Il cannocchiale del tenente Dumont

Il cannocchiale del tenente Dumont, di Marino Magliani, L’orma Editore.

di Riccardo Ferrazzi

 

Nella massa dei gialli e dei noir che ingombrano i banchi delle librerie i romanzi di Marino Magliani hanno sempre spiccato per un particolare tono introspettivo (Quattro giorni per non morire, Quella notte a Dolcedo e Prima che te lo dicano altri, solo per citarne alcuni). Oggi Magliani abbandona le storie di genere e ci mette di fronte a una vera opera d’arte, la più impegnativa che sinora abbia affrontato.

Innanzitutto per la tematica. La diserzione, o il rifiuto dell’acquiescenza, era già presente più o meno sottotraccia nelle opere che ho già citato, ma qui, nel Cannocchiale del tenente Dumont, diventa il centro di ogni discorso. 

La diserzione comincia con l’uso dell’hascisc, scoperto dai soldati francesi durante la napoleonica campagna in Egitto, per evadere da una realtà insostenibile, fatta di calore massacrante, di orrori come lo sterminio a sangue freddo dei prigionieri, o di epidemie di peste e assedi senza fine, e da evanescenti prospettive di rientro in patria. Ma anche quando in patria si ritorna davvero, la pace continua a essere un miraggio: dopo ospedali e sanatori si viene richiamati alle armi, c’è il Gran San Bernardo da passare in mezzo alla neve, la marcia giù verso Alessandria, e su tutto questo c’è l’opprimente necessità di aggrapparsi alla droga per sopportare una realtà sempre più odiosa. 

E poi c’è la battaglia, fulminea, devastante. Marengo, come un fulmine a ciel sereno, è un disastro apparentemente definitivo. I tre protagonisti della vicenda si ritrovano separati dal resto dell’armata e pensano soltanto a mettersi in salvo. Quasi inconsciamente, da sbandati diventano disertori. Giorno per giorno, nella loro nuova condizione scoprono che la libertà è qualcosa di dannatamente precario, una guerra continua, fatta di paura, fuga, fame, sacrificio; una realtà contratta nel presente, che non ammette prospettive concrete ma soltanto sogni, speranze di un fantomatico imbarco verso una terra dove affondare per sempre nell’abisso della droga.

Affrontare la tematica della diserzione e portarla alle estreme conseguenze significa conferirle una dimensione quasi filosofica. Per un impegno di questo calibro è necessaria una scrittura all’altezza. 

Lo stile di Magliani, che ha sempre avuto nella descrizione uno dei suoi aspetti più affascinanti, trova qui una nuova espressività, al punto far sì che la descrizione diventi azione. La fuga dei disertori su e giù per le valli del Ponente ligure è narrata attraverso il variare del paesaggio, delle coltivazioni, delle periodiche operazioni rurali (le Opere e i Giorni della faticosa agricoltura nell’entroterra). E la lingua diventa poetica, si arricchisce di metafore e associazioni mentali al limite del fantastico, inseguendo i diversi stati della coscienza allucinata dei fuggiaschi.         

Magliani riesce in un’impresa che da troppo tempo era quasi scomparsa nella letteratura italiana: tenerci legati alla pagina unicamente in virtù di una scrittura forte e versatile. Questo romanzo non ha bisogno di misteri da risolvere, di assassini da assicurare alla giustizia: il centro del nostro interesse è la fuga dalla realtà, il sogno che tutti abbiamo dentro in maggiore o minor misura e che una scrittura perfetta come una grande sinfonia risveglia nell’intimo della nostra sensibilità.  

 

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