La parola ai poeti. Deborah Mega
Ermes, io lungamente ti ho invocato.
In me è solitudine: tu aiutami,
despota, ché morte da sé non viene;
nulla m’allieta tanto che consoli.
Io voglio morire:
voglio vedere la riva d’Acheronte
fiorita di loto fresca di rugiada.
(Saffo, trad. di Salvatore Quasimodo)
Lessi questo frammento da adolescente, mi sembrò sublime e ne rimasi turbata. Lo trascrissi su un taccuino, lo memorizzai all’istante e nel corso degli anni mi è capitato spesso di ripeterlo a me stessa nei momenti di difficoltà e solitudine. Molto più tardi intrapresi gli studi umanistici, gli unici, oltre a quelli musicali, che avrei potuto perseguire con piacere e intima soddisfazione. Ricordo che fin da ragazza custodivo le antologie, i libri di letteratura e più tardi di critica, nel caso, un giorno, mi fossero tornati utili, se fossi riuscita a diventare un’insegnante. Ho raggiunto gli obiettivi che mi prefiggevo e devo dire che ancora oggi trasmettere ai miei ragazzi l’amore per la poesia e la letteratura ed educarli al bello, è qualcosa di gratificante e meraviglioso. Ogni giorno dunque sono a contatto con testi di grandi autori della letteratura italiana, esercito la memorizzazione e la declamazione di poesie sull’esempio di una zia paterna che conosce a memoria diversi canti della Divina Commedia, dell’Iliade e poesie di autori di tutti i tempi. Non ho avuto però la fortuna e il privilegio di imbattermi in docenti che amassero la poesia al punto da scriverne rispettando la metrica e trasmettendo tale passione a noi discenti. Molti anni dopo, l’incontro con i social mi ha dato modo di conoscere poeti veri, in carne e ossa, e ricordo che all’inizio, frequentare il mondo letterario, poter commentare e recensire testi altrui mi è sembrata un’opportunità straordinaria. Il poeta non era più lo studioso irraggiungibile che viveva nella sua torre d’avorio, la poesia non era più soltanto aulico appannaggio di pochi eletti. Continua a leggere