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Il lastrico di Wojtyla, Simone di Cirene e i suoi profili.

di Gian Piero Stefanoni

“se lo sguardo è un quieto abisso/recato sulla palma aperta”

“Piegarsi e poi lentamente salire/senza sentire in quel riflusso i gradini/sui quali è disceso tremando-/solo l’anima, l’anima dell’uomo immersa in una minuscola goccia,/l’anima rapita dalla corrente”. Così nel 1946 il giovane ma non più giovanissimo Karol Wojtyla a pochi mesi dall’ordinazione sacerdotale invocava in quel Canto del Dio nascosto che già nel titolo racchiudeva in sé nella sua ricerca il processo di uno sguardo appassionatamente rivolto a un divino attivamente presente nel quotidiano operare dell’uomo. Un Dio condividente e condiviso (finanche in poesia) tra gli operai delle cave di pietra di Zakrzowek e nella fabbrica di Solway ma anche un Dio come sappiamo in quegli anni restituito al silenzio nel contraccambio di un ascolto che non ha, non può più domande. Di quali gradini allora, di quale corrente e verso quale atrio (mai più nel giardino?) ci parlano questi versi? Forse dell’uomo (mai più nel giardino) la tentazione dei primi giorni nell’eterna primigenia solitudine, il pensarsi ancora soli, per sempre soli, nel flusso di un buio appunto dove luce non buca e vita non appare. Oppure, per quanto dato, sordi a questo, memori di un accordo che non è possibile sciogliere (“perch’io non vada errando in qua e in là/dietro a dei greggi che non sono tuoi” per dirla col “Cantico dei Cantici”), pur sfigurati o perché sfigurati, consapevoli- e vivi- nella libertà del vortice fino all’apparire, al pronunciare partecipato del nome. Quel nome nel cui Corpo si ha di nuovo corpo nella grata pienezza degli amati. Continua a leggere

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