Intervista a Salvatore Ritrovato

In poesia, l’ “io” è sollecitato da più parti: bersagliato da alcuni come spia rossa autoreferenziale, è accolto da altri come passaggio obbligato. All’ “io” tu hai dedicato una poesia, che apre in maniera significativa “La casa dei venti” (Il Vicolo Editore, 2018). Là scrivi: “Non lascia di sé figura né volume, ma un incrocio/ di linee in fuga del paesaggio che lo innerva./ Tante braccia protese a saluto.” L’ “io” di cui parli assomiglia a un territorio aperto, proteso verso l’alterità, non definito da confini, ma attraversato da un reticolo di percorsi. È così? Questo “io” non è in fondo sia il paesaggio che il viaggio stesso? 

Sì, Raffaela, hai visto bene. L’io in fondo è un pronome, ma è anche un’istanza psichica, direbbe Freud: “soggetto” e insieme “oggetto” dello stesso soggetto, il quale (se è in senno, e non soffre di dissociazione) se ne dimostra cosciente. In che cosa consiste quell’oggetto se non in un “paesaggio” che noi esploriamo e attraversiamo, nel quale noi “viaggiamo”? Non celebro né la resistenza né la nostalgia dell’io-poetico, tutt’altro, ne sono diffidente, e lo sono dalla prima raccolta, Quanta vita, del 1997, nella quale demando l’egocentrismo lirico a diversi personaggi i quali dicono io e noi, in mia vece, o sono narrati in terza, smarcandosi da me. Sono veramente io quello che dice “io”? Non dico che è solo una finzione, almeno non è il mio caso, ma penso che nell’“ego” ci sia una “eco” di altri io. Perché è così importante per me questo discorso? Direi perché lo sento preliminare al rapporto con l’Altro, l’eventuale lettore, come se gli dicessi di non cercare solo me in quello che dico ma anche se stesso. 

“Addio viaggi lenti e ritardi per i guasti/ deviazioni impreviste e tornanti/ a gomito sui pendii sdrucciolosi”. Sono versi di un’altra tua poesia, “La variabile umana”, che si conclude con queste parole: “Triste il giorno in cui non potremo scendere/ da un treno quanto avremo voglia di fare due passi”. Che rapporto hai con il tempo, con la distanza, con l’erranza, con l’imprevisto?

Una domanda tanto semplice, in apparenza, che richiederebbe un duro esercizio di sceveramento della complessità. Che cos’è il “tempo”, e che cosa la “distanza”? E l’“erranza”? E l’“imprevisto”, di cui la stessa erranza (ma non solo essa) si nutre? Cercherò di rispondere in maniera altrettanto rapida e spero soddisfacente, riprendendo i versi che citi: tutti questi concetti vertono sull’uomo (donde la “variabile umana” del titolo), il quale prova, vivendo, a osservare delle regole, delle abitudini elementari, a cominciare da quella di misurare il tempo, illudendosi della sua oggettività. Non scendo nella ridda di varie ipotesi sulla natura del tempo nelle scienze, mi limito a considerarne quella a noi più familiare, quotidiana, che ci segue, anzi ci insegue ovunque. Siamo sicuri che questo tempo non sia solo un modo per esorcizzare il caos e l’imprevisto, il nostro errare (nel duplice significato, ovviamente) nel mondo? Se questa vita è un viaggio (verso dove?), sono in molti a ritenere di non poter fare a meno di una mappa, che ci dirà il nome delle tappe, insegnandoci la distanza fra l’una e l’altra e il presunto tempo di percorrenza, forse finirà per persuaderci che esiste un disegno nel nostro cammino e che il tempo ne contrassegni lo spirito. Ah, che bello, ma troppo facile. Ammesso che colui che prende coscienza del viaggio sia lo stesso di chi viaggia, e che il viaggio sia reale e non sia un nuovo paradossale (nel senso di Zenone) infinito tendere-a di un perenne e provvisorio (so)/(re)stare – che cosa avremo appreso dal tempo se non quello che già sapevamo? Cioè che si tratta di una nobile impalcatura cognitiva e narrativa escogitata dall’uomo per orizzontarsi nella storia sua e del pianeta, e per nascondersi, all’indomani dalla cacciata dall’eden, dalla vergogna della sua nudità?

