Combattere il fascismo da dentro? #2

di Antonio Sparzani

Werner Karl Heisenberg


e questa è la seconda metà del dialogo, pubblicato qui, tra Werner Heisenberg e un suo studente verso la metà del 1933, quando Hitler era già al potere da gennaio:

W.H. Si direbbe che non parliamo la stessa lingua”, dissi per cercare di calmarlo. “Cercherò dunque di spiegarmi più diffusamente. In primo luogo, ho visto che paesi quali la Danimarca, la Svizzera e la Svezia vanno avanti benissimo anche se non hanno vinto guerre da cent’anni e non hanno un grande esercito. Questi paesi riescono a preservare la loro specificità nazionale malgrado dipendano in parte dalle grandi potenze. Perché non dovremmo tendere anche noi in questa direzione? Potrebbe obiettare che la Germania è una nazione molto più grande ed economicamente più forte della Svizzera, e che quindi dovremmo avere un’influenza all’estero proporzionalmente maggiore. lo però vorrei considerare la situazione secondo una prospettiva più ampia. Il mondo sta cambiando in un modo che mi ricorda l’Europa alla fine del Medioevo, quando i progressi della tecnica, e soprattutto la comparsa delle armi da fuoco, fecero si che castelli e città perdessero la loro indipendenza politica,

fondendosi però in più vaste unità territoriali: è il sorgere degli Stati nazionali o comunque di Stati territorialmente più vasti. A questo punto divenne antieconomico circondare le città di mura e di fossati: le città senza mura potevano crescere più facilmente delle città murate, .compresse all’interno dei muraglioni di pietra. Anche oggi la tecnologia sta compiendo progressi enormi, e le tecniche difensive sono mutate radicalmente in seguito alla nascita dell’aviazione. E anche oggi vi è la tendenza a costituire unità politiche più vaste, che vadano oltre i confini nazionali. Credo quindi che sarebbe più utile per la sicurezza della nazione se, invece di riarmarci, cercassimo di allacciare rapporti di amicizia con i nostri vicini fondati sugli scambi economici. Se ci riarmiamo anche gli altri faranno altrettanto, e la sicurezza del mondo intero risulterà diminuita. Entrando a far parte di una più vasta comunità politica ci garantiremmo una protezione ben maggiore. Dico questo solo per mostrare com’è difficile giudicare il :valore di obiettivi politici non prossimi. E poi credo fermamente che i movimenti politici non si possano giudicare in base agli obiettivi che si propongono, anche in tutta sincerità, di raggiungere: vanno invece giudicati in base ai mezzi che essi impiegano per conseguire questi obiettivi. E, in quanto ai mezzi. voi nazionalsocialisti siete molto simili ai comunisti: entrambi – i capi, perlomeno – non credono più nella capacità di persuasione delle idee che sostengono. E questo è il motivo per cui entrambi i movimenti mi lasciano freddo e. anzi. con la malinconica certezza che entrambi saranno la disgrazia della Germania.”

Stud. “Ma non si è mai combinato nulla con i mezzi cosiddetti ‘buoni’. Il Movimento giovanile non ha organizzato dimostrazioni, non ha rotto vetrine, non ha picchiato gli oppositori: verissimo. Ma che cos’ha combinato, il Movimento giovanile;”

W.H. “Forse nulla, in termini politici. Ma sul piano della cultura ha raggiunto qualche risultato. Pensi solo all’istruzione pubblica, all’artigianato, al Bauhaus di Dessau, al revival delle antiche canzoni, alle società corali, alle filodrammatiche. Mi sembra che anche queste cose contino un poco, o no;”

Stud. “Forse. Non voglio sminuire nulla di tutto questo, e sono anzi grato per quanto il Movimento giovanile ha fatto. Ma la Germania ha bisogno anche di una liberazione politica dalla corruzione interna che la divora, e per raggiungere questo scopo le buone intenzioni non sono bastate. Questo non significa però che si debba star lì a non far nulla. Lei ci accusa di seguire un uomo che ritiene rozzo e di cui non approva i metodi. Sono anch’io del parere che l’antisemitismo sia uno degli aspetti peggiori del nostro movimento, e spero che scompaia al più presto. Ma coloro che sono più anziani di noi, i vecchi professori che ora vedono di malocchio la nostra rivoluzione, hanno forse mostrato a noi giovani una via migliore per raggiungere il nostro scopo? Nessuno ci ha detto come fare per liberarci di queste angustie. Anche lei non dice nulla. Che cos’altro avremmo potuto fare?”

W.H. “E così siete ricorsi alla forza e alla rivoluzione, credendo a torto che dalla violenza e dalla distruzione potesse uscire del buono. Sa che cosa dice Jacob Burckhardt sulle conseguenze di uni rivoluzione? ‘Fortunata quella rivoluzione che non si conclude con l’investitura del suo principale nemico.’ E perché proprio noi tedeschi dovremmo godere di questa straordinaria fortuna? Noi dell’altra generazione – tra cui ora devo annoverarmi anch’io – non vi abbiamo offerto consiglio semplicemente perché non avevamo consigli da offrire: se si eccettua forse il banale suggerimento che ognuno dovrebbe svolgere il suo compito con tutta la coscienziosità di cui è capace, nella speranza che il suo esempio possa alla fine servire a qualcosa.”

