Archivi tag: Ricochets di Raffaela Fazio

Intervista ad Alessandro Franci

 

Dalla tua biografia, ho scoperto che sei laureato in architettura. Che peso ha per te lo spazio? E come si traduce nella tua scrittura? Ci sono aspetti, a tuo avviso, che accomunano l’architettura alla poesia? Forse l’attenzione al dettaglio e l’importanza dello sguardo?

 

Lo spazio mi pare interessante in sé dal momento che accoglie, ha cioè la caratteristica disinquinante del suo contrario. Quello sguardo leopardiano oltre la siepe, mi sembra, a tale proposito, esemplare. Lo spazio non è perciò solo quello che fisicamente si apre davanti, ma diventa, nel pensiero, una libera dilatazione intellettuale. Nella scrittura, personalmente, mi interessa, quanto più sia possibile, proprio questo, una sorta di ideale attraversamento, rispetto a un’idea più statica, non tanto farne parte, quindi, ma seguirne i suggerimenti, le suggestioni. Continua a leggere

Intervista a Rosita Copioli

 

 

In una poesia intitolata “Commiato”, scrivi: “Sono della razza dei romantici”. Cosa significa esserlo? E fino a che punto questa definizione parla di te?

 

L’affermazione va letta nel contesto. Qui la «razza dei romantici» è quella che vive animata dalle «generose illusioni». Ha il sogno di realizzare non dico il paradiso in terra, ma di seguire quella sorta di “proclama” scritto nel 1796 (o tra il 1795 e il 1797) da Hölderlin, Schelling ed Hegel, firmato da quest’ultimo: «La Verità e il Bene si trovano fratelli solo nella Bellezza». Il cosiddetto Frammento di Stoccarda esprime la tensione infinita verso verità, bene e bellezza, che devono essere uniti, per essere, e valere veramente. È l’antico programma platonico che passa nella tradizione cristiana. Per Hölderlin vive nella figura tragica di Iperione, e va verso il Cristo. La sua “ragione” sta nella libertà, ma essa è molto diversa da quella che nei medesimi anni impone il terrore in Francia. È molto più vicina a quella dell’Umanità divina che anima la teologia di Ildegarda di Bingen. Diventerà lontanissima da quella di Hegel, che si avvia all’identificazione della libertà dell’io singolo con quella dell’io supremo, che è lo Stato: la ragione superiore all’individuo che ne richiede il sacrificio, quando occorra, in nome del Bene Collettivo: qualcosa che spingerà a immaginare le ideologie più diverse, e opposte. Continua a leggere

Intervista a Anna Maria Farabbi

 

 

Intervista ad Anna Maria Farabbi

 

Anna Maria, hai iniziato a scrivere poesie da adolescente. Cosa è stata la poesia per te, in quel tuo primo “affaccio”, e cosa è la poesia adesso, a distanza di anni?

 

Non è stato un affaccio, uno sporgermi. E’ stato un vento che mi è venuto addosso. Ancora oggi è così. Con potenza scardinante o fondativa, con permanenza erosiva e al tempo stesso impollinante. Continua a leggere

Intervista a Maddalena Bertolini

 

Intervista a Maddalena Bertolini

 

“Infilo le valli nelle maniche/ sulle punte le dita del Brenta” (da “Sulle punte”, Publistampa edizioni 2019). Maddalena, fin dal nostro primo incontro, non riesco a pensare a te e alla tua poesia senza pensare alla montagna. L’esperienza della montagna mi pare così vicina al segreto dell’esistenza stessa: richiede coraggio e umiltà, precisione, preparazione, fiducia nelle proprie forze, ma al tempo stesso riconoscimento dell’abisso e dell’imponderabile. Un’esperienza che ci mette a nudo. Mi piacerebbe che tu ci parlassi del tuo amore per la natura, di come nasce e di come si declina. Continua a leggere

Intervista ad Alfredo Panetta, di Raffaela Fazio

La tua scrittura si muove su due binari: il dialetto materno, quello di Locri (Reggio Calabria), e l’italiano. Il risultato è solido e convincente in entrambi, per l’estrema cura che dedichi all’aspetto specifico di ciascuno (con il loro rispettivo lessico, ritmo e timbro). Cosa significa per te scrivere in dialetto e cosa significa scrivere in italiano? 

 

Grazie per la domanda, Raffaela; penso tu abbia centrato al primo colpo il nocciolo del mio lavoro più intimo sulla parola. I binari sono due, come tu correttamente affermi, ma la parola è una sola, o almeno questa è l’intenzione. Una parola o meglio una voce che ha bisogno di due strutture linguistiche diverse per concepire e manifestarsi sulla pagina scritta. Ho necessità di dire sia attraverso la voce materna primordiale e istintiva che tramite la magnifica lingua di Dante, che mi permette maggiore ricchezza di lessico e una struttura sintattica più articolata. Le due lingue lavorano in collaborazione stretta; talvolta s’interrogano l’una con l’altra anche durante la fase di composizione. Ogni verso, ogni strofa deve funzionare in entrambi gli impianti linguistici. Quindi la risposta alla tua domanda è: scrivere in dialetto e scrivere in italiano significa suonare la stessa musica con due strumenti diversi, entrambi indispensabili. Continua a leggere

Intervista ad Alfredo Rienzi, di Raffaela Fazio



Alfredo, iniziamo da qui: secondo te, il limite della poesia è la sua forza (o può diventarlo)?