La poesia, che non è un semplice esercizio denotativo ma, attraverso un linguaggio connotativo, si sforza di leggere le cose in profondità, “in maniera straniata” e traslata (come dici tu nella raccolta di saggi “La Poesia e la Via”, edita da Fara Editore nel 2020), può arrivare a qualche verità? Se non del mondo, almeno dell’io? Sempre in “La casa dei venti” c’è una poesia intitolata “A una carrucola”, che ricorda “Cigola la carrucola del pozzo” di Eugenio Montale. In Montale, ciò che si attinge dal pozzo riguarda il tempo, trattandosi dell’immagine ormai deformata di un passato irrecuperabile: “Trema un ricordo nel ricolmo secchio/ […] si deforma il passato, si fa vecchio/ […] Ah che già stride/ la ruota, ti ridona all’atro fondo,/ visione, una distanza ci divide”. Nella tua poesia, quello che il secchio fa riemergere dal fondo sembra appartenere invece alla conoscenza del sé: “cala il secchio sporco di vita e tira/ su quella parte di me più pulita/ laggiù sommersa,/ spalanca lo specchio:/ quello che leggi, rovescialo.” È dunque possibile spalancare lo specchio e rovesciare il leggibile?

Non solo è possibile, ma fondamentale. Spalancare lo specchio, sviscerarlo fino a cogliere la parte nascosta, rovesciarne l’immagine visibile e leggibile, è proprio della poesia, in quanto essa usa la lingua non in senso informativo e banalmente comunicativo ma in maniera creativa. È chiaro che la carrucola di cui parlo, come quella di cui parla Montale, non è solo una carrucola: la poesia non vuole dare istruzioni su come si tira su un secchio o che farne, ma straniare un’immagine o una situazione apparentemente quotidiana (come quella di tirare su un secchio dal pozzo) per dire qualcos’altro e in questo qualcos’altro cogliere il baluginio della “verità”. Ecco, siamo al punto: è forse una forma di arroganza, questa della poesia, di parlare o di mostrare o di puntare alla verità? No, piuttosto è una forma di disperazione. Nel senso proprio che la parola, sicuramente il mezzo che ha deciso delle nostre sorti, svincolando l’uomo dalla necessità animale, non ha speranza se si limita a registrare il reale, ha bisogno di inventarlo, a meno che la stessa registrazione del reale non contenga una profonda istanza creativa, capace di non farci dimenticare (ecco l’a-létheia) la sostanza della nostra umanità. E allora, tornando ai versi sopra citati, l’immagine del Sé come Altro o, al contrario, dell’Altro come Sé, o il ritorno del “rimosso” che riemerge dal fondo di un pozzo, non è forse un indizio che la poesia è sulla strada della verità? 

Sapendo quanto le tue giornate siano piene di letture, ricerche, studi sia personali che accademici, mi colpisce sempre, nei tuoi versi, l’accento che poni (spesso con sottile ironia) sulla vita concreta e sull’importanza delle piccole cose, come farmaco contro possibili derive intellettualizzanti e fossilizzanti. Le piccole cose sono ad esempio le “uova fresche”, che danno il titolo a una tua poesia del libro “L’anima o niente”, pubblicato nel 2020 da Il Vicolo Editore (“Mi togli le parole dal congelatore dei pensieri/ e scendi nella vita brulicante delle cose:/ mi dici lascia i divani filosofici, i pollai/ sterili dei poeti…”). E sono anche le “lucciole” che ricorrono nella stessa raccolta, dove scrivi: “Un giorno questi libri resteranno chiusi/ in un angolo della casa, senza padrone -/ ma non il tuo campo di grano/ non il cielo stellato, non il vento tiepido sull’erba”. Sono queste le cose da cui la poesia può trarre ispirazione?  

