“Collezione privata”, Elisabetta Sancino. (Sete, o poesia 2)

di Giovanna Menegùs

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«Pittura, mi mancavi. Infine, eccolo, / è forte, è nell’aria, / lo captano a uno a uno / i miei sensi magati / il desiderio / … / delle cose / tutte, di natura e d’arte / che… / anelano…» La nostalgia per l’arte – così viva in noi nonostante i musei chiusi a causa della  pandemia organizzino tour virtuali –, l’anelito della voce di Simone Martini-Mario Luzi sono ben adatti a introdurre la Collezione privata di Elisabetta Sancino. Matura raccolta di versi che nasce dalla sollecitazione dell’arte, a partire da quella sete-desiderio come dimensione antropologica e poetica di cui nella precedente recensione ho parlato a proposito de La sete di Sergio Bertolino.


«Sancino persegue nella scrittura un suo furore originario, sorgivo, cerca la propria dimensione vitale», una «passione» che «esplode in una serie scintillante di dialoghi con le opere». Ogni dipinto – o scultura, disegno – è «sorgente inattesa di larghissima e feconda ricreazione attraverso l’arte del proprio linguaggio e la capacità di un cammino che oltrepassa quello dell’opera, aprendo infiniti spazi di riflessione e desiderio». Così scrive in rete, su Neobar, Annamaria Ferramosca, non a caso autrice anch’essa in dialogo creativo con l’arte a partire dal poemetto Trittici.
Nella Collezione di Sancino – privata nel suo momento originario e compositivo per poi aprirsi e offrirsi al pubblico, ovvero ad ogni lettore – La sete, una figura femminile senza volto opera dello scultore Arturo Martini, prende la parola:

Sono porosa, di grana grossa
mi bevo il tuo sudore
l’appiccicosa linfa delle tue dita
ma resto grigia, corrosa
– non corrotta –
da una sete inestinguibile
la stessa che mi mette prona
con un figlio sulle spalle
e la bocca accostata alla terra.
Fiuto la vena originaria
senza cartografie di sorta
dall’acqua sono nata
non dalla tua testa.

Nella silloge la sete torna, ancora declinata al femminile, attraverso un’opera dell’artista Carla Accardi, Viola Rosso, dove «il magenta satura la sete / della bocca sulla tela». L’arte esprime dunque sia il livello materico ed elementare, la terra e l’acqua, sia la lingua dei colori. Quest’ultima è sempre centrale in Elisabetta Sancino. Il suo libro d’esordio, nel 2016, s’intitola Frammenti viola. La raccolta successiva (Il pomeriggio della tigre, 2018) porta in esergo questa programmatica citazione da Nina Cassian: «Una mela azzurra, / una tigre verde – / quanto basta per scriver libri di tutt’altro genere, / libri con cieli rossi, / giungle viola, / perché qui come altrove tutto si rimescola».

«Il colore mi possiede», una dichiarazione di Paul Klee di forza analoga ai versi di Nina Cassian, è l’esergo di Collezione privata.

Questa terza raccolta mostra una maturazione rispetto alle due precedenti. Maturazione che risulta valorizzata anche editorialmente nella collana CollezioneLetteraria di puntoacapo, dalla grafica curata, con copertina elegante ed essenziale. Aggiungo che il lavoro di Collezione privata, approdato qui alla sua versione definitiva, ho avuto modo di seguirlo nei tre anni intercorsi dalla stesura del primo nucleo di componimenti alla pubblicazione (dalla quale una decina – o più? – di testi sono stati esclusi, scelta che ha senz’altro evitato possibili ridondanze e appesantimenti, portando a una calibrata struttura d’insieme, eppure i testi rimasti inediti sarebbe interessante proporli, riuniti, in altra sede).

