La necessità e il limite della connessione


di Raffaela Fazio

La presentazione dell’antologia “Connessioni” (Vita Activa Nuova, 2022), avvenuta a Roma a fine novembre 2023, mi ha spinta a proseguire la riflessione iniziata nel passato. Ho pensato che il tema potesse essere affrontato sia dal punto di vista della necessità della connessione (biologica ed esistenziale), sia dal punto di vista del suo limite (legittimo e naturale).

La necessità. Nasciamo dal e nel contatto. Nasciamo dal contatto tra due esseri umani. E cresciamo iscrivendoci all’interno di dinamiche relazionali. Attraverso il contatto e il confronto scopriamo parti di noi sempre nuove, e nuovi luoghi di appartenenza e di passaggio. Il contatto ci permette sia di conoscere i nostri confini, prendendo atto dell’alterità irriducibile dell’altro, sia di spingere più in là i nostri limiti, grazie all’apprendimento e all’arricchimento che proviene dall’esterno. 

Quando il contatto non è semplice caso ma desiderio, ci troviamo a far parte di una “connessione”, che implica lo sforzo di allacciare o riallacciare una relazione, la volontà di richiamare a sé l’altro e di offrire all’altro parte di ciò che si è. La ricerca della vicinanza può prendere molteplici forme; la memoria e la scrittura – che di memoria si nutre, ma che si proietta anche in avanti, oltre l’attesa – sono due canali privilegiati. Lo scambio si inscrive in un orizzonte più ampio, in una rete di “corrispondenze” che abbracciano l’esperienza singola, contingente, e ne fanno prezioso “trasmettitore” all’interno del circolo virtuoso attraverso il quale il senso non solo informa, ma trasforma.

Il limite. Tuttavia, ogni vera connessione è fatta sia di vicinanza che di distanza, ovvero di quello spazio necessario alla messa a fuoco e al respiro, lontano dall’illusione del possesso e del controllo. Possesso e controllo sono purtroppo due problemi molto attuali (come dimostrano fatti di cronaca gravi, tra cui i frequenti femminicidi degli ultimi tempi), e nascondono fragilità e paure che non sono state propriamente affrontate. 

Quando pensiamo alla natura della connessione e al suo ruolo, è utile a mio parere menzionare alcuni rischi a cui siamo esposti nella nostra società. 

1) Credere che si possa conoscere l’altro pienamente, e che si possa essere conosciuti dall’altro pienamente.

No, questo non è possibile. Per sua natura, e per la natura degli esseri umani, la conoscenza è sempre caratterizzata da una parzialità. C’è una parte di inconoscibilità (anche di noi stessi davanti a noi stessi) che rimane, perché la comunicabilità non è mai totale. Più ci sentiamo vicini (soprattutto nell’amore) a qualcuno, più siamo spinti a credere che ci possa essere una coincidenza di pensiero e di intenzione, di desiderio e di volontà. Ma, come noi non abbiamo i mezzi per attingere alla complessità dell’altro, così l’altro non è in grado di capirci nella nostra totalità. Non si tratta di cattiva volontà, ma di limite umano. La struttura interna è diversa, diversi sono i bisogni, diverso è il modo in cui percepiamo ed esprimiamo la realtà.

La parzialità – e questo va sottolineato – non toglie niente all’autenticità, autenticità che rimane una conditio sine qua non di ogni contatto. Riconoscere la parzialità della conoscenza non significa rinunciare alla conoscenza stessa. Al contrario, il riconoscimento della parzialità dovrebbe comportare due dinamiche: a) il tentativo di conoscere ciò che è essenziale dell’altra persona, la sua natura di fondo (sapendo che altri aspetti ci sfuggiranno), cercando un contatto diretto e possibilmente non influenzato da fattori esterni; b) la volontà di sospendere il giudizio in alcune situazioni, per superare preconcetti e condizionamenti.  

2) Credere che l’altro possa e debba colmare i nostri vuoti e compensare le nostre sofferenze.

No, anche questa convinzione ci porta fuori pista. La solitudine, a volte non scelta e non desiderata, è comunque fondamentale. Essa permette un vero confronto con noi stessi e un vero lavoro su noi stessi, ed è pertanto il presupposto indispensabile per una relazione più solida e costruttiva con gli altri.

3) Credere che si possano avere tanti amici. 

In realtà, le amicizie sono poche, perché l’investimento personale profondo che comporta un’amicizia a livello di tempo e di energie emotive è molto alto. Va bene avere pochi amici, non c’è niente di male in questo. Ciò non significa non apprezzare molte persone per aspetti specifici, nella parzialità nella quale le si conosce. A volte queste persone costituiscono persino punti di riferimento nella nostra vita. La connessione funziona a vari livelli. Lo scambio limitato, ovvero limitato non in termini qualitativi, ma limitato ad alcuni campi (ad esempio quello lavorativo), o ad alcune occasioni, ad esempio la condivisione di interessi comuni o la condivisione di necessità comuni, può comunque essere uno scambio umanamente arricchente. Potrà essere tale se si svolge nella sincerità e nella gratuità.

4) Credere che avere tanti amici sia una conferma della nostra “qualità umana”. 

Non è così. La qualità umana dipende da molto altro, ad esempio dall’onestà, dall’empatia e dalla premura, dallo sforzo di coerenza e di affidabilità, dal coraggio delle proprie scelte anche se scomode. Oggi invece la popolarità viene interpretata come valore assoluto; ne consegue che ci si sforza di piacere e di compiacere a un livello superficiale (possibilmente sempre!), pur di avere conferme e gratificazioni istantanee, che però (lo sappiamo) lasciano il tempo che trovano.

Per concludere, direi che siamo esseri connessi, interconnessi, per natura e per desiderio. Sicuramente per necessità. E questo è un bene, è un bene che lo siamo. Ma qualche volta dovremmo staccare la spina, perché ne abbiamo sia il bisogno che il diritto. Staccare la spina: un bisogno e un diritto che dovremmo riconoscere a noi stessi per primi, nella speranza che poi anche gli altri lo facciano.

Il link con la presentazione: https://www.youtube.com/watch?v=355fltLlCvk

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