Se la poesia si chiudesse sui libri, si risolverebbe in un grazioso gioco alessandrino (con tutto il rispetto per questa poesia). Come in ogni discorso umano, anche nella poesia è alto il rischio di chiudersi in un circuito autoreferenziale, non di rado sospinta da specialisti che, in buona o mala fede, sostengono ipotesi interpretative ispirate ad acrimoniose analisi formali. La poesia, certo, è forma, ma è anche vita. Spirito, oserei dire. C’è qualcosa di inafferrabile in essa che la fa scivolare lungo la storia e sopravvivere, meglio di tanti altri (o forse di tutti i) discorsi, arrivando fino a noi. Sì che possiamo leggere anche il Cantico dei cantici come se fossero poesia nel senso moderno, là dove era inno nuziale, e ci commuoviamo ancora ad ascoltare, dopo settecento anni, le parole di Francesca a Dante nel V dell’Inferno. Bene tutte le analisi retoriche sulla struttura dei versi e l’impiego della figure retoriche, sulla ricorrenza dei suoni, sulla tessitura metrica, e così via; ma vi è altro, che neanche io so, e si fatica poco a dire che non lo sa nessuno. Oggi, sollecitati dal progresso degli studi neurocognitivi, si parla molto, senza alcuna timidezza, di un livello di percezione emotiva cui la parola della poesia attinge. Bene anche questo, ma il mistero (se così vogliamo chiamarlo) persiste. Se io lo conoscessi non scriverei poesie, e proverei ad emulare invano Benedetto Croce che, in un bel tomo di trecento pagine, La poesia, riuscì a quadrare il cerchio. Ma ci riuscì proprio perché non era un poeta. Chi scrive versi non lo sa. Ci ragiona, sì, ci riflette, avanza delle ipotesi, e intanto semina versi, in cui non cessa di distrarsi (e fa bene) dalla “forma”, e si sporca di quanto, pure in maniera effimera, popola la sua esistenza, si contamina del mondo. Non mi riferisco all’attenzione per le solite piccole o meno piccole cose, ma al riconoscimento che chi scrive ha, istintivamente, per quella “cosa” (ma sarebbe meglio dire “roba”, rubando questa parola a una poesia di Tonino Guerra) che si chiama vita e che nutre biologicamente la testa e la mano di chi affronta il foglio bianco. Vita che, possa consistere essa di uova fresche, lucciole o fruscii di foglie, è irriducibile a ogni definizione. È evidente che Dante non scrisse la Divina Commedia per provare a se stesso quanto fosse bravo nell’usare la terza rima rispetto a quanti lo avevano preceduti, ma perché aveva qualcosa di importante da dire sulla vita, sulla sua e sulla nostra. 

Non c’è solo ironia nei tuoi versi e gusto per la “vita brulicante delle cose”. C’è anche molta malinconia. Direi quasi nostalgia, nel senso del “nostos”, che si accompagna alla consapevolezza della nostra “finitudine”. Cito nuovamente alcuni versi de “La casa dei venti”: “Viaggia e qualcosa lo divora:/ l’aria in faccia un ricordo un verso./ Ma lui insiste, scrive ancora [….]”; “Padrone in lungo e in largo del suo deserto/ di ogni piega o vena di verità che lo ha piagato/ […] muove la penna come un lento aratro.” Qual è il nesso tra sentimento di finitudine e poesia? 

Non la morte, ma la finitudine, hai colto bene. La morte esiste ma è solo uno stato dell’essere, uno stadio della vita, una apparente non-vita che porta – secondo alcuni – a un’altra vita, altrimenti a un’altra forma della materia organica in cui le nostre funzioni fisiologiche sono riassorbite dalla terra cui apparteniamo (in fondo homo viene da humus). Anima o concime? La risposta è aperta. Quello che è sicuro è che la morte è un nome della finitudine, un suo passaggio (“…quanto piace al mondo è breve sogno”), non uno scandalo (il vero scandalo è l’ingiustizia dell’uomo contro l’uomo). Ma viviamo in una società in cui parlare della morte, e immaginare che tutto possa finire da un momento all’altro, sembra di cattivo gusto, così come lo è accettare la vecchiaia, e non per ragioni banalmente scaramantiche o di etichetta, bensì perché dobbiamo avere sempre qualcosa da dimostrare: forse di essere indefettibili consumatori, invece che esseri umani. Ovviamente, la parola della poesia – della migliore poesia – è quella che non si sbriciola in un mondo ridotto a magazzino (purtroppo oggi è la posizione minimal di tanti giovani e meno giovani autori), ma tenta di riagganciarci, senza chiudere gli occhi davanti alle cose di cui è fatta la nostra vita, a un orizzonte più ampio, al ciclo di quell’Essere contro il quale si abbatte, con la tracotante opulenza di un ideale di “benessere” occidentale, l’Avere. Probabilmente la “finitudine” è solo un postulato di quest’Essere cui tentiamo di sottrarre la nostra vita fermando sul corpo i segni dell’età, potenziando o aggiornando la nostra mente così come si fa con un computer destinato all’obsolescenza. Dire che tutto finisce non significa spassiamocela finché possibile, ma diamo il meglio se vogliamo che qualcosa dopo resti.

Mi piace finire con queste tue parole: “Un giorno arriva il vento e cala il sole,/ di tanta fatica qualcuno ricorderà l’amore”. In fondo, amare (qualcosa, qualcuno) è non risparmiarsi. E se si è davvero amato, il segno rimane. È questo il tuo augurio?

Certo, amare è un dono assoluto, e affatto non programmabile. Mi ha sempre lasciato perplesso leggere quel verso di Dante “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” alla luce di qualche trattato di bon ton medievale, per cui chi si sente amato non può non ricambiare. Non mi pare che capiti spesso, per non dire mai. Amare implica sempre, sin dall’inizio, una dissimmetria. È un dono perfetto, ed è assimilabile al “perdono”: tu mi fai del male, e io ti perdono; quindi, tu non senti niente per me, ma io ti amo. Troppo facile dire (e lo diceva anche Cristo): siccome tu mi ami, ti amo anch’io. Amare a prescindere, senza attesa di un compenso, e non per un vano senso del dovere, o per narcisismo da benefattore, ma perché non c’è altro da fare se si intende affrontare la “finitudine”, non come una questione privata, ma di genere (cioè di genere umano). Vuoi risolvere i tuoi problemi? Ama l’Altro: nel suo volto troverai il tuo.

