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da qui
Se la bellezza, forse, non ti è bastata per salvarti, la scrittura ti ha permesso di trovare una valvola di sfogo. Scrivevi dappertutto: su fogli volanti, nelle pagine ingiallite delle agende, in quaderni gualciti, perfino sul retro delle copertine di libri ormai inservibili. La tua stanza era un deposito di versi, racconti, inizi di romanzi, che ogni tanto riprendevi per poi abbandonarli nuovamente. Vista da qui, la tua vita è una fila ininterrotta di parole che ti lasciavano sempre insoddisfatto e, quanto meno ti ci ritrovavi, tanto più finivi col moltiplicarle, come se il punto fosse rintracciare un giro giusto di frase, il cortocircuito folgorante in grado di placare la ricerca a volte ansiosa, a volte disperata di un senso, di uno stile. Ogni tanto frugavi nei cassetti e negli scatoloni, ne estraevi un testo, sprofondavi nell’attimo fuggente di un ricordo, convinto di aver intercettato l’intuizione decisiva, fermato il tempo nell’istante in cui il tuo io fosse capace di staccarsi dalle sue paure e immergersi nella contemplazione di un oggetto, un tronco di tiglio, per esempio, con la corteccia dai pezzi sovrapposti, frammenti lacerati da piaghe dolorose, come quelle che avvertivi dentro te: immaginavi la scorza separata dal fusto della pianta, la patina, consunta dagli agenti atmosferici, strappata via con un gesto della mano; e allora, perché non pensare che lo stesso sarebbe accaduto alla tua vita, che la forma esterna, consumata dagli sguardi, la continua tentazione di ridurre l’esistenza alla corteccia, non potessero troncarsi con un colpo secco, un taglio perentorio, un odio, insomma, che scalfisse il desiderio di godere e possedere che t’aveva risucchiato fino a ora e da cui disperavi di sganciarti? Come un albero, sentivi affondare nella pelle di ragazzo, e poi di uomo, la lama acuminata dell’egoismo più meschino travestito da amore. Una foglia di tiglio: questo avresti voluto divenire; permettere ai grappoli di frutti di volare; solo allora ti saresti ricordato che tiglio vuole dire ala. Adesso era più chiaro: se fossi riuscito a strappare la corteccia, a ritrovarti al di là della maschera frivola del rubacuori, avresti indovinato la parola che cercavi, una delle tante che vagavano imperterrite nella stanza straripante di carte e si fermavano ogni tanto ora su un prato, ora su una nuvola; una parola leggera e impercettibile, al punto da fluttuare senza vento, tanto profonda da abitare al centro del tuo cuore, dove l’unico capace di conoscerti sarebbe finalmente sceso, convincendoti a riempire sacchi e sacchi di fogli, quaderni, copertine, affrancandoti dal peso insostenibile della fila infinita di parole, troppo pesanti per competere, da sole, con la forza di gravità del tuo dolore.