“Tropaion” di Raffaela Fazio (puntoacapo Editrice, 2020) Nota di lettura di Stefania Di Lino

“Se il vinto è colui che muore e il vincitore chi uccide, con questo confessandomi vinto, mi istituisco vincitore” (Pessoa, L’educazione dello stoico, ed. Einaudi 2005, trad. di Luciana Stegagno Picchio, p.77).

“I vincitori non sanno quello che perdono” (Gesualdo Bufalino, Calende greche (1992), ed. Bompiani 2009, Milano, p. 178)

“Prenderai quel cuor di cinghiare e fa’ che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d’argento” (Giovanni Boccaccio, Decamerón, 1349/1353)

Nella accurata postfazione a questa raccolta di versi di Raffaela Fazio, Sonia Caporossi ci informa sul significato etimologico e simbolico di ‘tropaion’, declinandolo nelle varie accezioni, anche cronologicamente intese per le diverse culture (in latino tropaeum, in greco ????????), e cioè “monumento che rammenta la sconfitta, la messa in fuga (trop?) del nemico”,  ovvero l’oggetto simbolo con cui si accompagna la pratica di un rituale magico, anche di tipo apotropaico, che il vincitore celebra – cioè assume su di sé  in termini di responsabilità che ogni ‘successo’ comporta – come tributo e riconoscimento della sua  vittoria sulla parte avversa.

In altre culture – e più diffusamente, dalle antiche tribù euro-asiatiche a quelle americane e persino europee – lo ‘scalpo’ era il cuoio capelluto strappato dal cranio del nemico vinto (a volte non ancora morto!), poiché si riteneva che quella parte anatomica fosse la sede del coraggio.   Con l’asportazione dello scalpo, con la sua appropriazione ed esibizione pubblica, il trofeo veniva offerto soprattutto alle divinità amiche che avrebbero dovuto proteggere il vincitore dalla vendetta dei fantasmi dei nemici provenienti dal regno dei morti. Da questo, l’assunzione di responsabilità dei sensi di colpa che ogni ‘uccisione’, spero solo figurata e quindi in qualche modo simbolicamente elaborata, dovrebbe comportare, salvo sociopatie di carattere psichiatrico che pure caratterizzano il nostro tempo.

In altri riti tribali, con la stessa funzione catartica e sacrale, si prevedeva lo strappo del cuore dal costato del nemico, associato non di rado ad un atto di cannibalismo, attraverso cui il vincitore ‘introiettava’, con il cuore del vinto, il suo coraggio e il valore dimostrato in battaglia, sempre con la medesima funzione di esorcizzare la vendetta del fantasma del morto.

Ma, in merito al concetto stesso di tropaion, parliamo parimenti di un topos letterario, poiché il cuore, oltre ad essere pensato come sede del coraggio, si mentalizza, a tutt’oggi, come domicilio, o addirittura come sorgente da cui nasce l’amore.

Ricordiamo, sempre in ambito letterario, l’episodio del Decamerone del Boccaccio, in cui messer Rossiglione induce la moglie a un atto di cannibalismo involontario, offrendole a sua insaputa come piatto accuratamente cucinato, il cuore dell’amante di lei, ossia di Messer Guardastagno, atto in seguito al quale la moglie, una volta informata della reale origine del cibo appena mangiato, si lancia da una finestra molto alta, suicidandosi: ‘…E levata in piè, per una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere.’

Persino Dante nella Vita Nova, tra sogno e visione, attraverso l’ipostatizzazione orrorifica del dio Amore, offre in pasto il suo cuore a una ‘paventosa’ e trasfigurata Beatrice.

In tali riti, e con ragione, c’è chi ravvede in forma laica la celebrazione dell’eucarestia cristiana.

Gianfranco Lauretano, nella sua articolata prefazione, sottolinea quanto questa nuova raccolta della Fazio sia all’insegna della ‘tensione’, essendo essa una poesia del ‘conflitto’, in cui l’aplomb della costruzione controllata dei versi, smussa appena il pathos del sofisticato dettato poetico di Raffaela. Non si mitigano però le vibrazioni che investono il lettore, coinvolgendo di molto in termini di compartecipazione emozionale e affettiva.

