Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sul libro “Critica della ragione sufficiente”

Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sul libro “Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica)” (2018)

1) È scomparsa la critica militante?
2)È ancora valida la linea dicotomica tracciata da Gianfranco Contini: la «Linea innica» e la «Linea elegiaca» del Novecento?
3) La Nuova Ontologia Estetica?
4) Il Grande Progetto

Domanda: Ho letto il tuo libro, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21), un lavoro monumentale di indagine ermeneutica sulla poesia italiana e sui nuovi orientamenti della «nuova ontologia estetica». Perché quel titolo?

 Risposta: Ho scritto nel retro di copertina del libro:

 

«Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: verso una nuova ontologia estetica. Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una ragione sufficiente. Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una nuova ontologia estetica della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.»

 

Domanda: Subito un grande problema: ha cessato di esistere la critica militante della poesia?

 

Risposta: Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai cinquanta anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.

È per questo che io ho dovuto forgiarmi, quasi da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio personale linguaggio critico che qualcuno ha definito «inventato»; e in effetti lo è, perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altri prodotti, non lo si trova già bell’è fatto.

Un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi cinquanta anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico. Si perde la memoria storica del linguaggio critico, e quel linguaggio, cessa semplicemente di esistere.

 

 

DomandaRiprendo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre 2019 sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”. Ripartiamo da Gianfranco Contini, perché a mio avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni: linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri, ad esempio nella indicazione della «linea elegiaca dominante» nella poesia italiana e la canonizzazione di Montale quale poeta strategico del novecento. Tu di recente hai proposto la linea del «discorso poetico» che permetterebbe di considerare il ruolo positivo svolto da poeti come Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), Angelo Maria Ripelllino, Edoardo Sanguineti, Alfredo de Palchi, Helle Busacca, fino a Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, il che consentirebbe una rivalutazione di una linea non elegiaca che avrebbe a capostipite  un poeta come Aldo Palazzeschi (I cavalli bianchi è del 1905) che è stato rimosso stretto nelle maglie della «linea elegiaca» (Montale) e della «linea innica» (Campana). In quest’ottica la proposizione di una nuova ontologia estetica verrebbe ad occupare una posizione di ripresa della linea in fuori gioco che fa capo a Palazzeschi.

 

Risposta: Scrivevo il 21 dicembre 2015 alle 11:42 su questa rivista: «Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

 

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

(immagine di Mario Lunetta 1934-2017)

 

Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco.

Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento”, perché è importante scalzare la visione dicotomica del Contini. Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Palazzeschi, Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che percorrono un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè né con la linea innica né con la linea elegiaca. È importantissimo tenere questo distinguo. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del Discorso Poetico di stampo modernistico. Ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare la «Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione oltre ad altri poeti e che vede impegnati in questa ricerca i migliori poeti contemporanei.

Domanda: Quindi la questione della «forbice» tra «poesia innica» e «poesia elegiaca» è un falso problema?

 

Risposta: La questione della «forbice» tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, rientra in una una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi «politici» a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là; ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema delle conflittualità delle  linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà  novità e approfondimenti. A mio parere, la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

 

DomandaApplicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

 

Risposta: L’indicazione della Linea dominante dell’elegia post-montaliana di Contini è un atto critico che, come tale si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra «Linea» da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, i valori assodati da Contini saltano in aria, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il «più grande poeta dopo Montale». Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è stato il più abile rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento che trova il suo apice ne La Beltà del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile, le «isoglosse» e le isoipse di continiana memoria vanno a farsi benedire. Oggi è chiaro che non c’è più una Linea dominante, oggi si assiste alla polverizzazione dei «modelli», alla disseminazione dei «canoni». Fenomeno squisitamente post-modernistico.

Al momento, siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dalla moltiplicazione delle emittenti linguistiche e segniche del villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo.

Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico. [vedi anche]

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18852

 

 

Domanda: Cito dal libro di Alfonso Berardinelli Casi critici. Dal postmoderno
alla mutazione (Quodlibet, 2007); a pag 37, c’è scritto:

 

«… la nostra poesia (con Montale, Luzi, Bertolucci, Caproni, Sereni, Penna, Zanzotto, Giudici, Amelia Rosselli) è stata fra le migliori in Europa; ma poi (salvo eccezioni) ha perso libertà e pubblico. – E commenta – un’arte senza lettori deperisce o si trasforma in una specie di pratica ascetica, con tutto il suo seguito di comiche devozioni e perversioni».

Berardinelli accenna al vero problema, si chiede il critico romano: «Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito? – C’è qualcosa che non va in questo ragionamento».

Domanda: Qual è la tua opinione: è stata veramente «tra le migliori d’Europa?», o si tratta di un luogo comune ripetuto per mera vanagloria?

 

Risposta: Berardinelli ha perfettamente ragione a riproporre la vera questione della minoritarietà in ambito europeo della poesia italiana del tardo Novecento e dei giorni nostri.

Il problema c’è, è vistoso, ma bisogna andare alla radice delle questioni, non far finta di non vederli, mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. Noi non siamo struzzi. Il vero impellente problema è la ricostruzione del linguaggio poetico italiano secondo un Grande Progetto o, se vuoi, una «nuova piattaforma concettuale», quella che noi abbiamo chiamato la nuova ontologia estetica. Chi vuole informarsi in proposito non ha che da cliccare su lombradelleparole.wordpress.com gli articoli che abbiamo postato. Qui posso dire soltanto che  nella «Nuova poesia», non c’è una direzione stabilita a priori, compiuta, totale e totalizzante, non c’è una direzione unidirezionale. La direzione la si costruisce nel mentre si decostruisce la poesia italiana del secondo e tardo novecento. Oggi non si dà una via unica, la poesia non è una scuola con apprendisti stregoni e allievi, non c’è un sentiero prestabilito, non è di un nuovo «canone» che noi vogliamo parlare, quelle sono parole d’ordine vecchia maniera, qui si tratta di un nuovo modo di concepire la scrittura poetica: una molteplicità di compossibilità, non si dà nessuna gerarchia tra i singoli indirizzi. Scopo della nuova ontologia estetica è quello di mettere in evidenza nel linguaggio poetico che l’esistenza vive di scarti, di vuoti, di fratture, di discontinuità, che le aporie sono di casa, e anche le contraddizioni, che le contraddizioni stilistiche, anche all’interno di un componimento, sono una ricchezza non un difetto, che bisogna respingere le strutture ideologiche che perorano un canone, qualsiasi canone, piuttosto occorre essere consapevoli che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto «totalitario» di poesia conduce ad un concetto di poesia minoritario, acritico.

La nuova poesia e il nuovo romanzo si trovano in una situazione di disseminazione stilistica. La decostruzione è una conseguenza del pensiero filosofico di Martin Heidegger. Infatti, il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit (1927) – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – suonava come una «distruzione della storia dell’ontologia» in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.

 

DomandaSecondo te, quando ha avuto inizio questo «blocco» che ha colpito la poesia italiana del secondo Novecento?

 

Risposta: Rispondo con la citazione di un brano del mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)” EdiLet, Roma, 2011 pp. 380 € 16:

 

«La rivoluzione linguistica (e «simbolica») delle masse è un portato della diffusione di massa della televisione. La rivoluzione linguistica (e simbolica) è, di fatto, una controrivoluzione capitanata dalla televisione. E con la televisione, ecco l’invasione delle lavatrici e delle automobili. Ecco l’invasione delle merci di massa. È una grande «rivoluzione» dei costumi e del simbolico quella che il Moderno annuncia. E con essa arriva l’omologazione e la ribellione delle masse giovanili del ’68. E la poesia come reagisce a questi avvenimenti eccezionali? Nei suoi esponenti più intelligenti e sensibili la poesia italiana accusa il colpo: con il crollo del post-ermetismo si dissolve una intera infrastruttura della figuralità che corrispondeva ad uno stadio pre-industriale dello sviluppo economico; crolla l’idea che la poesia possa soggiornare e sopravvivere in una zona eburnea, di separatezza dal mondo, al riparo da quegli avvenimenti che stanno cambiando il corso della storia.

