Archivio mensile:Luglio 2013

VALORE D’USO DI FRANCESCO RECAMI. Dall’oggettività del disegno alla trama confusa del reale. Saggio di Giuseppe Panella

oggettività del disegno trama confusa del reale«Forse – rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.

– Non forse. Bisogna che sia, bisogna che sia!»

(Gabriele D’Annunzio, Forse che sì forse che no)

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di Giuseppe Panella

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VALORE D’USO DI FRANCESCO RECAMI. Dall’oggettività del disegno alla trama confusa del reale

1. L’ errore di Platini

Francesco Recami esordisce tardi, nel 2006 (è nato nel 1956, a Firenze) con un romanzo tuttavia già scritto tel quel nel 1986. Anche se precedentemente aveva pubblicato romanzi gialli per ragazzi e guide turistiche di montagna, ricade in pieno in quella letteratura degli anni Zero con i quali ormai si può cominciare a fare i conti per verificarne vezzi e novità formali, momenti di lucidità e sprazzi di follia, continuità e differenza, incursioni nella storia e sottomissioni al reale[1].

L’errore di Platini è una narrazione ispirata dalla lettura di alcuni testi straordinari di Peter Handke (primo fra tutti, La paura del portiere davanti al calcio di rigore) ma anche dalle contemporanee produzioni non più comiche ma melanconiche di Gianni Celati. E’ un romanzo di sperimentazione soft con punte satiriche non indifferenti e con un taglio volutamente freddo, oggettivo, quasi distante. L’esergo del volume (da Paolo Portoghesi) è estremamente ficcante:

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Piano piano

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da qui

Lasciarsi accarezzare dal tuo vento
che nessuno sa mai di dove venga
o dove vada. Intravedere il sole
tra le foglie degli olmi e la sua scia
larga sull’acqua. Sì, comunque vada,
qualcosa sta cambiando lentamente.
Sentirlo qui, dove per tante volte
la gioia ci ha visitato, come un ospite
venuto da lontano, dopo tanto
tempo: il passato diventa futuro,
l’origine la meta, e il paradiso,
che noi immaginavamo nell’inizio,
comincia solo adesso, piano piano.

“L’esternazione di Fassina dimostra il fallimento della politica dei due pesi e delle due misure” – di Mauro BALDRATI

DA TISCALI

 

La recente esternazione del viceministro Fassina sull’evasione di sopravvivenza ha scatenato un putiferio: giustificazione dell’evasione, che è sempre inammissibile, anche per chi ha un reddito al di sotto del livello minimo di sussistenza. Fotografia di una realtà malata che non può essere in alcun modo scusata né tollerata.

Non c’è dubbio che l’evasione fiscale in sé sia un concetto irricevibile e inammissibile. Tutto il sistema pubblico, l’assistenza, i servizi, si basano sul prelievo fiscale, cioè sul contributo di tutti i cittadini. Ma il coro unanime sa molto di retorica, e di ipocrisia. E non solo: l’enunciato di Fassina equivale a una dichiarazione di fallimento. E un viceministro che dichiara il fallimento del proprio ruolo e rimane al suo posto rappresenta una macroscopica contraddizione.

Partiamo dall’inizio. Non c’è dubbio che si tratta di una fotografia della realtà. Prendiamo un piccolo professionista che lavora poco. Per esempio una donna con figlio piccolo che dedica solo parte del suo tempo al lavoro, per curare la famiglia. Oppure, semplicemente, in tempo di crisi il lavoro scarseggia. Con l’attuale sistema incontra enormi difficoltà di gestione della propria attività. Le fatture vengono tassate all’origine (20-23 %), poi avrà le aliquote corrispondenti nel 730. Se non avrà spese extra da scaricare (alcune delle quali di comodo), del reddito resterà poco. Perché? Perché si presume che un professionista non possa lavorare poco e mantenere uno studio. Si chiamano anche “studi di settore”, che vari governi introducono, altri eliminano, poi di nuovo introducono ecc. Sei una psicologa? Sei un avvocato? Sei una sarta? Hai uno studio? Hai un laboratorio? Sei iscritto/a a un ordine professionale? E’ impossibile che tu abbia un reddito così basso. Quindi devi aumentare il tuo gettito fiscale. Devi entrare nella “normalità”. Continua a leggere

