Lucerne nella luce, di Lucio Brandodoro


Giovedì Santo 2024

Facile abbandonarsi alla nostalgia, al dolore di un ritorno impossibile, verso patrie esistenti solo nel ricordo mistificatore. Troppo facile. E altrettanto inutile e alienante.
Altra cosa è la memoria.
Non rinnega il passato, la memoria, ma lo interroga e lo abita rendendolo abitabile anche da un presente che pretende il protagonismo, ma che si sa inabile, da solo, a dire parole che siano significative.
Stasera è il tempo della memoria.
« Questo giorno sarà per voi un memoriale» [Es. 12,14] « Come ho fatto io, fate anche voi» [Gv 13,1-15] e « Fate questo in memoria di me»[1Cor. 11, 23-26]
Memoria è ri-presentazione del fatto originante. È un rendere presente e vivo ciò che il passato ha inghiottito, ma che non riesce a trattenere per sé. Così, questa riabitazione del passato ci abita e si fa e ci fa in un presente, il nostro, oggi e qui, che spalanca orizzonti di senso.

Non si tratta solo di fondare il presente, ma di rendere il presente luogo di accoglienza di ciò che verrà. Tutta la Storia appare, così, non solo fondata sulla memoria, ma appesa ad una Speranza che sa intuire i silenzi e i vuoti, prendendoli così come sono, senza pretesa di forzati e consolatori riempimenti.
In questo fare Pasqua, in questo lavare i piedi, in questo spezzare il pane, si delinea il volto di Dio nella Storia, senza mai rinunciare al non detto del mistero, che l’alterità non smette di proporci. Sembra che ci sia un solo modo di percepire l’altro senza smettere di considerarlo altro.
Tutto in quel “come”. « Come ho fatto io». Non è solo un esempio morale che possa istituire buoni modi comportamentali per una società corretta e rispettosa. Quel “come” ha delle implicazioni che vanno ben oltre ogni morale e ogni regola comportamentale e ha la sua origine nel « li amò fino alla fine» di Gesù nei confronti dei « suoi». L’amore che va fino in fondo non fa a meno di segni che lo significhino e lo rendano intellegibile.
Prima di lavare i piedi, Gesù “depone le vesti”, semplicemente si spoglia. È un gesto antico (Lev. 16,23-24) compiuto da Aronne, sacerdote, nell’ offrire il sacrificio di espiazione, nella Tenda dell’Incontro. Giovanni sembra voler dire che l’unico modo di entrare nel Santuario è quello di Gesù che lava i piedi. In questo atto, si compie il rapporto di Israele con IHWH, dell’uomo con Dio.
«Verso Dio io non posso andare nudo, ma devo essere svestito.» (A. Silesio, Il Pellegrino Cherubico). È il profumo dell’atto d’amore. Chi ama si spoglia. Non è l’atto velleitario di uno slancio amoroso, o un atto di pietà religiosa. È un modo di essere. È un habitus che si acquisisce solo spogliandosene, perchè lo stesso habitus non diventi una ricchezza di cui sentirsi forti. Spogliandomi, mi rivesto; svestendomi, indosso l’abito. Disabitandomi, sono abitato. E la mia casa diventa la casa dai molti posti.
La memoria dell’atto compiuto da Gesù genera realtà nuova. Nasce una comunità, una comunione, in cui ognuno trova il suo proprio posto. Il nostro spogliarci, lavare i piedi, spezzare il pane sono fondati da questa memoria e fondano realtà. Non hanno lo sguardo rivolto al passato, piuttosto, hanno il sapore di una attuale accoglienza di futuro, che sempre si proporrà come nuovo, cioè altro, sempre atteso e sempre inquietante.
È bello e dà gioia che i fratelli stiano insieme. E la memoria di questa gioia e di questa bellezza non si separi mai da noi, tanto da accendere sempre il desiderio di altra bellezza, smascherando i nostri rappacificanti punti di arrivo, come altrettanti tradimenti di un desiderio che da altrove, altrove ci conduce.

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