La struttura del libro, dunque. È articolata in sei sezioni: in un percorso y sei sale, trattandosi di una galleria d’arte. Estroflessioni, da un titolo e una tecnica di Enrico Castellani. Soror, sorrow: sorella, dolore (dal disegno di Van Gogh Sorrow), otto donne dipinte. La vita delle forme, con cinque testi ispirati alla scultura, tra cui il già citato La sete. L’oltremare: dal blu di Yves Klein, cinque testi che evocano anche Mark Rothko e l’Annunciata di Antonello da Messina. Anonymous, ancora cinque testi, e qui il rimando non è a opere singole precisamente rintracciabili nei musei, ma più allusivo, a tecniche pittoriche, permettendo l’autorappresentazione e quasi l’autoritratto (Spazialismo, Olio su tela), così come di tratteggiare una Visione di marzo e di evocare le figure di due artisti amici mancati prematuramente (The action painter, Pop). Infine Collezione privata, la sezione più ampia e originaria.

I testi sono “tutti d’un fiato”, perlopiù brevi e concentrati: 7-8 versi mediamente, ma anche meno, fino a 3. Sono pronunciati in un’unica emissione vocale: un’unica frase o strofa, dalla maiuscola iniziale al punto fermo finale, con punteggiatura interna quasi abolita, a parte alcuni trattini a marcare incisi o pause e alcuni punti interrogativi. In qualche caso il flusso verbale è scandito dalla pausa di un punto a capo, cui seguono i versi conclusivi del componimento.

Tale brevità è il segno di una lunga elaborazione e gestazione, il momento finale di un’attesa. Ha i tratti complementari di compressione ed eruzione, esplosione.

Compression (César, 1960)

Oggi sono un tumulto di metallo e fuoco
somiglio alla tua voce quando sussurra
cose prodigiose dentro il vuoto
dei miei giorni sempre uguali
e ricompone le scorie, i frammenti di lingua
l’estro arrochito dentro la gola
mi riplasma in voce piena.

Voce compressa che erompe. Sono le opere stesse a parlare, o la voce lirica è la loro stessa segreta voce, a un tratto divenuta udibile, con l’urgenza di dire una volta per sempre. La poesia tende qui costantemente a integrare i diversi sensi, è continua sinestesia di visione mentale e parola, ovvero vista e udito (e tatto gusto olfatto, nella forte matericità e corporalità, visceralità femminile): gli occhi «a volte sono mani», «a volte invece restano occhi / come le parole che vedo nella mente / e non riesco a scrivere». E nella sua sfaccettata compattezza e urgenza comunicativa Collezione privata sembra suggerire anche uno sviluppo teatrale, una lettura o recitazione scenica. Con una struttura a monologo, una sola voce recitante (come una sola è la voce della poetessa).

Concludo con “un dipinto dell’ultima sala”. Mi intriga, mi ha colpito quasi nel senso di colpo basso la poesia che è riuscita a “farmi vedere” un dipinto che avevo visto in originale parecchie volte sempre detestandolo, provandone un fastidio. Andrea Doria in veste di Nettuno del Bronzino, una tela di grande formato in cui il personaggio ritratto spicca a dimensioni naturali: esposta alla Pinacoteca di Brera, forse anche per ragioni di collocazione mi risultava ingombrante e oppressiva, pesante nella sua carnalità e negli orpelli del mito e della celebrazione del potere. Passando oltre in fretta mi dicevo: il Manierismo non mi piace. Sancino replica con penetrazione illuminante a questa accusa di “indecenza” espressiva. Lo fa cogliendo una situazione psicologica ed esistenziale che va al di là dei tempi e delle ricchezze dei signori cinquecenteschi, e in pochi versi riesce a racchiudere sia il dramma interiore dell’uomo che invecchia tormentato da un’astiosa controparte femminile, sia, di nuovo, i mezzi espressivi di pittura e poesia («che ogni segno rimanga impresso, / ogni verso»).

Andrea Doria in veste di Nettuno (Bronzino, 1540)

L’idea mi è venuta dopo l’infarto
posare a torso nudo
col ventre molle e un tridente in mano
lei mi ha urlato: vergognati, vecchio
è stato allora che mi sono stracciato la veste:
carne flaccida nelle mani di un maestro
proprio questo mi aspetto
e che ogni segno rimanga impresso,
ogni verso.

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Elisabetta Sancino
Collezione privata
Prefazione di Cinzia Demi
CollezioneLetteraria – Poesia, n. 75
puntoacapo, 2021
86 pp. – 12 euro

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Immagine: Carla Accardi, Viola Rosso, 1963, Museo del Novecento (Milano)

 

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