È sempre stato il mio sogno
un tiglio al centro del giardino
alla sua ombra un tavolo
due poltroncine di vimini
una da un lato una dall’altro
per discorrere da me a me
una volta vecchio una volta giovaneContinua a leggere→
I Cieli augurali di Giovanna Menegùs sono un canto alla natura, alla circolarità del tempo che alla stessa natura si adegua, in barba al tempo lineare di un positivismo occidentale che non dà tregua per l’attenzione e la cura. Questa breve raccolta di 12 poesie inedite si stringe attorno allo stupore per la bellezza del mondo, che si trova nei paesaggi e nei boschi, persino sui cigli della strada come sulle rive dei corsi d’acqua. Sono cieli augurali perché portano doni di luce, con le loro stagioni, le loro aurore che aprono l’alba e spalancano il giorno, i loro tramonti che s’inchinano al crepuscolo e raccolgono la notte. (a&b archibiblio ferrara – Strenna Natale 2021 delle Biblioteche di Ferrara)
di Giovanna Menegùs
Pubblicato su Avamposto. Rivista di poesia, nella rubrica Odiare la poesia
Immagine: Ercole Milanese (Ostiense, Porto fluviale)
Il volume, con la bella sopracoperta bianca dei Supercoralli Einaudi macchiata, un po’ strappata, lo trovo alla vigilia del primo lockdown su una bancarella di libri usati. Lo scelgo e me lo porto a casa con il senso cupo e ansioso con cui si decidono le ultime provviste prima di rinchiudersi nel bunker. Sapendo che poi per molto (quanto?) tempo non sarà più possibile ritrovarsi così liberamente, oziosamente fra libri veri: freschi di stampa o polverosi e ingialliti che siano poco importa. Del resto essere un reperto, un oggetto salvato e consunto, per un poema dedicato all’affondamento del Titanic – 15 aprile 1912 – fa parte del codice genetico. Continua a leggere→
Già l’esergo convince: “Una realtà immaginata non è una bugia” (N.H.Harari); questa poesia chiede credito e dà credito prima di farsi conoscere, ci avverte, promette qualcosa anche nel titolo. C’è poi la premura di un’introduzione, ch’è in prosa poetica: ci dice che il canto ha inizio dal battito, dal suo ritmo, con la speranza di riconoscersi alla fine (insieme al lettore forse) nella beatitudine dei ribelli, che finalmente trovano il “tempo metronomico adeguato”, la loro “malattia di sani”. Continua a leggere→
Che cosa c’è sotto le palpebre, e che cosa si vede dal loro riparo, stando a occhi chiusi o socchiusi? «Si chiudono le sere / come ricci intrappolati / a difendersi attorcigliati / fuori c’è lo spavento / dell’ignoto // qui mi rassicura / anche una sedia / e la piccola lampada / che mi fa compagnia / non è una ferita del sole»: una situazione che ricorda, ad esempio, quella del Natale di Ungaretti, con l’opposizione fra esterno temibile e conforto dato dai semplici oggetti dentro la stanza, nei quali l’io vorrebbe identificarsi («Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo /e dimenticata»).
L’imperatrice è una badante. Ogni donna povera e priva di opportunità avrebbe potuto essere un’imperatrice, e forse lo è nonostante le apparenze (le non apparenze dell’invisibilità sociale). Questa in sintesi la verità e la forza che emerge dalla vicenda personale di Liliana Nechita e insieme dalla storia raccontata nel suo romanzo L’imperatrice, pubblicato in maggio da FVE, casa editrice milanese diretta da Valentina Ferri.