I CUSTODI DELLA CARTA – di Salvatore Settis

Da La Repubblica

28-7-2013

Si può cambiare la Costituzione, e come? Per tutto il 1947 la Costituente discusse appassionatamente questo punto cruciale. Tutti erano d’accordo che la Carta è «nelle sue grandi mura definitiva, e deve aver vita di secoli » (Meuccio Ruini), e che va intesa come “rigida”, un insieme organico di cui non si può cambiare un articolo senza incidere sull’insieme. Secondo il democristiano Lodovico Benvenuti (più tardi Segretario generale del Consiglio d’Europa), i principi della Carta «non possono esser rimessi all’arbitrio di qualsiasi maggioranza parlamentare», anche per evitare che affrettate modifiche richiedano «la complicità del presidente della Repubblica». Costantino Mortati (Dc) osservò che «la Costituente fu eletta ad hoc e nel periodo della sua formazione i partiti hanno presentato i loro programmi sulla nuova Costituzione», mentre «una Camera avvenire, eletta per un compito normale di legislazione», non sarà mai altrettanto legittimata a cambiarne il testo.
Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento europeo). Continua a leggere

Ora

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Da qui

Vedere in filigrana in fondo al golfo
il tuo volto accanto al suo,
ora che tutto si è chiarito, ora
che la bellezza ha rovesciato il mondo
e che niente, niente può più distruggere
la trama ricamata dall’eterno,
il mare, il cielo, le nuvole appese
al filo che trascina l’universo,
in un vortice d’amore che il mostro
s’impegna ad ostruire, a tutti i costi,
e tuttavia non può, non può, nemmeno
coi trucchi più insidiosi, con gli inganni
più astuti: sarete come Dio, fate
come vi dico io, e vedrete. Niente
può oscurare la bellezza di questo
golfo di Sirolo, dove, lá in fondo,
si vedono due volti, tra la gente.

32. Che cosa sia successo

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da qui

A Cafarnao c’è di tutto: è un incrocio di traffici, mercanti, doganieri. Potessi passeggiare senza destare l’attenzione, ti godresti ogni minimo dettaglio: le macine dell’olio e del frumento, le reti pendenti dalle barche, le botteghe ricolme di ceramiche. Continua a leggere

Ti scrivo

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da qui

Lo sai, però non puoi, però non vuoi,
se tutto questo amore ti toccasse
veramente, potresti, sì, vorresti
solamente amore, nonostante
le paure, nonostante il rischio,
vinceresti di slancio resistenze
e pregiudizi. Ma non vuoi, non puoi
dimenticare. Se soltanto, all’alba
della domenica mattina, quando
la pietra è ancora rotolata, quando
lo stesso giovane ripete: cosa
cercate, non è morto, è vivo, come
aveva detto negli scritti, è vivo
e vuole fare, delle vecchie, nuove
cose, lui sì che può e che vuole, come
ripete da duemila anni, ancora,
con le stesse parole che ti scrivo.

Dalla sua bocca. Riscritture da undici appunti inediti di Alda Merini

Dalla sua bocca

Dalla sua bocca
Riscritture da undici apunti inediti di Alda Merini
di Michele Caccamo e Maria Grazia Calandrone
ZONA 2013 – pp. 76
euro 10
Collana ZONA Contemporanea

L’internato psichiatrico è solo come il più solo degli uomini. Il poeta prende la parola in vece dell’intera umanità. Questa la differenza. Questa la qualità della gioia senza rimedio dei poeti. Questa la forse involontaria denuncia politica della parolacorpo Alda Merini.

Ebbi già modo di scrivere … intorno all’identificazione assoluta della poesia di Merini con il nudo della sua autrice, specie con quello esposto nelle fotografie di Giuliano Grittini – politicamente, ebbi a sottolineare – come un risarcimento già quasi postumo della sua carne fatta sobbalzare dagli elettrochoc e così rimossa, schierata nel macero ipernumerico degli internati, disertata e infine: disabitata, come disabitata si voleva fosse la carne dei matti nei reparti psichiatrici. Lo vediamo benissimo analizzando questi inediti. Vediamo i risultati dei carichi farmacologici sui territori di un’anima pure assoluta e colma di lucerne e vie di fuga come quella di Merini. (Maria Grazia Calandrone)

J. J. Cale (1938-2013)

J. J. Cale

di Loris Pattuelli

Una cosa bianca che assomiglia al blues, ecco quello che ha fatto J.J. Cale.

Quattro erano i grandi vecchi della scena rock: Bob Dylan, Leonard Cohen, Neil Young e J.J. Cale. Adesso sono rimasti in tre. Se ne è andato il più discreto, il più riservato, il più provinciale.

Un giorno, spero non troppo tardi, scopriremo quanto grande sia stato questo suonatore.

