Cristiano Dorigo, “Acque alte”

Da Acque alte, di Cristiano Dorig(Meligrana Editore)

Il 21 marzo esce, per Meligrana EditoreAcque alte di Cristiano Dorigo. È un piccolo libro importante: Dorigo, per trent’anni, come educatore, ha lavorato con ragazze che hanno subito traumi indicibili in famiglia. Ci presenta alcune di queste giovani donne, ma, come scrive il Professor Emanuele Pettener della Florida Atlantic University nella postfazione che qui presentiamo, lo fa con pudore, delicatezza, e uno stile originale, “un gesto ribelle nei confronti di quella che Calvino chiamava la peste del linguaggio”.

Prefazione di Emanuele Pettener

“Una fiamma viva”

Spesso temi importanti — quali l’abuso fisico o psicologico ai danni delle donne — diventano un pretesto, da parte di chi ne parla e ne scrive, per gonfiare l’ego, solleticare la vanità,  farsi belli.

Sui giornali, in televisione, sui palcoscenici “social” ci si lancia in vibranti e sdegnate tirate, grondanti un tale pathos che l’autore inevitabilmente finisce per inebriarsi alla bellezza lirica della propria voce e il cui scopo (talora senza che nemmeno l’autore, colto dalle vertigini della propria altezza morale, se ne renda conto) è un tornaconto di visibilità.

Conclusa l’invettiva, commosso e appagato, l’oratore-giornalista-opinionista su Facebook va a farsi un panino al salame.

Perché — ed è umano, naturale, per quanto sia difficile ammetterlo — la sofferenza altrui, a meno che questo altrui non sia sorella o figlia, padre o madre o amico fraterno, ci tocca, quando ci tocca, solo per un attimo, ci scandalizza e ci commuove e ci fa tremare di sdegno, quando accade, solo per un breve momento. Poi il dolore e l’ingiustizia restano a chi ne soffre e ai suoi famigliari, mentre noi altri possiamo andare a farci un panino al salame.

Per questo, pavoneggiarsi con la retorica e inscenare un dolore che non proviamo, o proviamo superficialmente, è grave. Il dolore, tanto più quando non ci tocca da vicino e ne siamo, per nostra fortuna, solo spettatori, va rispettato. E il rispetto si dimostra con il silenzio e il pudore. Il pudore! Una parola ormai desueta, poiché il pudore (quella gentile, compassionevole, nobile arte di essere discreti e lievi) sembra sparito.

Cristiano Dorigo racconta con pudore. Perché il dolore è il suo mestiere. Lo conosce, lo affronta, lo gestisce. Non è una piuma di struzzo; in un periodo in cui tutti straparlano di violenza nei confronti delle donne, lui, che questa violenza la vede ogni giorno, tace. E tuttavia immagina un altro se stesso che, mentre la sua Venezia viene sommersa dall’acqua, scrive delle ragazze con le quali lavora, che quindi diventano altre ragazze, a cui il narratore attribuisce nomi di fiori. Ecco il pudore. Un doppio filtro e la delicatezza di nomi che conducono a immagini di fragilità e innocenza. La realtà così dura sperimentata dall’autore non diventa meno dura nell’esperienza raccontata dal narratore, ma, a partire dal nuovo battesimo floreale e attraverso l’originalità dello stile, scavando nella roccia grigia della realtà, scorgiamo la luce della poesia. Milan Kundera, uno degli autori amati da Dorigo in gioventù, nei Testamenti Traditi, riferendosi a Kafka, sottolinea come uno scrittore non debba mai perdere di vista la bellezza. E Dorigo, anche solo attraverso l’accuratezza delle scelte linguistiche, la precisione delle sue frasi, il pudore con cui descrive le ragazze e le loro vicende,  non lo fa mai: racconta l’orrore, ma non si piega ad esso, non perde di vista la bellezza.