Nechita – che è un nom de plume – è nata in Romania nel 1968 e ha già all’attivo vari libri: dal volume d’esordio Ciliegie amare, uscito nel paese d’origine nel 2013 e in traduzione da Laterza nel 2017, a Bambole di fango (2019) e Piccola mamma (2020). Vive in Italia da oltre quindici anni, lavorando come badante e scrivendo. Continua a leggere→
di Giovanna Menegùs – pubblicato su Avamposto. Rivista di poesia
Siano resi onori e grazie e memoria, in lettura, a Roberto Calasso e a «quel libro di libri che è la casa editrice Adelphi», «un insieme di libri autonomi tra loro ma che possono essere letti ‘come un unico libro’: un’esplorazione che chiede una sorta di libertinaggio mentale che ignori le barriere, un viaggio conoscitivo sregolatamente regolato, e la cui sopravvivenza, in un Paese come questo, sembra a volte semplicemente un regalo». Continua a leggere→
E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp.
In questa notte che è preda del vento
ho presagio della luna
e della mia
città nuda e troppo bianca
su cui la luna sta
fonte del vuoto;
ho dolore dei fiumi
qui traboccati dal deserto; Continua a leggere→
Tempo, silenzio-dialogo, mondo.
Questi mi paiono i nuclei del nuovo libro di versi di Angelo Andreotti, che quanto o più dei precedenti vive tutto di variazioni tenui come increspature sul pelo dell’acqua, sfumature indistinte e sommesse come le nebbie della città in cui egli è nato e risiede, Ferrara – tra gli orizzonti distesi della pianura e il respiro del Po e della laguna veneta: un paesaggio e un’atmosfera che sono anch’essi protagonisti pervasivi, sottili della sua poesia. E in Tra parola e mondo si ritrovano quella «dizione piana e meditativa», quella «fragilità e sospensione» e le «figure d’ombra», «presenze lievi e discrete» che Antonio Prete segnalava nella prefazione a L’attenzione (ed. puntoacapo, 2019).
Come quel nonno mai incontrato
vedrai che morrò soffocato
da un nòcciolo di pesca
E tu soffocherai sulle mie labbra
lingua che parli la ferita
tragica e perversa,
romantica e vitale,
molto più grande
del mio corpo incapace di migrare
dove l’aria è della migliore
sfumatura verderame, Continua a leggere→
Di Giovanna Menegùs. Pubblicato da Avamposto. Rivista di poesia, nella rubrica ‘Odiare la poesia’.
Un po’ per caso mi accorgo che questo 2021 secondo anno dell’era Covid è il decennale della morte, non solo di Zanzotto, ma – il 24 maggio – anche di Giovanni Giudici.
Noto poi questo: i due grandi del secondo Novecento, quasi esattamente coetanei, vengono presentati da critica e manuali di storia della letteratura in sequenza e come una sorta di coppia, coppia però dagli elementi ben distinti, paralleli più che tangenti: Raboni, collocandoli insieme sotto il segno di «Grande stile e ironia», li rappresenta come «due solitudini». Continua a leggere→
Nel tempo quando avevo i sentimenti, da cui nessuna forza poteva ripararmi nessun noa né tabu il 25 aprile andando per i cippi dei caduti, come per le stazioni di un calvario, sopraffatto tremavo, e poi dalla piccola compagnia mi defilavo come in una profonda definitiva pioggia. Il vostro perire – nel sacro della primavera – mi sembrava la radice stessa di ogni sacro. Continua a leggere→
Poesia come sete, o sete di poesia. Desiderio inappagato e inappagabile, risorgente sempre e nonostante tutto a fornire una prova dell’esistenza dell’anima, se non di Dio. La metafora e il simbolo, tanto antichi quanto potenti, mi accompagnano in sottofondo da alcuni mesi con La sete, titolo del libro in versi di Sergio Bertolino pubblicato lo scorso ottobre da Marco Saya. Li ritrovo ora in un altro libro di poesia fresco di stampa (Collezione privata di Elisabetta Sancino), in cui un breve testo si intitola anch’esso La sete, ispirandosi a un’omonima scultura di Arturo Martini, che nel Novecento rappresentò il tema in più versioni. La persistenza del tema in autori e forme differenti mi sollecita, e mi induce a tentare di dare forma a qualche considerazione nel presentare le due sillogi.