To Tulsa and back, così si intitola un suo disco di qualche anno fa. J.J. Cale era di Tulsa, la seconda maggiore città dello stato dell’Oklahoma. E a Tulsa arrivava Eric Clapton per imparare After midnight e Cocaine, e poi anche Mark Knopfler per copiare tutto e diventare anche più bravo di lui.

J.J.Cale era un autore di culto, non certo una rock’n’roll star. Bob Dylan ci ha messo sei lustri per tornare ad essere libero come lui.

Tulsa sound, così i critici chiamavano la sua musica. E hai voglia a dire gli ingredienti: rock, blues, soul, jazz, country. J.J. Cale ha creato una cosa bianca che assomiglia al blues. E questo, se non è tutto, poco ci manca.

Quattordici sono i dischi da lui incisi. Ne elenco tre (i miei preferiti): Naturally del 1972, Grasshopper del 1982 e To Tulsa and back del 2004. Di lui Neil Young aveva detto: “Il migliore chitarrista elettrico vivente dopo la scomparsa di Jimi Hendrix”.

http://www.youtube.com/watch?v=j0WUfUUQT28

http://www.youtube.com/watch?v=bL3g2JxfJt8

http://www.youtube.com/watch?v=6mqEvcEl4u4

Toto Trejos (Colombia, 1969-1999)

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Nueva versión del hijo pródigo

Vengo derrochando vida y dinero
desde que salí de casa, hace siglos
y no logro malgastar como quisiera.
Así que es absurda la parábola
donde se me muestra como alguien
que se ha perdido y ha perdido todo;
como el hambriento mendigo que come
hasta las sobras de los animales que cuida;
como el hijo que regresa derrotado.
Yo, que no he conocido más cerdos
que a mi padre y mi hermano,
ni más miseria y suciedad
que el lugar donde nací.
Yo, que en verdad,
no he pensado nunca en volver. Continua a leggere

Miracolo

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Da qui

Salvato a pezzettini di preghiera
dalle fauci del mostro –
che si serve di docili strumenti
in suo potere -, apprendi un po’ alla volta
il Progetto di un miracolo, l’ora
che scocca nonostante,
il suo volto che appare sullo sfondo,
di là dalla finestra, sulla soglia
della porta. Dentro la luce, pelle
che trema a ogni rumore,
il suo sguardo si posa sull’istante
intenso, sulla sposa
del Cantico dei cantici, nel sogno
del primo pomeriggio, quando insieme
li senti, li ricevi,
lasciandoti portare su dall’onda
del raggio che ti preme, che trasforma
in amore la sferza del bisogno.

31. Al centro esatto del cosmo

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da qui

Ti piace insegnare, portare la parola di tuo Padre, far capire al mondo che c’è qualcuno che si prende cura, che ama come nessuno potrebbe immaginare. Appena la gente ti si ferma intorno, lasci che dal cuore trabocchi la forza che non puoi più trattenere, neanche se volessi. Continua a leggere

Francesco Marotta, La poesia: una forma di resistenza

E’ bello incontrare parole che non solo dicono quello che anche noi sentiamo, ma che ampliano e approfondiscono i confini del nostro sentire. E’ quello che mi è successo leggendo la bellissima intervista a Francesco Marotta a cura di Evanghelìa Polìmou. Con gioia invito a leggerla gli amici e i lettori di questo blog.

1. Signor Marotta, Le do il benvenuto nel sito di “Poiein“. Che cosa è la poesia per Lei e quale ruolo gioca nella Sua vita?

Innanzitutto grazie per l’attenzione e l’invito, è veramente un onore e un piacere essere ospiti sulle pagine di “Poiein”.

La poesia, dunque. Essenzialmente essa è per me, alla luce di quanto sono venuto maturando nel corso degli anni, durante i quali ho sempre mantenuto in spazi contigui, fino a renderli quasi inseparabili, lo studio e la riflessione insieme alla pratica testuale, una tra le più alte forme espressive di resistenza, in primo luogo al potere, ai suoi emblemi, ai suoi simulacri, alle sue maschere e ai suoi rituali: insomma, opposizione a tutto ciò che da sempre nega l’umano in ogni sua manifestazione e diversità. Continua a leggere

La città del vento, di Ombretta Ciurnelli

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La città del vento di Ombretta Ciurnelli, Edizioni Cofine, Roma 2013, pagine 110, € 12.

recensione di Anna Elisa De Gregorio

Nella prima lirica dal titolo Puisïa, messa ad esergo, come ad anticipare contenuti e intenti del suo ultimo volume La Città del vento, Ombretta Ciurnelli ci racconta “una” città innominata, ce ne dà una visione di insieme (che si potrebbe adattare, forse, a varie nostre città). Continua a leggere

