[youtube=https://youtu.be/9J_-4GYu2Qo]

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Rainer Maria Rilke
Infanzia (Kindheit)
dalle “Nuove Poesie”, in “R. M. Rilke, Poesie II [1908-1926]”,
Biblioteca della Pléiade, Einaudi-Gallimard, Torino, 1994
Traduzione di Giacomo Cacciapaglia
da “Neue Gedichte”, Insel-Verlag, Leipzig, 1907

Lettura di Luigi Maria Corsanico

Vincent d’Indy
dalla Sonata per violino e pianoforte Op. 59

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I Paesaggi piemontesi di Giuseppe Torelli

Paesaggi Torelli

Giuseppe Torelli fa parte di quella schiera di autori dell’Ottocento piemontese che poca fortuna ha riscosso presso l’editoria del nostro e del secolo precedente. Tuttavia non è scrittore da dimenticare se anche Italo Calvino vide nell’Emiliano un romanzo degno d’essere inserito tra le “Centopagine”. Torelli nasce nel 1816 a Recetto (Novara), ma trascorre l’infanzia in Valsesia, nel convitto di Doccio. Orfano a nove anni di entrambi i genitori, studia medicina a Vercelli, seguendo le orme paterne. Scrive, a Novara, sull’“Iride” di Angelo Brofferio. Collabora e dirige importanti riviste, siglando sovente gli scritti con lo pseudonimo (che mantiene per quasi tutta la produzione) di Ciro d’Arco. Amico di Massimo d’Azeglio, ne diviene segretario e di lui cura, postumi, I miei ricordi. Dal 1852 al 1856 dirige la “Gazzetta Piemontese” (la futura “Gazzetta Ufficiale”) sulle pagine della quale pubblica racconti e descrizioni paesaggistiche confluite poi nel volume Paesaggi e profili (Le Monnier 1861). Deputato nel 1860 e nell’anno successivo, trascorre gli ultimi anni a Torino dove si spegne nel 1866. Continua a leggere

La scelta, di Elena Bono


Dicono ch’era sogno

e che per nulla più di un sogno

siete morti. E sia.

Sogno per sogno in terra di dormienti

scegliamo il sogno da sognare.

Chi di bruto

chi di uomo.

Sulla prescelta barca fare il viaggio

e ritornare

dove tutto ritorna.

Né fiume può sostare

né luna

né musica.

Può soltanto fuggire

questa mazurca

sperduto addio

battendo l’ali ancora

contro il mio viso

e dileguare.

[su segnalazione di Barbara Pesaresi]

SUL TAMBURO n.39: Rino Garro, “Valigie. Storie dal Mario & Gianni’s Restaurant”

Rino Garro, Valigie. Storie dal Mario & Gianni’s Restaurant, Cosenza, Falco Editore, 2016

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di Giuseppe Panella

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Questo libro di Rino Garro è un racconto di poche pagine (36 per l’esattezza) ma denso e succoso come un limone maturo, fatto di intuizioni e di allusioni, di sogni e di speranze, di tragedia e di illusioni in un domani migliore. Scritto in italiano ma tradotto in inglese eccellentemente da Maggie Rose e poi edito con una curiosa ed efficace soluzione grafica per cui il testo inglese appare rovesciato rispetto a quello italiano in una curiosa giustapposizione delle parti, il racconto di Garro si può riassumere in poche frasi e situazioni topiche.

Un giovane calabrese che insegna a Firenze, disilluso e stanco ma non domo dalle tristi vicende precedenti vissute in Italia, desideroso di iniziare una nuova vita in Inghilterra, porta con sè una valigia ripiena di tutto il suo avere trasportabile (omnia sua secum portat). Questa valigia ritorna nei suoi sogni e nelle sue angosce fino a diventare il suo pensiero predominante e l’oggetto che domina in tutte le sue paure.

