“L’imperatrice” di Liliana Nechita. Con un’intervista

di Giovanna Menegùs

L’imperatrice è una badante. Ogni donna povera e priva di opportunità avrebbe potuto essere un’imperatrice, e forse lo è nonostante le apparenze (le non apparenze dell’invisibilità sociale). Questa in sintesi la verità e la forza che emerge dalla vicenda personale di Liliana Nechita e insieme dalla storia raccontata nel suo romanzo L’imperatrice, pubblicato in maggio da FVE, casa editrice milanese diretta da Valentina Ferri.

Nechita – che è un nom de plume – è nata in Romania nel 1968 e ha già all’attivo vari libri: dal volume d’esordio Ciliegie amare, uscito nel paese d’origine nel 2013 e in traduzione da Laterza nel 2017, a Bambole di fango (2019) e Piccola mamma (2020). Vive in Italia da oltre quindici anni, lavorando come badante e scrivendo. «Anche la letteratura è accudimento in fondo» leggo in una delle numerose recensioni che L’imperatrice sta ricevendo, in rete e sulla stampa (segnalo qui almeno quella a firma di Farian Sabahi sul Manifesto). Il valore di ‘accudimento’ e cura è al centro e all’origine di questa narrazione scritta che trae forza da un’oralità arcaica, affidata, all’interno delle comunità, prevalentemente alle donne: «Il male se ne va con le parole» (p. 76) afferma Elena, voce narrante e nuora ‘cittadina’ della protagonista, l’imperatrice-contadina Olga.
Le parole in questione sono quelle di una miracolosa filastrocca contro il malocchio – mentre le pronunci, lottando contro il diavolo che «cerca di impedirti», «il male ti sta attraversando e ti esce tra le mani, tra i pensieri» – e questa magia verbale si fa naturalmente metafora della scrittura qui messa in atto e dell’intero libro.

«Non si poteva a quel tempo pensare di imparare geografia e grammatica, la gente gemeva sotto il peso della guerra, persino i lupi entravano nel villaggio, il cielo era grigio e oscurato da povertà, miseria e malattia. In realtà gli occhi non erano rivolti al cielo, ma fissi per terra, perché era proprio grazie alla terra che si mangiava» (p. 14). Senza dubbio il senso della storia e della politica, il tema sociale e di genere giocano un ruolo importante nell’Imperatrice, tuttavia a mio avviso Liliana Nechita è una scrittrice prima e a prescindere dall’‘impegno’. La narrazione prende corpo, si coagula nelle case personificate, emblema dell’emigrazione e disgregazione della Romania postcomunista, nelle mani di Olga, nella morte degli animali, nel cibo che viene dalla terra ed è terra. Riporto di seguito qualche passaggio.

«Le case abbandonate sono molto tristi quando non sono finite, invecchiano senza nessuno, hai la sensazione che ti guardino dietro le spalle, come per chiamarti. […] Il paese sembrava più povero. Una volta, tempo prima, era colorato: pieno di ciliegie, di prugne e susine che si schiacciavano nell’erba» (p. 166-68). Nel finale, Elena rivede il paese dopo alcuni anni e «Tutte le case mi parevano storte e rimpicciolite». «Adesso, case vecchie e nuove stavano insieme, parlando tra loro di una vita che prima c’era e ora già non c’era più» (pp. 186-87).
«Olga aveva le mani piccole e annerite dal sole e dalla vecchiaia. […] le mani andavano per conto loro, lavoravano da sole» (p. 27). «La guardavo quando lavorava, stava seduta su una sedia dallo schienale alto, ben dritta, sembrava veramente un’imperatrice», con «le sue dita nere di sole e vita» (p. 106). Le mani di Olga non riposeranno nemmeno durante la malattia che ne precede la morte, fino alla fine continueranno a impastare cibo invisibile, nell’aria, nel nulla, per i suoi cari ancora.
L’uccisione dei maiali, a dicembre: «Dicono che, se guardi impietosito un animale che sta morendo, la sua anima se ne va nel dolore, la sofferenza è più lunga, ti guarda anche lui come per chiedere aiuto, sente che solo tu, che lo guardi con pena, potresti salvarlo» (p. 113). Come tutti in campagna Olga ha un cane, ma è un piccolo cane sventato che ruba le preziose uova e fa danni nell’orto, scodinzolando contento. Esasperata, decide infine di liberarsene, e arriva così il momento terribile, con il sacco, il bastone, e «C’erano solo lui [l’uomo incaricato di sopprimerlo], il cane e Dio». «Alla fine Marin arrivò con uno sguardo brutto, confuso, con le mani vuote» (pp. 126-28).
Gli alimenti che vengono dalla terra ne portano anche la poesia, il canto quasi. Così è per il lievito ricavato dal mosto, una schiuma affiorante in «polpette rosa» che daranno agli impasti «un profumo speciale: di vita, di terra in lacrime» (p. 104). Così è per un minestrone cucinato a partire da una dispensa vuota, senza nemmeno le patate: «Nel piatto c’erano solo erbette, estate e pace. E quelle foglie del susino davano un sapore amarognolo e un profumo strano, di sera e d’amore» (p. 77).