Il tema pasquale è al centro dell’opera di Zanzotto tanto da intitolarne un libro. Pubblicato nel 1973, Pasque – che nella seconda parte segue la scansione e il calendario della Settimana Santa, spingendolo fino all’impossibile Pasqua di maggio – si presenta come una raccolta di non facile lettura, e nemmeno facile o opportuno sembra estrapolarne frammenti testuali. Elegia pasquale, che proponiamo, è fra i testi iniziali della raccolta d’esordio del poeta di Pieve di Soligo, Dietro il paesaggio (1951). Di Andrea Zanzotto ricorrono nel 2021 il centenario della nascita e il decennale della morte: dopo quello collocato al 21 marzo, questo è il secondo foglio di un possibile Lunario ricavabile dai suoi versi e con il quale ricordarlo. (Giovanna Menegùs)
Di Andrea Zanzotto ricorrono quest’anno, insieme, il centenario della nascita e il decennale della morte (10 ottobre 1921-18 ottobre 2011). In quello che è noto come “il poeta del paesaggio” sono numerose le liriche legate alle stagioni, e altrettanto centrale è la presenza della luna. Da qui l’idea di accompagnare il 2021 con un “lunario” di versi tratti dalla sua opera, come minimo omaggio e come invito alla lettura o rilettura e alla memoria. Aggiungo però subito che in Zanzotto le lune naturali – dalla primavera all’inverno, nel ciclo destinato a ricominciare – intersecano a vari livelli il tempo umano, e il lunario è dunque anche calendario.
Siamo italiani da 160 anni oggi. Lo sappiamo? Ce lo ricordiamo? Che ricorre questo anniversario intendo (17 marzo 1861-2021), ma, più che altro, di essere italiani. Lo siamo davvero o restiamo ancora e per sempre – finché ci sarà, forse, del tempo da vivere, se a breve non ci estingueremo soffocati dal nodo sempre più stretto del “progresso scorsoio” (come lo chiamava Zanzotto, quest’anno cade anche il suo centenario) – lombardi e calabresi, romani e sardi eccetera, ripartiti e divisi, altro che uniti, nelle nostre variopinte e folcloristiche tribù?
Il primo marzo ha pubblicato il suo primo numero CasaMatta, blog di cultura, società e letteratura che si propone come uno spazio aperto al confronto e alla condivisione con i lettori, con una prospettiva di dibattito in controtendenza rispetto alla dimensione social più corrente e corriva. La redazione è composta da Fabrizio Bregoli, Anna Maria Farabbi, Paolo Gera, Milena Nicolini, Nella Roveri. Attraverso i testi di presentazione del nuovo blog emerge bene, a partire dal nome scelto, il senso dell’operazione e l’aria che vi circola: politica in primo luogo, femminile e femminista, plurale e anarchica o eretica e utopica, con «la follia pura che permette di affacciarsi alla vita di nuovo per ricrearla» (Farabbi).
Dal nuovo libro di poesia di Annamaria Ferramosca, uscito il primo marzo con Ladolfi Editore, propongo tre assaggi. Un frammento da tableau mourant 2 che lascia avvertire tutta la crisi epocale, ecologica e pandemica, e l’angoscioso smarrimento («l’assenza di ogni valico per l’arca») che stiamo vivendo. Una poesia d’amore (perché di poesie d’amore c’è sempre bisogno). E infine il penultimo testo del volume, che trovo particolarmente felice e suggestivo: si tratta di un’ariosa, luminosa preparazione alla morte («il mio allenarmi per il grande volo»), dove con tono sommesso e colloquiale l’ultimo, sollecito pensiero va ai propri «libri ordinati negli scaffali / fieri ben stretti», che, «ricordate vorrebbero di tanto in tanto respirare / esigono come tutti / di avere incontri essere aperti / (non solo spolverati)». Perché, a differenza di quanto il frammento da me un po’ arbitrariamente estrapolato come incipit potrebbe forse far pensare
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