Per rispondere dovrei avere ben chiaro cosa posso considerare come “limite” della poesia e forse anticipare una qualche definizione, fatalmente soggettiva, ma, per brevità, mi concentrerò su due aspetti. 

Il primo è intrinseco: la poesia, con la sua necessaria densità e concentrazione verbale e semantica si fa carico di una rappresentazione del mondo incompleta, frammentaria, parzialissima rispetto alle possibilità della prosa e della saggistica. Ma nell’equilibrio, secondo me necessario e inevitabile, tra il detto e il non detto si incontrano, appunto, i limiti e le potenzialità del verso. Il non-detto richiede confidenza con il silenzio, con il pre-verbale, con il secretum intuitivo. Apre porte, spiragli, prospettive (più delle altre forme di scrittura), che offrono ad ogni lettore (ogni ascoltatore del non-detto) il proprio angolo di visuale. In una realtà orfana, per sua stessa natura, del Vero, l’offerta e la convocazione nel testo di verità plurali ne può quantomeno richiamare l’esistenza, offrire un percorso d’avvicinamento.

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Intervista a Giovanna Rosadini

di Raffaela Fazio

Giovanna, come e quando è nato il tuo amore per la poesia?

Direi annusando le librerie di casa, fin da piccola. Saggiando i volumi, aprendoli e sfogliandoli, trafugandoli in camera mia… La grande appassionata di letteratura, in casa, era mia mamma: ricordo la successione ritmica dei dorsi dei libri einaudiani, quelli bianchi di narrativa e poesia, ma anche gli arancioni dei saggi, e poi la veste di un tempo, color carta da pacchi, dello “Specchio” mondadoriano… da Cardarelli a Fortini ma, soprattutto, Montale. Indimenticabile l’impatto che ebbe, su di me adolescente, un’edizione nei “Supercoralli” delle poesie di André Breton: la scoperta del potere dell’inconscio tradotta nel dettato automatico, una meraviglia, e la continua sorpresa di immagini e accostamenti sinestetici inediti, pura energia. Ma determinante è stato il regalo di un piccolo e prezioso libretto di poesie di Federico Garcia Lorca, “Cinque lire di stelle”, ricevuto a dieci anni da un giovane amico che abitava nella grande casa rosso mattone con cui confinava, a Genova Nervi, la nostra proprietà. La poesia come elemento relazionale, come scambio nell’ambito di un legame di amicizia (come forma di comunicazione elettiva) nasce per me da quel dono, un concentrato di freschezza e fantasia espressive (“Mi hanno portato una conchiglia. //Dentro ci canta/un mare di mappa. / E il mio cuore/si riempie d’acqua/con pesciolini d’ombra e d’argento.”).

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Intervista a Tiziano Fratus

Tiziano, ti sei scelto come appellativo “homo radix”. La parola “radice” evoca l’idea del legame, della stabilità, dell’appartenenza. Ma non c’è fissità: le radici si muovono e, al loro interno, permettono il fluire di ciò che dà vita. Cosa significa per te “radice”? E cosa vuol dire “radicare” e “sradicare”?

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Intervista a Maria Luisa Vezzali

Maria Luisa, vorrei iniziare da un aspetto che credo importante nella tua vita: il tuo essere “ponte”. Lo sei soprattutto come insegnante e come traduttrice. Si tratta in entrambi i casi di un servizio che comporta la capacità di mettersi a disposizione degli altri. Cosa transita su questo ponte a scorrimento bidirezionale?

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Intervista a Salvatore Ritrovato

In poesia, l’ “io” è sollecitato da più parti: bersagliato da alcuni come spia rossa autoreferenziale, è accolto da altri come passaggio obbligato. All’ “io” tu hai dedicato una poesia, che apre in maniera significativa “La casa dei venti” (Il Vicolo Editore, 2018). Là scrivi: “Non lascia di sé figura né volume, ma un incrocio/ di linee in fuga del paesaggio che lo innerva./ Tante braccia protese a saluto.” L’ “io” di cui parli assomiglia a un territorio aperto, proteso verso l’alterità, non definito da confini, ma attraversato da un reticolo di percorsi. È così? Questo “io” non è in fondo sia il paesaggio che il viaggio stesso? 

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Intervista a Massimo Morasso

Ti conosco come una persona dedita alla cultura a trecentosessanta gradi. E ho come la sensazione che la tua non sia solo una passione, ma una vera e propria “vocazione”. Quale significato attribuisci a questa tua attività letteraria? E cosa potresti dire, come scrittore, sul senso della letteratura in generale?

Esistono tante vocazioni, a questo mondo. Quando uno sceglie la letteratura come vita, tale scelta è già in sé una reazione contro il caos e la barbarie, un’attestazione di disponibilità alla militanza quotidiana per la salvaguardia dei valori spirituali. 

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