Giù le mani dalla Costituzione. Appello

 Da Micromega

E’ in atto una pericolosa manomissione della Costituzione: *Il disegno di legge costituzionale 813 prevede nuove modalità di modifica costituzionale, in deroga all’art.138 della Costituzione, imponendo i modi, le forme e i tempi del dibattito parlamentare e ponendo di fatto il parlamento sotto ricatto e la Costituzione sotto scacco. *All’art. 2 si parla di modifica della forma di Stato e di Governo: per affermare il mito del presidenzialismo e concentrare ulteriormente il potere, invece di diffonderlo. *Si affidano compiti non chiari a Commissioni/Comitati senza che la pubblica opinione venga messa in condizioni di conoscere e discutere le proposte. Si blandisce l’opinione pubblica con la proposta di una consultazione telematica: è un’altra forzatura! La Costituzione non si cambia con la logica del sondaggio di gradimento. *Ciò che emerge con chiarezza sono la fretta e l’improvvisazione, ma le modifiche costituzionali non possono essere piegate alle necessità politiche contingenti di uno spurio Governo di larghe intese *Non viene affrontato il tema cruciale di una nuova legge elettorale, l’unica riforma davvero urgente e necessaria, che sia rispettosa della dignità dei cittadini elettori, privati da troppi anni della possibilità di veder rappresentate le proprie posizioni e soprattutto di intervenire nella scelta dei propri rappresentanti. Chiediamo a tutte/i le/i parlamentari di opporsi pubblicamente a scelte che snaturano l’assetto previsto dalla nostra Carta sulla quale hanno giurato fedeltà, rigettando una legge grimaldello che fa saltare le garanzie e le regole che la Costituzione stessa ha eretto a sua difesa, e che finché sono in vigore vanno applicate. Continua a leggere

Rimedio

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da qui

E non ti sembra vero, palpitare
all’unisono col tempo, pensare
a quello che da allora
aveva aperto un varco all’ignoranza
del Tutto, mentre ora
si affaccia dal terrazzo il panorama
intero, l’emozione
dell’unico possibile rimedio,
con l’estasi del duplice tornare
e ritornare insieme:
passando, le parole si trasformano,
i muri si frantumano,
e il filo si sbroglia a poco a poco.
S’infiamma l’alternanza
del nero e del bianco, nella schiuma.

30. Un peccato così grave

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da qui

Sceso dal monte del tuo non-discorso sei circondato ancora dalle folle. Ecco che cosa è impossibile che manchi, che è vero prima che succeda, perché la gente accorre dove trova ciò di cui ha bisogno, e se ignorasse l’esistenza del Messia, lo troverebbe in un luogo, un evento, una persona, così come il lago di Genesaret riflette le nuvole e la costa, come un dio minore parla d’eternità anche se tace. Continua a leggere

Nel soffio della città (di Enrico De Lea)

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La città mi ha insegnato infinite paure /  una folla una strada mi han fatto tremare / un pensiero talvolta – spiato su un viso”.

Citare Pavese, come facevo un tempo,  credo fosse assolutamente improprio,  circa la mia esperienza della città, di una città in particolare. Eppure ci fu un tempo in cui credevo che quei versi rispecchiassero gli anni del mio arrivo.

L’avevo immaginata, dall’alto del Bastione del santo anacoreta (la piazza principale del paese dell’infanzia), come lo specchio luminoso dello Stretto, una Cariddi pacificata e quieta, illuminata da una vivacità gaudente e gentile. In effetti la città, la sua gente, tutto appariva confermare quella mia aspettativa;  eppure, i versi di Pavese imponevano un lato d’ombra alla luce in cui vivevamo,  o ne sorgevano irrimediabilmente; o, ancora, più verosimilmente, con quel “la città mi ha insegnato” ponevano al centro del mio sguardo la città e quanto essa avesse da dirmi. La città aveva tanto da dire a ciascuno di noi,  e la sua essenza vera era nel ciuscio che vi circolava, non in una comune brezza, ma in un continuo soffio, da organismo dotato di respiro vitale, dai due mari, dalle due terre, dalle colline e dalle erte, dai valloni e dai dirupi, dalle armacìe e dai sentieri, un soffio che la pervadeva tra le vie squadrate e larghe, figlie del lontano sisma, e che la  animava rinfrescando o sferzando i volti secondo la stagione.

L’avevo intravista, la città, superato il capo di Alì, Continua a leggere