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Ho un colloquio telefonico con Liliana Nechita. La chiamo a Terni, dove vive (il primo periodo in Italia lo ha trascorso invece a Perugia).

Le chiedo quanto ci sia di autobiografico nell’Imperatrice. L’80 per cento risponde, e per qualche istante accenna a Olga come persona reale, ma ben presto passa a parlare del nuovo libro che sta scrivendo. È già a buon punto: è un racconto, anch’esso in larga misura autobiografico, sulla vita quotidiana durante il comunismo. A questo proposito Nechita si definisce «figlia di un decreto»: alla sua nascita, nel 1968, in Romania non c’erano anticoncezionali e l’aborto era vietato. Molte donne morivano in conseguenza di aborti clandestini, e se arrivavano in ospedale, per ricevere cure dovevano denunciare chi le aveva aiutate a interrompere la gravidanza, viceversa, rifiutandosi di fare delazione l’assistenza medica veniva loro negata. Nel nuovo libro Nechita si propone di raccontare – anche per sua figlia e con lei le nuove generazioni che oggi, in un mondo tanto cambiato, di quell’epoca poco sanno o riescono a immaginare – l’atmosfera sotto la dittatura di Ceausescu, il terrore delle delazioni. Un terrore legato al fatto che non si poteva mai sapere chi fosse la Securitate, se assumesse le fattezze della commessa al negozio, del vicino di casa. Nechita ricorda quando, durante l’infanzia, per andare in un bosco fuori città passava con la famiglia davanti al cimitero ebraico e suo padre diceva ai bambini: Non guardate le tombe diverse. Gli ebrei erano considerati nemici del popolo, del comunismo, poiché facevano richiesta di espatrio per andare in Israele, e a quel punto sparivano anche i libri da loro scritti, i documenti d’archivio che li riguardavano. Non si poteva fare il segno della croce. Tutto questo però avveniva nelle città, in campagna era diverso. Il mondo rurale rimase relativamente immune a tutto ciò. I contadini hanno Dio e la terra, il resto scivola loro vicino, non li tocca.

Nechita è un nom de plume, concordato, patteggiato con la figlia al momento della pubblicazione di Ciliegie amare, l’esordio letterario centrato sulla dolorosa separazione familiare che la migrazione in Occidente delle badanti dell’ex Est comporta. La reazione della figlia fu, comprensibilmente, di orgoglioso pudore: Non devi dire a nessuno che soffriamo, non devi rivelare a nessuno le nostre ferite. Per la scrittrice tuttavia non era a quel punto possibile tornare indietro. Da cui la scelta di uno pseudonimo che preservasse la riservatezza dei familiari.