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94. Paradossi


La situazione era paradossale: non solo eravamo certi della veridicità delle ben note profezie, ma ormai gli eventi andavano delineandosi con una chiarezza disarmante, a cominciare dalle dichiarazioni sulla guerra atomica, che campeggiavano sulle prime pagine dei quotidiani, ma non segnavano affatto il quotidiano della maggior parte della gente, incline a rimuovere qualunque minaccia alle proprie, precarie sicurezze. Quando si sarebbero attuati i fenomeni previsti? Chi parlava di maggio, chi dei mesi successivi, fino a ottobre, altro anniversario delle apparizioni ai pastorelli portoghesi. Diventava difficile parlare di qualcosa che avvertivamo come duro, terribile, drammatico. Eppure, il nostro compito di sentinelle ci spingeva a spargere il seme della consapevolezza in terreni spesso refrattari, in orecchie invase dai rumori di un mondo concentrato nei suoi interessi effimeri, nello sforzo sterile dell’autoaffermazione, nella ricerca del piacere, negli equilibri instabili di competizioni, rancori, delusioni. Come riuscire a far breccia in questa scorza, come convincere dell’urgenza del momento, quando persino nella Chiesa prevaleva, spesso, una visione orizzontale, sociologica, priva della carica esplosiva della Pasqua appena celebrata? Sempre più comprendevamo che senza la potenza della Risurrezione, il Cristianesimo si riduceva a una ben misera cosa: un’organizzazione sociale come tante, un attivismo spesso logorato da denunce impotenti e da reciproche accuse di inerzia o inefficienza. La nostra fede era di più, molto di più, e noi avevamo il compito di farcene memoria vivente e coraggiosa.

Che cosa fare del mio cadavere (II)

di Roberto Plevano

(continua da qui)

Poi c’è il computer sulla scrivania, il compendio della mia attività. Lì c’è un caos inestricabile, di cui non ho fatto nemmeno un backup. Anche ammettendo che qualcuno riesca a indovinare la password di login (perdonatemi, non esistono termini in italiano, se dico ‘salvataggio’, ‘parola chiave di accesso’ nessuno mi capirebbe), che non è annotata da nessuna parte perché per me e soltanto per me è impossibile da dimenticare (e per tutti gli altri è impossibile da azzeccare), ma, da ex vivente, è come se l’avessi dimenticata (infatti non posso nemmeno muovere un dito, e i morti, si dice, sono piuttosto smemorati, cf. Odissea, X e XI: ?????? ??????? ??????, le teste senza forza dei morti), nessuno potrà ricavare un senso qualsiasi dalla massa di materiali nel computer e nel cloud (ancora, se dicessi ‘nella nuvola’, pensereste che ho bevuto o fumato qualcosa di forte, prima di decedere), e tutti i miei appunti, pensieri, abbozzi, inediti, rimarranno tali, svaniranno come se non fossero mai esistiti. Fare le cose alla meno peggio, non avere disciplina, lasciare tutto in uno stato indefinito che si definisce work in progress (significa soltanto che uno è pigro e inconcludente), può avere conseguenze devastanti, se desideriamo che qualcosa rimanga dopo di noi. Baruch Spinoza, per dire, morì giovane, ma lasciò in perfetto ordine la sua opera da pubblicare, manoscritti e corrispondenza nel suo scrittoio chiuso a chiave; i suoi amici poterono editare e mettere meticolosamente a stampa un libro come l’Ethica e tutti gli scritti nel giro di otto-nove mesi. Trecentoquaranta anni fa.
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Luigi Maria Corsanico legge Mario Benedetti

[youtube=https://youtu.be/s615SuoAecg]

da qui

[youtube=https://youtu.be/KMREJrvBIAE]

da qui

Mario Benedetti
Cuore corazza (Noción de Patria / 1962-1963)
Traduzione: Martha L. Canfield
Lettura di Luigi Maria Corsanico

Dipinti di Eugène Carrière

Chiquilin de Bachin – Astor Piazzolla
Duo Vent d’Anches:
Sophie Braconnier: flûte
Michel Lambert: accordéon Continua a leggere