Rimanendo sul piano puramente simbolico, pescando nel lessico della letteratura cavalleresca medioevale, potremmo dire che in Tropaion si duella in  ‘singolar tenzone’ e se il campo di battaglia è, metaforicamente parlando, l’esistenza nella sua interezza, intesa come continuo e durissimo banco di prova nella cui sofferenza siamo irrimediabilmente marchiati – Lev Tolstoj diceva che l’infelicità è un grande soggetto – questo ci riporta in modo inevitabile e umano, così come la poesia detta persino nelle sue omissioni e nelle sue pieghe segrete, alla conflittualità dei rapporti interpersonali, tanto più se amorosi: ( ‘Lo senti? C’è un fiato / selvatico, furioso dietro l’arte /di cui si copre /anche il più piccolo segreto /nell’attimo in cui infine /vuole essere tradito./ […]p.17);  ‘[…] – sul fianco / il marchio arroventato dell’attraversamento.’(p.43).

Tra le varie etimologie, radici e desinenze, suoni e assonanze, s’incontra anche il lemma ‘tropo’, il cui valore polisemico e simbolico – non solo in relazione al titolo scelto, ma anche per la resa estetica della stessa costruzione poetica –  ben s’incastra con Tropaion,  raccolta rigorosa, asciutta, profonda, addirittura ‘abissale’ in alcuni passi, densa del sapiente uso di figure di significato (tropo, appunto, ovvero: tropo /’tr?po/ s. m., dal lat. tropus, gr. trópos, affine a trép? “volgere; adoperare con altro uso” – qualunque figura retorica di carattere semantico, traslato, metafora, metonimia).

Dicevamo che con Tropaion siamo nel cuore di una competizione bellicosa, pugnace, in cui la locuzione latina ‘Mors tua vita mea’ sembra esserne la costante rappresentativa,  o la ‘morale’ che si evince, resa ancor più cruda dal distacco formale con cui si esprime, dal calibro pesato e soppesato, adeguatamente bilanciato, attraverso cui il pensiero poetante dell’autrice  diventa materia, corpo, struttura, misura antropometrica, e ancora distacco e distanza per una rielaborazione mentale: operazioni intellettuali che universalizzano la poesia, rendendo possibile lo scatto di valenza simbolica che va dall’autobiografia all’esperienza intellettualmente condivisa, strumenti culturali e  psicologici,  che  tutelano chi poeticamente si esprime praticando le ombre proprie e quelle del proprio tempo,  al fine di conservare integrità mentale ,  o anche solo, come cantava Guccini ne L’Avvelenata, per  ‘mantenersi vivi’.

E, senza scendere dal ring, la lotta rischia di diventare più cruenta e feroce quando rimane ‘non vista’ – ci avvisa l’autrice – ma non è dato sapere se la guerra è non vista in quanto non ancora emersa alla coscienza, o perché non apertamente dichiarata dalle ‘parti attrici’, se mi si consente un termine un po’ curialesco.

In ogni caso  la scrittura, così forgiata, è in prima istanza autocoscienza e consapevolezza,  e sappiamo bene che il concetto di ‘pax’,  se non concordato alla pari e nell’interesse rispettato delle parti, diventa Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (dove fanno il deserto, lo chiamano pace), come Tacito, nell’Agricola, fa pronunciare a Calgàco, capo dei Calèdoni, di fronte alle truppe imperialiste dei Romani che, come sappiamo, furono terribili espansionisti, svelando così l’inganno doloso che spesso il potere cela proprio attraverso l’utilizzo ambiguo delle parole tradendole, uso, a quanto pare,  rimasto invariato nei millenni di storia che abbiamo attraversato per arrivare fin qui.

Ma, dopo questa prima lettura, sotto la tessitura consunta dagli scontri, sporca di sangue e polvere, lacerata dai colpi subiti, si individua una trama che denuncia un vuoto di fondo, una mancanza, una irriducibile nota nostalgica e mesta, per ciò che non può essere evitato né modificato, il logorio che porta alla stessa morte, per esempio, che certa e sicura giunge per ognuno di noi, alla fine dell’ultima battaglia.

‘Con lo sguardo/ sulla vena imperfetta / o sul tessuto che si sgrana ci alleniamo / alla Fine che arriva nelle cose…’ (p. 65)

Nulla ci è risparmiato, in tal senso, nulla ci ripara da una sofferenza da cui si ha speranza di uscire – in qualche modo, almeno per un attimo – solo dopo averne bevuto fino in fondo l’amaro calice, nella immutabile luttuosa dimensione esistenziale costituita dalle cose,  ovvero da ‘…un vuoto retroattivo / di bellezza / illecito dolore’  (p.24), e da persone che furono e non sono e non saranno più (a cominciare da noi) uguali a se stesse.