*

Cinque poesie:

Io è il sentimento mortale di queste pagine.

Non lascia di sé figura né volume, ma un incrocio

di linee in fuga del paesaggio che lo innerva.

Tante braccia protese a saluto.

Si slancia in loro, si consegna all’angelo

caduto senza pietà nel mondo

e dopo la resa non ne conserva più traccia.

Io lascia dietro di sé una voragine.

Padrone in lungo e in largo del suo deserto

di ogni piega o vena di verità che lo ha piagato

di ogni zolla nuda o tronco arso e divelto

muove la penna come un lento aratro.

Un giorno arriva il vento e cala il sole,

di tanta fatica qualcuno ricorderà l’amore.

da “La casa dei venti” (Il Vicolo Editore, 2018)

*

A una carrucola

Tenera membrana del pozzo,

nebbia delle mie brame,

cala il secchio sporco di vita e tira

su quella parte di me più pulita

laggiù sommersa,

spalanca lo specchio:

quello che leggi, rovescialo.

Finalmente fuori,

più liquido e storto

in quella nebbia di mai,

più buio e vecchio

se un giorno ci tornerai.

da “La casa dei venti” (Il Vicolo Editore, 2018)

*

Per una clivia

a Anna B.

Un tempo, per la tua clivia avrei scritto una poesia.

Ora non ricordo più le sue parole

tanto leggere erano da non sembrare vere.

Un tempo la tua clivia si affacciava timida a un balcone

ma non troppo al sole, e ti aspettavi che morisse

da un giorno all’altro, ma non eri triste

perché è naturale, così la vita vuole.

Un tempo la tua clivia mi ricordava Clizia.

Oggi non so che fine ha fatto, in quale città

se di colli o di mare, quella pianta si affaccia

annusa l’aria e il tuo sguardo, e se bacia

d’un fiore rosa o giallo la tua felicità

senza parole, o sogna un’altra occasione.

Oggi non so che cosa finisce e cosa inizia.

da “La casa dei venti” (Il Vicolo Editore, 2018)

*

Uova fresche

Perché mi chiedi mentre ti parlo dei massimi sistemi

se mi servono uova fresche?

Mi togli le parole dal congelatore dei pensieri

e scendi nella vita brulicante delle cose:

mi dici lascia i divani filosofici, i pollai

sterili dei poeti… hai un ricordo di quelli veri?

È la pazienza delle stagioni contro la noia degli umani.

da “L’anima o niente” (Il Vicolo Editore, 2020)

*

Perduta chi sa dove

 a Anna

(au fond d’un petit café enfumé, mal éclairé)

Un giorno su quest’isola il vento cadrà beffardo.

Porterà sabbia sui vestiti e il mare

restituirà una schiuma di parole rotte dalle onde.

Porgerai l’orecchio: neanche una brezza dal molo,

nessun frullo di correnti, solo silenzio.

Fumare una sigaretta sarà una cosa vecchia:

la tua ‘ultima’ volerà via come una foglia secca.

Su quest’isola, qualcuno un giorno troverà macerie,

gli stagni asciutti, un pozzo che scende

nel cuore stanco di una civiltà perdente.

Su quest’isola nessuno parla più la lingua di un tempo,

anzi nessuno parla più, resiste qualche ombra

appesa a un chiodo come ricordo di un altro mondo.

Su quest’isola ti avrò aspettata a lungo.

Come una soglia fra noi che il tempo nasconde

quest’isola dona ai fantasmi un’altra vita:

chi vi approda cerca l’eternità in un giorno

chi salpa lascia ogni illusione sulla battigia.

O forse era già tutto deciso in quel fondo di caffè

(“cercando un’isola, ho trovato te…”),

ma era l’ultima reliquia, non un nuovo orizzonte.

da “Cercando l’isola” (Fiorina Edizioni, 2017)

*

Nota biobibliografica
Salvatore Ritrovato vive e lavora a Urbino dove insegna letteratura italiana contemporanea all’università e scrittura creativa all’accademia di Belle Arti. Poeta e critico, quest’anno ha pubblicato la plaquette L’anima o niente (Il Vicolo, 2020) e la monografia La poesia e la via. Saggi sulla letteratura e la salvezza (Fara, 2020).

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