Con il ’68 anche la poesia viene fatta bersaglio della contestazione giovanile, anch’essa viene vista come una «sovrastruttura» organicamente connessa con il sistema di potere della «borghesia». Ma in Italia accade un fatto bizzarro: la contestazione giovanile viene a confondersi e a sovrapporsi allo sperimentalismo linguistico; di più, alla fine degli anni Sessanta lo sperimentalismo assorbirà e surrogherà le spinte centrifughe della contestazione giovanile diventandone il dubbio rappresentante sulla scena politico-letteraria. L’ingresso massiccio e disordinato della prosa entro le asfittiche strutture difensive della poesia è l’effetto più immediato e vistoso di questa contestazione della forma-poesia. Il fenomeno, simile all’effetto di un fiume che rompa gli argini e dilaghi nella città, diventerà nel corso dei decenni successivi una costante tipicamente italiana, raccoglierà nel proprio alveo tutti i ribellismi linguistici che si originano dal ’68. Si verificherà una «stabilizzazione» del ribellismo linguistico.

Improvvisamente, un’intera generazione di poeti come Bigongiari, Carlo Betocchi, Luigi Fallacara, Girolamo Comi, Alfonso Gatto, Arturo Onofri, Sergio Solmi, Giorgio Vigolo, Vittorio Bodini, Sinisgalli diventano anacronistici; appaiono, agli occhi della nuova generazione, invecchiati, ancora attestati a moduli stilistici antiquati, con elementi di rigidità stilistica e lessicale dinanzi ad un mondo che nel frattempo si è rapidamente trasformato; esponenti di una poesia avvertita evasiva, generica e genericizzante, criticamente agnostica e virtuosa, stilisticamente «sublime» e «stupenda». Sarà un poeta della generazione degli anni Dieci, Giorgio Caproni a fare i conti con il Moderno con Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e con Il Conte di Kevenhüller (1986), ad aprire la via ad una poesia post-moderna che ha fatto i conti con la poesia simbolistica e che prende le distanze dalle coeve teorizzazioni della parola-segno. Un discorso poetico, quello di Caproni, che si interroga sulle ragioni della propria sopravvivenza, fitto di interrogazioni sul principiale: può la parola poetica sopravvivere? È la prima apparizione nella poesia italiana di una tematica nichilistica: il tema del Doppio, dell’Estraneo.»1]

 

1] Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

Domanda: Caproni è un poeta in bilico tra il vecchio e il nuovo?

 

Di fatto, la strada aperta da Caproni rimarrà impraticata, la direzione di ricerca aperta dal poeta toscano resterà un sentiero interrotto, almeno fino alla fine degli anni Novanta quando la tematica del nichilismo e dell’esistenzialismo verrà proseguita da poeti come  Roberto Bertoldo, Anna Ventura, Mario Gabriele con la teorizzazione e la pratica di una poesia «nullista», consapevole di trovarci nel «post-contemporaneo», per usare le parole di Bertoldo; si fa viva la percezione di una poesia che accetta la scommessa dell’eredità del novecento. In tal senso, sono emblematici i nomi di Anna Ventura e di Gabriele, poeti che hanno accettato di portare sulle spalle il peso del novecento per riconvertirlo in una forma-poesia adatta ai tempi nuovi.

 

Domanda: Con Caproni e Bertolucci la poesia del novecento si esaurisce?