Stud. “In -altre parole, lei vorrebbe preservare il vecchio, aggrapparsi al passato. Disapprova qualsiasi cambiamento, mentre i giovani aspirano con tutte le loro forze al nuovo. Se tutti facessero come lei, non accadrebbe mai nulla di nuovo. Eppure, nella branca della scienza di cui si occupa ha ritenuto opportuno avanzare idee nuove e rivoluzionarie. Perché su questo sarà d’accordo con me, la relatività e la teoria quantistica rompono radicalmente con il passato.”

W.H. “Vogliamo parlare adesso delle rivoluzioni scientifiche? È opportuno allora esaminare un po’ più da vicino quanto è accaduto. Consideriamo ad esempio la teoria quantistica di Planck. Certamente saprà che Planck, quando si accinse a studiare l’argomento, non aveva intenzione alcuna di sconvolgere i fondamenti della fisica classica. Egli intendeva soltanto risolvere un problema particolare, cioè la distribuzione dell’energia nello spettro di un corpo nero. Egli ricercò una soluzione che fosse conforme alle leggi fisiche note, e solo dopo molti anni di studio si rese conto che ciò era impossibile. Solo a questo punto avanzò un’ipotesi che non rientrava nell’ambito della fisica classica, senza peraltro rinunciare al tentativo di sanare questa sua apparente violazione della fisica tradizionale proponendo un’ampia serie di congetture. Queste a suo tempo si rivelarono infondate, e solo allora l’ipotesi di Planck portò a una radicale revisione di tutta la fisica. Ma anche dopo questa rivoluzione i campi della fisica descrivibili con i concetti della fisica classica non sono mutati affatto. In conclusione, si rivelano fruttuose e positive solo quelle rivoluzioni scientifiche in cui si cerca di cambiare il meno possibile, e i cui promotori si limitano volontariamente a problemi settoriali e specifici. Quando si cerca invece di spazzare via tutto quanto o di innovare in modo arbitrario si ottiene soltanto il caos. Nella scienza soltanto un pazzo fanatico – quel tipo d’uomo, per intenderei, che sostiene di poter inventare la macchina del moto perpetuo – potrebbe pensare di rivoluzionare tutto quanto, e ogni tentativo in questa direzione non può che fallire miseramente. ~ vero: non sappiamo se sia lecito paragonare le rivoluzioni scientifiche alle rivoluzioni sociali; ritengo però, anche da un punto di vista storico, che le rivoluzioni più durevoli e benefiche siano sorte per risolvere problemi specifici, lasciando tutto il resto immutato. Pensi alla grande rivoluzione avvenuta-duemila anni fa, e alle parole del suo promotore: ‘Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire ma per dare compimento.’ Ripeto: occorre limitarsi a un unico e importante obiettivo, e lasciare il rimanente immutato per quanto è possibile. E quel singolo, minuscolo elemento che siamo costretti a cambiare può avere in sé una così grande forza di trasformazione da incidere su tutto il resto senza ulteriore sforzo da parte nostra.”

Stud. “Ma perché aggrapparsi con tanta ostinazione alle forme del passato? Non vediamo fin troppo spesso come non siano in sintonia con i tempi, e come sopravvivono solo per forza d’inerzia? Perché non sbarazzarsene? Ad esempio, trovo assurdo che i professori debbano ancora partecipare alle cerimonie ufficiali indossando abiti medievali. Certamente questo vecchiume andrebbe abolito, non è vero?”

W.H. “Credevo fosse chiaro che a me non stanno a cuore tanto le forme del passato in sé, quanto ciò che esse significano. Vorrei spiegarmi portando anche questa volta un esempio tratto dalla fisica. Le formule della fisica classica costituiscono un bagaglio di conoscenze empiriche che non solo era corretto in passato, ma lo sarà anche in futuro. La teoria dei quanti si è limitata a dare un’altra forma a questo bagaglio di conoscenze. Il contenuto delle leggi che governano il moto del pendolo, o che descrivono il comportamento delle leve e le orbite dei pianeti, rimane immodificato: ciò perché il mondo non è cambiato relativamente a questi aspetti. Ora, per tornare alla questione del costume medievale: si tratta di un abbigliamento arcaico che probabilmente risale ai tempi delle corporazioni, e che riflette la consapevolezza, molto più antica, del fatto che i dotti hanno una particolare importanza per l’umanità: e ciò semplicemente perché i consigli dei savi sono preferibili a quelli degli sciocchi. La toga è simbolo appunto di questa posizione particolare, e in questo modo protegge chi la indossa dagli ignoranti anche se costui è scarsamente meritevole. Ciò è vero oggi come cento o duecento anni fa; ma naturalmente la manifestazione esteriore, toga o altro, è in sé irrilevante. Ho comunque l’impressione che molti si oppongano non solo alla toga accademica, ma anche a ciò che essa rappresenta: e ciò è sciocco, perché significa non tener conto di una situazione reale.”

Stud. “Vedo che ancora una volta contrappone l’esperienza degli adulti all’irresponsabilità dei giovani, come fanno i vecchi. La discussione ha quindi raggiunto un punto morto, e ognuno si arrocca sulle sue posizioni.”
Il mio visitatore si alzò per andarsene; lo trattenni offrendomi di suonare l’ultimo movimento del concerto di Schumann. Egli accettò volentieri, e quindi ci congedammo da buoni amici.

Prossimamente pubblicherò il suo dialogo con Max Planck, di cui dicevo nella prima parte e cercheremo di capire le ragioni per cui il Nostro rimase a Lipsia per tutta la durata del nazismo.

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