Da trent’anni Cristiano Dorigo si occupa di ragazze — le sue ragazze, le chiama — che hanno vissuto in famiglia abusi fisici e psicologici, traumi che hanno portato al distacco legale dalla famiglia stessa; queste ragazze hanno subito l’indicibile laddove la maggior parte di noi cerca e trova sostegno e affetto: il nido famigliare. Come avrete compreso dalle storie presenti in questo volume, il compito di Cristiano è introdurre queste giovani donne alla loro vita nuova; accompagnarle in un processo di rinascita. Perché queste ragazze sono morte. Ed è una morte metaforica fino a un certo punto, se è vero che non siamo fatti solo di carne e sangue: sono fiori recisi, bambine uccise nello spirito, e naturalmente respirano e camminano, ma sono state tradite e ammazzate da chi avrebbe dovuto fornire loro protezione, tenerezza, amore. Provano a rinascere, con cicatrici terribili: non tutte ce la fanno. Il  lavoro di Cristiano prevede un equilibrio costante fra delicatezza e severità, è  finemente psicologico e al contempo estremamente concreto, pratico (per esempio, Cristiano insegna a queste ragazze come fare le spese). È  un lavoro che ha scelto, senza mai atteggiarsi, né  privatamente né pubblicamente, ad eroe: “a un certo punto della mia vita, dopo una gioventù disordinata, ho capito che avrei voluto occuparmi delle persone: in particolare dell’animo, dell’intimo, e ho fatto in modo di riuscirvi”. (L’ho intervistato, prima di scrivere questa postfazione: i virgolettati qui e successivamente si riferiscono a questa intervista).

Cristiano non ha scelto solo di essere un educatore; ha scelto anche la scrittura. Certo, un talento non si sceglie, ma deve essere sviluppato e affinato per non restare in potenza. E la scrittura si sviluppa e si affina attraverso la lettura. L’autore di Acque alte è un lettore famelico, vorace. Per la letteratura coltiva una passione totalizzante che ha radici nell’infanzia: “Sono cresciuto in una famiglia e in un’epoca in cui la parola era fiamma viva: non tanto i miei genitori — non tanto e non solo  — ma quello che mi circondava”. Fiamma viva. Il giovane Cristiano questa fiamma la alimenta, guidato da un istinto quasi disperato, anarchico, al di fuori di studi regolari, insofferente com’è  (e sempre sarà) all’autorità e alle regole dall’alto, eppure devoto alla parola. La insegue ovunque, come un cane insegue il tartufo: “ricordo — con orrore — che leggevo due quotidiani al giorno, e assorbivo tutto l’underground culturale, quindi anche  musica e fumetti di quegli anni fra la fine dei ’70 e inizio ’80”.  E libri, naturalmente, “mischiando classici a schifezze, ma se dovessi dire cosa mi interessava, dove mi portava la mia bussola, era verso la scoperta dell’interiorità dell’uomo. E poi non mi bastava mai, e cercavo nei libri qualcosa che riempisse un vuoto, una mancanza di senso, l’assenza di Dio: ho preso un sacco di sbandamenti, ho cercato nei posti e nei modi sbagliati perché dovevo provare a mettere insieme parole che fossero anche mie”. E quando trova un autore che appaghi quella fame, lo divora: Dubus, Carver, Philip Roth, Knausgård, Siti, Trevisan. “Se dovessi dire alcuni libri, in questo minestrone disordinato, che mi hanno de-formato: Cuore di tenebra di Conrad, Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo, 2666 di Bolaño, la trilogia di Roth, Tolstoj con Anna Karenina, Seminario sulla gioventù di Busi, qualche decina di libri di mistica orientale” e, conclude, prova una grande nostalgia per i Greci e i Latini  che non ha ancora incontrato.

I ferri del mestiere Cristiano Dorigo li ha rubati ai suoi autori di riferimento, ed è curioso setacciare il testo a caccia di influenze e citazioni intertestuali, ma, sin da Homo sapiens Nord Est (Mare di Carta, 2011) ha scelto di essere uno scrittore: una persona che prende seriamente la parola, ci lavora perché sia la parola esatta, corrispondente, che aderisca con la massima precisione possibile a un sentimento o a una visione. La prosa di Dorigo non è mai sciatta, è sempre un gesto ribelle nei confronti di quella che Calvino chiamava la peste del linguaggio. Per arrivarci lo scrittore Dorigo ha lavorato duro in officina, smontando pezzi, aggiustando periodi, cancellando e maledicendo, sporcandosi e maledicendo, ma alla fine abbiamo Acque alte, che mi sembra il suo lavoro più bello, per nitore e purezza di stile. E forse, fra i tanti libri che ha scritto o ha curato, questo è anche il più importante per struttura artistica: in un’architettura di alte e basse maree, di giorni e di notti, Cristiano ha alternato il racconto della morte spirituale delle sue ragazze al racconto di quella fisica delle persone che ha amato, ma lo ha fatto con la bellezza del linguaggio, e la misteriosa tragedia della vita è illuminata dalla fiamma della parola: e sia per le ragazze che per il narratore alla fine di una lunga oscurità, ecco che appare la luce dell’Aurora.

Emanuele Pettener, Florida Atlantic University

 

 

 

 

 

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