 

Contrariamente alla opinione di Paolo Lagazzi il quale ritiene Attilio Bertolucci il più grande poeta del Novecento italiano, io penso che la poesia di Bertolucci sia di secondaria importanza perché è rimasta estranea alla cultura del modernismo europeo (in pratica la lezione di Eliot e Mandel’stam). Caproni, invece, è stato tra i pochissimi tentare una poesia di tipo nuovo ma non ha trovato una soluzione stilistica, una nuova forma-poesia e il suo tentativo è rimasto a mezzo del guado: non una poesia ancorata alla «linea elegiaca» e non ancora una poesia del «discorso poetico». Caproni aveva intravisto la nuova tematica ma non possedeva ancora il nuovo metro, continuava ad utilizzare il metro chiuso, il settenario e il novenario quando invece avrebbe dovuto infrangere quel metro che sapeva di ritornello ed adottare il verso libero, il metro a-metrico. Penso che il novecento poetico si chiuda con Composita solvantur  di Franco Fortini del 1995, dopo di allora la poesia italiana assumerà la forma e la sostanza di una «manifattura privata», subentrerà un gergo privatistico con l’io in auto evidenza, una poesia privatistica, e si perderà presso le nuove generazioni finanche la cognizione del carattere pubblicistico della poesia della tradizione. Semplicemente, si farà poesia per un bisogno di espressione privatistico. Il novecento si chiude con l’avvento di un gergo poetico privatistico che giunge fino ai giorni nostri, e che probabilmente si prolungherà anche negli anni futuri.

 

Domanda: Se dovessi spiegare ai lettori la «nuova ontologia estetica», cosa diresti?

 

Risposta: La domanda fondamentale che un poeta si deve porre è: Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio? E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio. Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo metterle da parte.

 

Domanda: Perché la «nuova ontologia estetica»?

 

Risposta: Perché ogni nuova poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse nel quadro di una nuova visione della forma-poesia.

Parlare di «ontologia estetica» è parlare delle parole e del metro; nel linguaggio poetico la prima non si dà senza la seconda, ma è anche vero che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola» all’interno del «metro».

Il «metro» secondo la nostra idea è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ma entrare in sintonia con un pensiero che pensa  il «metro» come una entità variabile, dinamica che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».

La «parola» quindi è una entità per sua essenza variabile (può essere rappresentata come una entità corpuscolare e come entità di frequenza sonora). Dirò, per semplificare, che non v’è un peso specifico costante di una «parola» ma vi sono tanti pesi della «parola» quanti sono i modi del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle che vagano nell’universo.

 

Domanda: Mi puoi fare degli esempi?

 

Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta la poesia «materialistica» di Mario Lunetta, una poesia intersemica e i opposizione alla linea elegiaca, la poesia pop di Gino Rago con Storie di una pallottola e della gallina Nanin (2022); ci può stare il discorso poetico citazionista e peristaltico di un Francesco Paolo Intini con Faust chiama Mefistofele per una metastasi (2020), e i «compostaggi» di Mauro Pierno, il discorso poetico «caleidoscopico» di Paolo Valesio, ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone in Viola Norimberga (2018) e Giuseppe Talia con La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2018). Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola moneta verso la consapevolezza di un modo diverso di fare poesia, un modo inaugurato da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio, 17 poesie.

 

Domanda: Questo nuovo concetto del «metro» elastico cambia anche il concetto che abbiamo della sintassi?

 

Risposta: Questo nuovo concetto cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una accanto all’altra le «parole», le quali obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è  più un metronomo perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.), che influiscono in maniera determinante a modellizzare il discorso poetico» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta, del frammento, del polittico; ed ecco spiegato il valore preponderante che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno dei polinomi frastici si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione simbolica del linguaggio poetico.

Ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria. Il discorso poetico del modernismo abita la Memoria, poetesse come Giorgia Stecher (1934-1996) e Maria Rosaria Madonna (1942-2002) adottano un discorso poetico fondato sulla memoria, considerano ancora le parole entità temporali, ma con l’ingresso del Dopo il Moderno la sensibilità verso le parole e la natura del discorso poetico è cambiata, la memoria non ha più alcuna centralità nella poesia ultima.

 

Domanda: Vuoi portare un esempio della «nuova poesia» della Memoria?

 

Risposta: Leggo una poesia dal libro di Maria Rosaria Madonna (1942-2002), Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura 2018 pp. 150 € 12

 

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.


Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.

 

«È un nuovo inizio». Così inizia la poesia. Ma che significa? Inizio di che cosa? Di che cosa si parla? – Il secondo emistichio complica la questione perché non risponde al primo emistichio ma si limita a prolungarne l’eco di dubbio travestito in una forma assertiva: «Freddo feldspato di silenzio». Il tono assertivo contrasta singolarmente con il dubbio e l’ambiguità che promana da quelle due prime proposizioni assertorie.

Il secondo verso aggiunge ambiguità e dubbio. Il terzo e il quarto verso sciolgono ogni dubbio, qui siamo nel mondo onirico-surreale, illogico e irrazionale perché si dice che il «mare è un aquilone che un bambino tiene per una cordicella». Un non-sense.

Il quinto verso cambia spartito, c’è un «vento» (che è detto «antico») che «solfeggia» «per il bosco». Stiamo attenti alla dizione «solfeggia», una scelta verbale che serve ad introdurre un mondo di suoni determinato dal vento che attraversa il «bosco». Si parla forse qui del bosco inteso come mero paesaggio? O si tratta di un «altro» bosco? Io ritengo che qui si tratti di un «altro» bosco, e precisamente il «bosco» quale metafora e simbolo dell’Essere. È dell’Essere che qui si parla, non certo del bosco come paesaggio.

Il sesto verso. Qui il poeta si rivolge direttamente al lettore e gli dice: «lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma». Anche qui la scelta della immagine corriva induce il lettore in imbarazzo. dice il poeta: «lo puoi afferrare». Che cosa il lettore può «afferrare»? Il bosco del paesaggio? No di certo, qui ad essere in questione è l’Essere.  Allora, l’Essere è come una «palla di gomma che rimbalza contro il muro»? «e torna indietro»?

Che cos’è che «torna indietro»? – Ma è chiaro: è l’«essere» che qui «torna indietro», scrive con un raffinatissimo tocco meta ironico il poeta. È l’essere che «torna indietro». Enunciato ambiguo e sibillino, travestito sub specie di frasario assertorio.

 

 

note biobibliografiche

 

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

 

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e del volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

18 pensieri su “Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sul libro “Critica della ragione sufficiente”

  1. fabrizio centofanti Autore articolo

    Mi sembra importante mettere in discussione una parola critica univoca e totalitaria, forse più che per l’intenzione della fonte, per la sottomissione dei destinatari. Muovere le acque è già una soluzione, apre scenari inediti, possibilità impensate.

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  2. Giorgio Linguaglossa

    Il problema che si è trovato davanti la poesia del novecento è quello di una forma-poesia «riconoscibile» con un linguaggio sempre più «riconoscibile». Il problema di una forma-poesia riconoscibile si è posto alla poesia occidentale nel corso dell’ultimo secolo: con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare.

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  3. Giorgio Linguaglossa

    La poesia kitchen di Francesco Intini, di Gino Rago, di Raffaele Ciccarone etcetera mette la centrifuga nel lessico per frullare il linguaggio e infilarlo nel termovalorizzatore del linguaggio poetico che devalorizza tutto ciò che vi viene fagocitato. Una ILVA di parole ibernate, un gigantesco emporio del nulla che opera come un frullatore che frulla e frolla i frutti di bosco con pasticci privi di glutine, bombe sporche, caramelle Ferrero, un universo di parole radi e getta, prive di aminoacidi, aproteiche e ipocaloriche, a prova di gomma e di bomba. E chi vuol essere lieto, lo sia.
    Davvero, penso che la dizione “Poesia nell’età della Catastrofe permanente”, sia un ottimo titolo per la nostra prossima Antologia della poetry kitchen del 2023.

    Poesia kitchen di Francesco Paolo Intini
    La parte di Lucrezio e quella di Touring

    La parte sporca tocca ai neuroni
    che hanno visto il Muro e ci stavano bene dietro.