Una fine dunque, immutata, immutabile e reiterata, di cui la poetessa, consapevolmente, sente tutto il peso esistenziale. Del resto, scrive e descrive Quasimodo nella sua poesia ‘Alle fronde dei salici’, a proposito di guerra: ‘E come potevano noi cantare /con il piede straniero sopra il cuore,/ fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero /della madre che andava incontro al figlio /crocifisso sul palo del telegrafo? […]’.  

Dunque, allo stato attuale dei fatti, e torno anche alle premesse iniziali, come possiamo noi poeti ‘cantare’?

E la stessa Raffaela, nella poesia d’apertura della sezione ‘Una battaglia non vista’, parla dei suoi soldati mandati a combattere, in un’inquietante immagine notturna che rimanda, per associazione al ‘Terracotta Army’, ossia a quel complesso di figure  replicanti e somiglianti – emblematico esempio di ‘arte seriale’ ante litteram, prima delle ventidue Sante dei mosaici bizantini di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (550/600 d.C.), e molto prima di Andy Warhol e della Pop Art –  risalente al 210 a.C. (circa), scoperto nelle camere mortuarie del primo imperatore Qinshihuang, in Cina, costituito da ben ottomila figure verticali.

E la poetessa, proprio in questo contesto, a proposito di soldati, ci dice che: ‘[…] Sui tuoi nel sonno/ è facile vittoria./ Ma nessuno torna./ Restano là, dentro al silenzio /indistinti, confusi con i vinti:/ lo stesso volto […]’.

E ancora alla materia “terracotta”, la cui creazione dei manufatti  nella pre e protostoria, dopo la scoperta del fuoco, aveva un valore rituale e sacro – oggetti testimoni silenti di una nascente ricca complessa cultura umana, sepolti insieme ad antiche spoglie, oggetti di materia fragile eppure capace di attraversare talvolta indenne i millenni, per arrivare fino a noi,  materia  terragna elevata a simbolo di una materia ancor più fragile –  è proprio alla terracotta che Raffaela dedica versi ulteriori: ‘Sii tenero / come chi vive / dei suoi frantumi: / dentro il corpo /di terracotta il lume. / Lo si vede / nelle crepe sottili / delle piccole morti / con cui si apre / la notte, l’ascolto’.   (p. 51 poesia ‘Terracotta’)

Dunque, di quale battaglia e di quale guerra parliamo, o potremmo parlare per traslato, nello specifico? E se i ‘vincitori’ sono indistinguibili dai ‘vinti’ perché hanno lo stesso volto, chi potrà mai stabilire veramente chi ha vinto e chi ha perso? Chi mai oserà, in questa polvere luttuosa che tutto avvolge, innalzare il tropaion contro l’altro? E se è la metafora bellica e adattabile anche ad un rapporto amoroso giunto ormai alla fine, quale elemento della duade ha vinto? quale ha perso?

‘[…] La natura ha bisogno di tensione / tra destini votati  / a una disperata cerimonia. / In eterno si rincorrono gli amanti / nel giardino d’inverno. /[…]’

In tale scenario credo che nessuno possa esibire il simulacro del cadavere dell’altro, perché ognuno dei due amanti porta in sé e con sé, l’altro introiettato, o per me meglio dire, porta con sé dell’altro, le stesse ombre, scure in caso di conflitto, di un rapporto primigenio non risolto e modellato sull’altro (transfert negativo), ovvero la sua mancanza.

E l’uno diviene ‘altro’ per l’altra, e viceversa, in un gioco speculare, di sovrapposizioni d’immagine e di ruoli, e sempre più labile e contrastato si fa il confine, il pomerio tracciato, di corpi e pertinenze al punto che tutto è da ridefinire, dopo la fusione-illusione iniziale, per ricominciare, dopo, a distinguere il ‘mio’ dal ‘tuo’.

Perifrasando Brecht, il ‘nemico’ ci assomiglia e marcia alla nostra testa, e per questo, alla domanda delle domande: ’Di chi c’innamoriamo, quando c’innamoriamo?’  fondante e di particolare valore di significato rimane l’esortazione delfica del ‘Conosci te stesso’ (greco antico ????? ??????).

Secondo Jung, ogni individuo avrebbe prima di tutto il dovere di conoscere se stesso, ovvero il suo lato oscuro costituito da quelle parti, quelle schegge vaganti, che rifiuta di riconoscere come proprie perché troppo dolorose.

