Il dramma dell’umana conoscenza in Luca Pizzolitto, di Franca Alaimo

La poesia di Luca Pizzolitto si innesta talentuosamente nella letteratura a tema religioso rielaborandone motivi e formule, ma certamente due sono i maestri convocati in un ideale e fitto dialogo d’anima.

Essi sono Qohèlet e Davide Maria Turoldo, che nomina il misterioso ebreo in uno dei testi di Nel segno del Tau. Del primo Guido Ceronetti ebbe a dire, sintetizzando il contraddittorio del suo pensiero nel termine “qoheleticità”, che comunque la sua costante «è l’impenetrabilità delle cose, che Dio non vuole siano trovate», perché la sua sola finalità è che l’uomo viva nella sua eterna ignoranza, in ogni grado del suo piacere e del suo dolore, di quel che Dio è e fa». Del secondo Luciano Erba scrive che «Nella lotta con l’angelo del Nulla, dalla prima all’ultima prova poetica, accade per altro che l’autore riesca, creda di riuscire a divincolarsi (…), a potere avere il sopravvento: “canta” allora, come dice lui (…), il Tutto, senza che questo Tutto presuma filosofiche o mistiche alternanze, pronte ad annullarlo». È il momento in cui la vita viene lodata in un impeto irrazionale di gioia. 

La stessa alternanza attraversa i versi di Pizzolitto, che, dopo essere sceso insieme agli altri uomini negli Inferi delle notti dell’anima, dove, sperduti nel groviglio cieco del buio, non trovano alcun appiglio restando «nudi nel niente», inchiodati in una lontananza muta, percorre, infine, la via della benedizione nell’«inerme smisurata bellezza» del dolore, nel «disperato / splendore della vita»,   poiché quelle cose destinate al Nulla sono comunque segni di un Essere inesauribile, impronte dell’eterno svolgersi, forme in cui svaria la fantasia talvolta con apparente crudeltà. 

Il Niente e il Tutto s’incontrano attraverso il linguaggio. La teologia si coniuga alla poesia in un parallelismo di ricerca del sacro e del vero, a cominciare dal Nome, o, per meglio dire, dal Verbo, da cui tutto è cominciato e comincia, se è vero che «Non muore la rosa nel giardino di Dio». Ne consegue che «I nomi potrebbero / essere i nostri finalmente», come sussurra al poeta una presenza femminile che tocca il volto del poeta con il dorso della mano, addomesticando l’assenza, l’esilio della solitudine. Infatti, «se talvolta, per filosofico riflettere o naturale sensazione, sospettiamo che le cose non corrispondano a una realtà oggettiva, siano solo nomi, non abbiano altra esistenza che mentale, o verbale, resta pur sempre da chiederci se tale presenza verbale non sia poi la vera, la sola Presenza, il Vivente che fa nuove tutte le cose, il Verbo. Quand’anche Dio non fosse che una consonante» sconosciuta, come chiosa Luciano Erba a proposito di Turoldo nell’edizione O sensi miei della BUR.

Spesso il linguaggio di Pizzolitto assume una qualità vertiginosa nel suo corpo a corpo con la sostanza e la costanza incomprensibile della vita e della morte, con l’indicibile assenza-presenza di Dio. Un linguaggio che è Angelo di suoni-messaggi nell’affastellarsi di allitterazioni e rime e consonanze, armonie sonore calate nella disarmonia, e  che, mentre lavora attorno a delle immagini metaforiche o simboli, tratti dai testi sacri, quali il fuoco, il vento, l’incenso, «il sangue innocente di Dio»,  mette in scena, inaspettatamente, con deciso contrasto tra riflessione e descrittivismo, tra interrogazioni e gestualità, luoghi e cose della quotidianità, ricordandone la dimensione umile e modesta, e tuttavia non senza suggerirne il possibile segreto, la loro pervicace inappartenenza. 

È il limite della percezione dei sensi non distinto da quello dello Spirito, tanto che quest’ultimo potrebbe occhieggiare dalle cose stesse, adoperarle come gradini per un balzo metafisico, come fa, per esempio un altro grande poeta cercatore dell’oltre tra le cose, che è Bartolo Cattafi; allo stesso modo in cui Dio sceglie, per rendersi udibile, il più instabile degli elementi naturali: il vento, che è poi quel soffio che è stato inalato nella bocca d’Adamo, respiro nel corpo, oggetto inanimato. Si torna così alla Poesia, che qualcuno vorrebbe derivare da una parola fenicia che significa “bocca di Dio”, come parola che viene inspirata. La parola, insomma, non cade nel vuoto ma cuce sensi e anima. E la vita non ha percorsi rettilinei che si perdono nello spazio-tempo ma circolari se è vero che «Tutte le cose passano» e «niente cede, niente muore davvero».

Proprio per il suo oscillare e travasarsi delle cose le une nelle altre, e dei pensieri in itinerari non sempre congrui dal vicino al lontanissimo non visibile, Crocevia dei cammini è una viva, profonda testimonianza di fede, per quanto “fragile”, per quanto “misera” possa essere: da essa sgorga il testo finale, che ha il valore di una persuasione intima: una preghiera che invoca la benedizione e la grazia, un canto offerto a Dio, nonostante «questo inquieto esistere», o, che è lo stesso, un grido «che non trova pace, ragione». 

 

Agosto 2022

 

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