    Quando li svuotarono di significato
    [appesero le divise in armadietti

    E si misero a correre in quadri blu di Picasso].

    Ci doveva essere un inizio se ripeteva le sinapsi
    Un altro Terzo Reich si replicava a dismisura.

    Le gambe al mento, gli occhi luna.

    Non c’era tempo per la chimica.
    Il verso generava spettri di risonanza magnetica.

    Cresceva il malcontento. Un tunnel attraversava le fogne
    per sbucare nel lavandino di Scrooge Mc Duck.

    All’autogrill una delle Fontane tornò al suo posto
    Non più! Non più, come un corvo senza firma sul culo.

    Bosch cambiò un quadro di Vermeer
    in un ostrica al ragù.

    Tutto si poteva immaginare tranne che trovare Cecilia
    In una stazione dell’ Appennino campano.

    Ebbero una sincope anche i gratta e vinci.
    Voglia di difendersi dalle maniglie.

    Alcune autobotti riempirono tazzine di caffè.
    Senza zucchero, né aspartame, nafta dalle narici.

    Lucrezio declamò l’ultimo libro dalla finestra di un XX piano
    A Bari non sapevano come difendersi dagli ologrammi.

    Si lasciò cadere la circostanza di un water in eruzione.
    Nel frattempo alcune blatte si erano impadronite del circo massimo.

    Viaggiarono senza fermarsi, travestiti da souvenir nei freni,
    tra le scintille delle rotaie con la fragilità delle ampolle di neve.

    Non più gladiatori e nemmeno Piazza Fontana.
    Tutti cancellati i voli verso gli anni sessanta-settanta-ottanta.

    La fuga è prevista nel tunnel di mezzanotte.
    Niente panico. Invertire le lancette dopo il fischio d’inizio.

    Le poche gazze si ammucchiavano coperte di escrementi.
    Ossa di contadini e pastori nel raccolto di giugno.

    Il mondo che ci lasciammo non ammetteva blitz, né storia
    Soltanto Jet di microplastica in lotta con l’ anidride carbonica.

    Ora i proletari erano tutti agenti di commercio
    Odorava di miele la catena di montaggio.

    Salutare anche l’alito dei fucili alle porte di Milano.
    Manager dell’uranio povero lottavano con bancari.

    Polvere pirica si annunciava nel respiro delle viole.
    Nessuna Chernobyl fu chiusa per l’occasione.

    Alcuni roghi restituirono i libri di Marx-Engels
    altri la mordacchia di Giordano Bruno.

    Per calmare la sete si mescolavano iceberg a titoli dei TG.
    Nel pelo di un ratto l’Eugualemmecidue di Einstein.

    Il mazzo veniva mescolato da tre secoli
    Nessuna delle dita trovò il coraggio di distribuire le carte.

    Enigma resisteva alle metafore.
    Una mela amara la soluzione.

    Si partì da omega, barra diritta verso Venere
    Stella alfa nel berretto del tramonto.

    Il mignolo di Warhol ripulì l’ orecchio sinistro.

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  4. Giorgio Linguaglossa

    Se osserviamo un’opera d’arte moderna, però, ci chiediamo: Dov’è la bellezza in una tela di Picasso? Nell’arte moderna, quella dopo Picasso la riflessione fa parte della forma, è chiamata subito in causa, è una componente di essa. L’opera è costruita intorno alla riflessione, non esiste indipendentemente da essa. Lo spettatore è subito coinvolto nel proseguire la riflessione, è chiamato in causa per dare un senso a quella forma aperta, incompiuta. L’opera non puòsussistere senza l’attività riflessiva di chi la guarda, cosa che invece, dall’altezza può fare una tela del Tiziano. L’opera moderna ha coscienza del suo stato di impotenza dinanzi al mondo. Dopo Warhol la poiesis prende se stessa come unità di riferimento e di misura, il mondo scompare e l’arte cessa di essere mimetica. La mimesis è un movimento rappresentazionale dell’esterno, di ciò che c’è lì fuori, ma qui interviene la fisica quantistica che ha scombussolato i parametri di riferimento della rappresentazione classica, l’ha resa obsoleta… Oggi la poiesis si dà soltanto in quanto irriconoscibile e intrattabile. Se è riconoscibile non è poiesis ma praxis.