Solo attraverso la piena consapevolezza di sé, o meglio, attraverso una consapevolezza possibile, l’individuo può essere in grado di riconoscere un rapporto sano basato sulla piena accettazione, nel rispetto di sé e dell’altro, da un rapporto manipolatorio inficiato dalle ombre e dai fantasmi delle reciproche proiezioni.  Interessante è sapere che in psicoanalisi il termine Imago (come s’intitola proprio la seconda sezione del libro) non significa ‘immagine’ nell’accezione corrente del termine ma s’intende ‘rappresentazione o immagine inconscia’; l’imago è uno schema immaginario acquisito, un prototipo inconscio che orienta in maniera specifica il modo in cui il soggetto percepisce l’altro, orientandone le proiezioni. L’imago è un cliché statico in una dimensione inconscia e quindi atemporale, attraverso cui il soggetto ‘vede’ e considera l’altro, e su questo cliché, con l’altro, determina la tipologia della relazione.  L’Imago dunque, secondo Jung, è lo spirito dei genitori (le imago parentali), gli aspetti inconsci rigettati dalla coscienza, cioè elementi estranei e fuori dalla mente. Ciò che nell’infanzia costituiva un’influenza molto reale e importante (le figure genitoriali in tale fase sono preponderanti per lo sviluppo psichico dell’individuo) è, nella fase adulta, relegata nell’inconscio. Dunque sembra che sia proprio questo tipo di imago parentale a determinare inconsciamente la scelta del partner futuro, per antitesi o per similitudine.

Solo conoscendo il più possibile quelle parti dolorose che la coscienza, proprio in quanto dolorose, ‘rifiuta’, si può sperare nella realizzazione di una vita degna di essere vissuta per intero, poiché la bellezza, o la felicità, non è certo nella ‘perfezione’, ma nella completezza di sé.

Conoscere se stesso, se è conoscenza per antonomasia, non è mai una volta per tutte, poiché parliamo di un  processo pressoché inesauribile, lungo quanto la vita stessa che  può metterci di fronte a prove durissime, in un continuo senso di sofferenza e di perdita, in una costante reiterazione tra inizio e fine, di cui non sempre riusciamo a trovarne ragione – forse perché ragione non c’è – e la poesia, quando è tale, nella sua dimensione di umana universalità, se ne fa carico dimostrandone la cruda trama, senza nulla concedere,  proprio come avviene nella dolorosa raffinata poesia di Raffaela Fazio, la quale in piena consapevolezza sa bene che in ogni guerra, dichiarata o meno, oltre ogni metafora, le vere vittime, spesso definite come ‘effetti collaterali’, l’inevitabile ‘prezzo pagato’, in primis sono i bambini. Ai figli è infatti dedicata la sezione denominata ‘Avanguardia’, che si chiude con una poesia ispirata a (da) una scultura di Giovanni Prini, del 1902, dal titolo ‘L’erba morta, la falce e i bimbi’, in cui la competizione degli apparenti ossimori, la lotta tra la vita e la morte, onnipresente e oscura come un’ombra apparentemente eludibile, assume i contorni di una naturale leggerezza che solo all’innocenza è data. È l’avvicendarsi naturale delle stagioni, anche metaforicamente intese come alternanza generazionale, vita-morte-vita. 

Senza vincitori, né sconfitti.

*

I miei soldati

hanno pugnali saldi

e pettorali sporchi.

Sui tuoi nel sonno

è facile vittoria.

Ma nessuno torna.

Restano là, dentro al silenzio

indistinti, confusi con i vinti:

lo stesso volto.

Ombra che si getta su altra ombra

e l’ama perché affine.

Un solo esercito che aspetta

di essere sepolto

al mattino nella mente

o in fondo al corpo

finché il tempo

ne fa bianco corredo:

memoria di altra vita 

nella notte

ancora in piedi

– armata in terracotta.

*

Volgerà alla fine 

anche questa battaglia 

non vista

con la naturalezza

dei fossili, dei clasti 

a riposo

nel chiuso dei versanti.

In ciascuno 

la ressa

di vite, di detriti, la fatica 

sarà scasso 

per il tempo a venire

– un lascito migliore.

*

Dall’alto del colle

Il tonfo 

dei disarcionati

lo schianto dei vessilli 

il cozzo di corazze

tra il crepitio degli elmi

è questo, appena: 

un tremito di terra sotto i palmi.

Da qui 

null’altro si distingue

che un fiacco balenio.

Tra il fondo della valle 

e la ventosa cima del pendio 

quale distanza? 

Non si misura in ore

di cammino o in dislivelli

ma in una sola cosa:

la vista 

non teme più lo spazio

e coglie all’improvviso

il senso della luce: 

la mano si disserra

? in punta al giavellotto

un nuovo inizio, un lancio

che mi scaglia.

Mi tendo e vibro (sospesa 

felice traiettoria di un pensiero)

e non atterro.

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