Che cosa fare del mio cadavere (I)

di Roberto Plevano

Diamine, è successo. Mentre dormivo, non me ne sono neanche accorto, questione di mezzo minuto. Non che si potesse evitare o trovare un tempestivo rimedio: occlusione completa di un’arteria coronaria, flusso del sangue bloccato e conseguente morte dei tessuti del muscolo del cuore – il cuore è un muscolo, mi dicevano, è sempre in esercizio. Si chiama infarto miocardico. È un malanno comune, sono in buona compagnia, ed è superabile: in Italia vive un milione e mezzo di infartuati, chissà quanti nel mondo.
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La Rapsodia francese di Antoine Laurain


di Guido Michelone

Tra i migliori romanzi usciti in Francia lo scorso anno c’è questa Rapsodia francese di questo Antoine Laurain, di cui si sa veramente poco: si sa ad esempio che nasce a Parigi all’inizio degli anni Settanta e che, prima di dedicarsi alla scrittura, studia cinema, gira diversi cortometraggi e lavora come assistente antiquario. Continua a leggere

Vita? O teatro? Charlotte Salomon a Milano

di Stefanie Golisch

Devi capire te stesso per poterti reinventare.
da: Leben? Oder Theater? di Charlotte Salomon

Si dipinge, si crea, perché?
Per diventare qualcuno o per scoprire chi si è veramente?
Nel caso di Charlotte Salomon, la risposta a questa domanda non è difficile.
In condizioni estreme, davanti all’imminente minaccia della morte, lei dipinge per esplorare la sua vita in tutte le sue sfumature, smascherando le sue falsità e ambiguità e rievocando le sue gioie perdute.
Senza abbellirla.
Senza pregiudizio.
Per fare chiarezza.
E per combattere le sue paure.
Dipingendo il suo grande ciclo Vita? O teatro? Charlotte Salomon si riappropria della sua vita, ripercorrendola tappa per tappa con crescente intensità.
Dopo 18 mesi di frenetico lavoro in cui dipinge oltre 1300 tempere di piccolo formato, non è più la stessa donna di prima anche se non sarà in grado di cambiare il suo destino.
Morirà. A soli 26 anni, incinta di qualche mese, ad Auschwitz.
Eppure non è una vittima. Continua a leggere

L’uomo dei libri*

L’uomo dei libri era amico degli uomini e della terra. Da tempo manca all’appello della primavera. Ebbi modo di imbattermi in lui nella mia prima passeggiata nella nuova città ove ero giunto per lavoro, dopo essermi fermato alla Pensione Franchi, stracco dopo il lungo viaggio in treno. Giusto a metà aprile di anni fa, anni corsi via mentre io all’apparenza restavo a fissarne il movimento invisibile e certo, come la materia minerale ed i passi sull’acciottolato di una piazza. Continua a leggere

Prolegomeni alla sofferenza. “L’occasione della poesia” di Giuseppe Panella

Giuseppe Panella, L’occasione della poesia, Novara, Interlinea, 2015

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di Andrea Fallani

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1. La sublimazione del dolore
L’occasione della poesia (Interlinea, 2015) di Giuseppe Panella è una raccolta di poesie alla cui base vi è un’istanza autobiografica, «un’occasione» nella vita dell’uomo, prima ancora che del poeta: si tratta «dell’apparecchiamento della morte» e in particolar modo «il dolore, la fatica, il disagio, la noia che può precederla in molti casi»1. Tuttavia, meglio precisare sin da subito, il discorso poetico non si fa mai interamente autoreferenziale, al contrario, l’esperienza personale è spunto per indagare i rapporti tra vita e morte, tra tempo e spazio, tra sofferenza e serenità, tra l’uomo e il mondo.
L’imminenza della morte, pur cedendo a rimpianti per le occasioni e il tempo perduto (Proust sarà uno degli autori non citati che percorrono l’opera), lascia però adito alla speranza, alla costruzione di «un progetto di recupero delle radici vitali dell’esistenza e della sua modalità di sviluppo il più possibile armonioso»2. Sorretto dall’insegnamento epicureo e liberato dalla paura della morte, il poeta può così indagare i risvolti più dolorosi della vita e da essa trarne speranza, all’insegna della quale si concludono molte delle liriche («Ora ho solo bisogno del tempo – / di serenità nella sofferenza, / di sofferenze intente nella serenità / che ancora si congiunge / all’ambizione protetta / di continuare a vivere / nella gioia e nel dolore»3 oppure «Si può soltanto ritrovare / nello specchio del passato / tutto il desiderio del mondo / e riconoscerne intatto il valore fecondo»4).
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