Ciliegie amare è stato tradotto nella nostra lingua da Elena Di Lernia e il suo ‘libro sul comunismo’ Nechita lo sta scrivendo in rumeno, ma la traduzione italiana dell’Imperatrice l’ha fatta lei stessa, avvalendosi di due sessioni di editing con Valentina Ferri e con Giorgio Ghiotti. Il libro attualmente in fase di stesura è nato proprio dall’editing, dalla cura dei dettagli e le domande relative all’Imperatrice, in particolare da alcune richieste di precisazione sulle filastrocche contro il malocchio.
A FVE editori Nechita è arrivata attraverso la lettura di un articolo di Huffington Post che raccontava della casa editrice aperta in tempo di pandemia da Valentina Ferri. Durante il lockdown, con le biblioteche chiuse e solo il poco che offriva l’edicola, le mancavano i libri, e il coraggio di questa scelta l’ha colpita.

Da parte mia, della letteratura e cultura rumena conosco ben poco: posso ricordare soltanto i nomi di Ionesco, Mircea Eliade e Cioran. In alcuni passaggi de L’imperatrice ho però intensamente pensato ai racconti di Cechov, per la pietas ferma e sommessa con cui è rappresentato il destino di uomini e bestie. Domando dunque a Liliana Nechita quali libri sono importanti per lei, quali sono stati i suoi modelli letterari.
Gli autori che raccontano la realtà, risponde, la letteratura con i piedi per terra. Non raccoglie il mio rimando a Cechov e mette invece al primo posto il ‘nostro’, e forse da noi un po’ dimenticato, Pirandello. Subito dopo: Calvino, Márquez, Isabel Allende. In anni recenti soprattutto le storie vere, i racconti autobiografici: Ismail Kadare; la letteratura turca (Orhan Pamuk) con la sua atmosfera di vicoli stretti; la letteratura albanese e quella indiana. Le interessa il marchio dello spazio geografico dove un libro è stato scritto, sapere di più di un paese attraverso la letteratura. Infine, isolato, fa il nome della Yourcenar. «Nella mia vita il rapporto con i libri è stato il più lungo. Ho cambiato tanti paesi negli anni, i libri invece sono una costante.»

Le chiedo che cosa si aspetta dall’Imperatrice. Che la gente guardi con più rispetto il mondo contadino, dice. La vita vera inizia da un seme. La vita, i ritmi più arcaici, lenti, oggi sono marginalizzati. Tante persone vi stanno però ritornando. La sfida oggi è salvare insieme questa civiltà.
Al momento della nostra conversazione, avvenuta in giugno, è appena tornata dalla Romania, da una città nel cuore della Transilvania dove è andata per conoscere la nipotina di tre mesi. I borghi stanno morendo sia qua sia là, dice. Nei dintorni di Terni, dove abita, ci sono borghi con quindici, trenta abitanti, che vivono per un breve periodo in estate come località di vacanze, di sagre, ma – continua – durante la lunga stagione fredda nei vicoli si vedono soltanto pochi vecchi.

In questa linea, di frutti della terra lavorata da mani pazienti, è particolarmente orgogliosa del fatto che il libro sia stato mandato a Carlo Petrini di Slow Food. Bloccate dalla pandemia all’indomani della pubblicazione, per L’imperatrice sono state in seguito programmate varie presentazioni: a Roma presso l’Accademia di Romania, a Milano con la casa editrice, a Sulmona, Torino, Montepulciano. In autunno c’è il progetto di partecipare a Umbria Libri.

Non finiremmo più di parlare. Come vogliamo concludere questo nostro lungo colloquio, le domando. «Con un baciamano a tutti i contadini» risponde senza esitazione. Il baciamano è il saluto tradizionale che in Romania si rivolge agli anziani, aggiunge.
Un paio di settimane dopo mi manda una fotografia che la ritrae affacciata a un poggiolo con le assi traforate di legno scuro e un po’ logoro, come quelli della montagna cadorina, tanto che io immagino stia facendo qualche giorno di vacanza dalle mie parti. È il suo paese invece, in Romania. Le case, l’aria sono uguali.

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Liliana Nechita
L’IMPERATRICE
FVE editori – collana ‘Visionaria’
192 pp. – 15 €

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