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  5. Giorgio Linguaglossa

    Una domanda: nella poesia di Maria Rosaria Madonna sopra postata, c’è esterno? o c’è dell’Interno? – La domanda a mio avviso così posta è sciocca, in quella poesia non c’è né interno né esterno…

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  6. gino rago

    Anche nel corso di questa importante intervista, di domande intelligenti, da parte della intervistatrice, Marie Laure Colasson, e di risposte intelligentemente articolate, e fondate su una viva cultura poetica da parte dell’intervistato, Giorgio Linguaglossa, alla fine dei giochi possiamo dire che Il filosofo, il critico e anche l’artista-poeta, devono puntare lo sguardo su oggetti apparentemente non degni di attenzione, devono farsi «pescatori di perle» per concentrarsi però sugli «stracci», ossia sugli elementi trascurati dagli accademismi ufficiali, sui frammenti dispersi e abbandonati ai margini delle strade e scacciati dalle teorie rigorose (Bemjamin).
    Fabrizio Centofanti nel suo commento che condivido in toto scrive: «Mi sembra importante mettere in discussione una parola critica univoca e totalitaria, forse più che per l’intenzione della fonte, per la sottomissione dei destinatari. Muovere le acque è già una soluzione, apre scenari inediti, possibilità impensate»» significa che anche la Chiesa di Papa Francesco si è messa in moto e non è un caso che lo stesso Francesco abbia di recente parlato di «pescatori di perle», pensando agli stracci, agli scarti lasciati ai bordi del nostro tempo proprio come le nostre “perle” da pescare quotidianamente…

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  7. Giorgio Linguaglossa

    Dal Rinascimento fino ad oggi la «riflessione», cioè il processo della coscienza critica e dell’autocoscienza, si infiltra sempre più in profondità nella forma della poiesis fino a scardinare dall’interno la forma artistica, basti pensare al flusso di coscienza dell’Ulysses di Joyce. Che cos’è il flusso di coscienza se non l’ingresso massiccio della riflessione nella struttura dell’opera? Che cos’è la rammemorazione nell’opera di Proust se non l’ingresso massiccio del «ricordo inconsapevole» nella struttura della forma artistica? Ebbene, possiamo affermare che questo fenomeno secolare che nel novecento prende il nome di «modernismo» che ha al suo centro la «memoria», si è definitivamente esaurito, la «memoria» si è disintegrata e con essa disintegrazione anche la forma artistica è stata attinta dalla disgregazione. La NOe, la nuova fenomenologia del poetico e la poetry kitchen, ne prendono semplicemente atto.

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  8. fabrizio centofanti Autore articolo

    A meno che la memoria non trapassi da realtà psichica a realtà spirituale, che travalica il tempo. Qui entrano in gioco visioni della vita diverse. Non è detto che manchino punti d’incontro, anzi, questa è la speranza irrinunciabile.

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  9. Giorgio Linguaglossa

    Marie Laure Colasson mi ha chiesto di precisare il senso della dizione «Catastrofe permanente».

    cito la Treccani:

    «catàstrofe s. f. [dal lat. tardo catastr?pha, catastr?phe, gr. ??????????, propr. «rivolgimento, rovesciamento», der. di ?????????? «capovolgere»]. – 1. Nome dato da alcuni scrittori antichi (e impropriamente attribuito ad Aristotele) alla soluzione, di solito luttuosa, del dramma. 2. estens. Esito imprevisto e doloroso o luttuoso di un’impresa, di una serie di fatti; grave sciagura; improvviso disastro che colpisce una nazione, una città, una famiglia, un complesso industriale o commerciale, ecc.: la spedizione si risolse in una vera c.; è successa una c.; causare, provocare una c.; grave c. per il deragliamento di un treno. In usi iperbolici e scherz.: ogni tentativo di parlarle è fallito: è stata una vera c.; anche di persona che provoca danni: rompe tutto quel che tocca, questo ragazzo: è una vera c.! (cfr. l’uso analogo e più com. di disastro). 3. In matematica, il termine si riferisce soprattutto allo studio della morfogenesi biologica, col sign. di interruzione del continuo, rottura di un equilibrio morfologico e strutturale, e poi generalizzato in quello di processo di morfogenesi (creazione e distruzione di assetti morfologici di qualsiasi tipo), rappresentabile matematicamente su uno spazio topologico. In partic., teoria delle c., complessa teoria formulata dal matematico fr. René Thom (1923-2002), applicabile allo studio di tutti quei sistemi il cui comportamento muta in modo discontinuo al variare in modo continuo di un certo insieme di parametri, mentre non subisce alterazioni qualitative per piccole variazioni di tali parametri (ipotesi di stabilità strutturale); punti di c. (o insieme di c.), insieme di punti (costituenti superfici regolari) che separano le diverse forme di un sistema e il cui attraversamento corrisponde alla morfogenesi, cioè al cambiamento discontinuo del comportamento del sistema e quindi della forma preesistente (c. elementare).»

    Con la locuzione «Catastrofe permanente» si intende quando un sistema complesso giunge ad un punto di rottura dell’equilibrio di forze strutturalmente divergenti e contraddittorie, un punto in cui tutti i parametri di riferimento vengono, per così dire, capovolti, cioè non corrispondono più ai precedenti (alla catastrofe) parametri di riferimento. Quando tante piccole variazioni si verificano entro un sistema di riferimento, esse provocano la distruzione di quel sistema, una vera e propria morfogenesi che partorisce un mondo capovolto, dal quale si può guardare al vecchio mondo come un mondo catastrofizzato in quanto, appunto, capovolto. E questa è l’epoca odierna della guerra in Ucraina.
    È ovvio che in questo rivolgimento del mondo capovolto venga a capovolgersi anche la poiesis.

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  10. fabrizio centofanti Autore articolo

    Grazie, caro Giorgio.
    Nel “Castello dei destini incrociati”, di Italo Calvino, c’è un racconto, intitolato “L’Orlando pazzo per amore”, che si conclude così: “Ho fatto tutto il giro e ho capito: il mondo si legge all’incontrario”. Credo sia un’intuizione profetica: orienta lo sguardo ai cambiamenti epocali che abbiamo sotto gli occhi. Tutto concorre a una verifica seria del proprio posto nel mondo, del posto della cultura, della politica, della poesia. Oggi è necessario essere creativi per comprendere quanto sta accadendo.

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  11. Giorgio Linguaglossa

    L’Elefante ha generato un gran numero di corvi

    L’Elefante è soddisfatto. Ha fracassato le suppellettili, i ninnoli di dubbio gusto, i piatti di porcellana, i bicchieri di cristallo e i lampadari di Murano. Si è accomodato in poltrona. Adesso si gode un Campari con le noccioline e le patatine usufritte; ma tant’è, noi facciamo finta di non vederlo.
    Il corvo ha iniziato a parlare ma parla con il linguaggio delle fake news, delle ipo-verità, delle iper-verità, delle post-verità, con i linguaggi serendipici e post-edipici, cioè con i linguaggi del Labirinto e del Minotauro, che poi Teseo ebbe buon gioco a dismetterli e ricacciarli nell’inconscio. I corvi dunque hanno iniziato a parlare: amano la parallasse, l’ekfrasis, la perifrasi, la peritropè, il salto, la metonimia, l’ultroneo.

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  12. Giorgio Linguaglossa

    caro Fabrizio,

    una volta (trenta anni fa) anch’io pensavo la distinzione tra le parole “vere” e quelle “non vere”, adesso penso semplicemente che non esistano parole “vere” e quelle “false” e che andarle a cercare sia tempo perso…

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