Intervista ad Alfredo Rienzi, di Raffaela Fazio



Alfredo, iniziamo da qui: secondo te, il limite della poesia è la sua forza (o può diventarlo)?

Per rispondere dovrei avere ben chiaro cosa posso considerare come “limite” della poesia e forse anticipare una qualche definizione, fatalmente soggettiva, ma, per brevità, mi concentrerò su due aspetti. 

Il primo è intrinseco: la poesia, con la sua necessaria densità e concentrazione verbale e semantica si fa carico di una rappresentazione del mondo incompleta, frammentaria, parzialissima rispetto alle possibilità della prosa e della saggistica. Ma nell’equilibrio, secondo me necessario e inevitabile, tra il detto e il non detto si incontrano, appunto, i limiti e le potenzialità del verso. Il non-detto richiede confidenza con il silenzio, con il pre-verbale, con il secretum intuitivo. Apre porte, spiragli, prospettive (più delle altre forme di scrittura), che offrono ad ogni lettore (ogni ascoltatore del non-detto) il proprio angolo di visuale. In una realtà orfana, per sua stessa natura, del Vero, l’offerta e la convocazione nel testo di verità plurali ne può quantomeno richiamare l’esistenza, offrire un percorso d’avvicinamento.

Se, invece, consideriamo il limite contestuale e contemporaneo della marginalità della poesia, credo che il suo restare defilata dall’orizzonte commerciale e dal condizionamento del mercato (o anche solamente dai “pubblici onori”), pur risultando doloroso e frustrante per molti, sia soprattutto una forza. La purezza dell’intenzione ha valore incommensurabile e quando questa viene meno, credo venga meno anche la forza della poesia. 

Tentando una definizione al negativo di poesia, c’è qualcosa a tuo parere che la poesia non è?

Ben venga che tu mi chieda una definizione in negativo, perché quella in positivo mi avrebbe colto, come sempre, incerto, non ritenendo esaustive le facili definizioni tecnico-formali e/o, d’altro canto, quelle “sentimental-emozionalistiche” (proprio ieri sera leggendo E.A. Poe mi sono imbattuto nel suo precetto di “eccitazione attraverso l’esaltazione dell’animo”: quante definizioni “in positivo” sono state date?)  In un mio brevissimo pensiero – “(In)definizione della poesia” – sono arrivato, provocatoriamente a scrivere: “Non riusciamo a definire precisamente l’intelligenza, l’amore, la salute e la malattia, la terza e la quarta età. E neppure la vita e la morte. Figuriamoci la poesia! Accontentiamoci di farlo per una sedia, un piatto, un ago, una pietra, un cespuglio. Il che […] comunque non è cosa di poco conto”. Tra gli sconfinamenti nei vari ambiti del non-poetico (ogni confine ne annuncia uno, non negativo, ma oggettivo, per esempio nel prosastico, nell’aforistico, nella canzone, nel ludoverbale eccetera) quelli che più mi mettono a disagio sono: quello verso la banalizzazione pop da bacioperugina e quello verso l’istrionismo da slam poetry, se si riduce al guscio guittesco.

Ho letto di recente una tua riflessione sul rapporto tra essere e apparire, e più in particolare “contro l’elogio”. Mi piacerebbe che tu ne riprendessi qui le fila e riproponessi qualche idea al riguardo.

È un aspetto personalmente molto sentito, quello dell’equilibrio tra il piacere dell’elogio e il disagio del biasimo, della critica. Ovviamente in tutti gli aspetti della relazione umana e fin dal nostro imprinting neuroaffettivo. Sarebbe un discorso molto lungo e articolato, gravato dalle distorsioni di un’epoca il cui la mercificazione dei prodotti – anche artistici – spinge all’approvazione, al consenso, al numero (che si esprima in voti, vendite, visualizzazioni, likes eccetera). Sto dicendo cose, credo, di una banalità estrema, ma volendo riferirmi al mio sentire rispetto alla creatività artistica in senso ampio, la ricerca troppo finalizzata all’approvazione dei molti può essere condizionante e atrofizzante. Non sto né vagheggiando né sostenendo l’immagine del poeta elitario, incompreso, che disconosce l’importanza della comunicazione e del lettore/fruitore, ma sento – forse proprio perché sensibile come molti all’elogio e al biasimo – che c’è un rischio, forte, nel determinarsi in base ai pareri favorevoli sul proprio lavoro poetico. Rischio di essere indotti a ripetersi, di addomesticarsi con gli zuccherini degli elogi. Forse anche per questo, quasi preventivamente, ho sempre cercato di cambiare molto, tra una raccolta e l’altra, così che gli eventuali giudizi potessero riguardare più le opere che l’autore, come ad alienare e distanziare le une dall’altro. 

Come si inscrive la tua scrittura nel quotidiano (tra impegni di lavoro e vita familiare)?

Un mio testo dice, banalmente, che “la nostra vita ha molte vite dentro”: ci sono state quindi le diverse stagioni: del giovane studente con praterie di tempo e di orizzonti, del massimo impegno lavorativo e familiare, dell’attuale lento ritrarsi (volontario) della marea degli impegni. In tutte queste fasi, non credo che la componente creativa e di scrittura sia variata molto per le dinamiche del quotidiano: la poesia a volte si dà come un lampo, a volte richiede un gran labor limae, ma il suo tempo lo può trovare sempre. Una recensione, un saggio (se non preconfezionati, quindi inutili), invece sono lavori che richiedono spazi e fatica. Ciò che invece ha sofferto, e ancora adesso è un po’ soffocato, è quanto viene prima (letture, studi, confronti) e dopo la realizzazione di un’opera o di un progetto (presentazioni, contatti, eventi ecc.). Ma sono convinto che se il tempo e gli impegni sono comunque fattori, quello più importante è sempre stato caratteriale: avessi potuto disporre di un’indole più volitiva, costante e ambiziosa, il tempo e gli impegni li avrei comunque governati. 

Ci sono raccolte pubblicate a cui tieni di più? O raccolte che è stato più difficile scrivere?

Un po’ ricollegandomi alla domanda di prima, e ai suoi rimandi alle fasi della vita, ogni raccolta finisce per assumere la stessa importanza in relazione al periodo che l’ha partorita. Posso però certamente indicare quella che è stata meno difficile, cioè Notizie dal 72° parallelo, coagulatasi quasi senza intenzioni dopo un decennio che pensavo fosse di inattività; raccolta ritenuta da me raccogliticcia e testimone del fallimento di darmi a un definitivo silenzio e che però ha avuto una buona accoglienza e un po’ ha riequilibrato il mio conflitto tra il dire e il tacere, tra il fare e il mostrare. Considero la mia prima vera raccolta Oltrelinee, del 1994, ancora oggi accettabile. Simmetrie, del 2000, mi è costata moltissimo in termini di sorveglianza e di rigore architettonico, al punto che nella successiva Custodi ed invasori (2005) ho avuto bisogno di concedermi slarghi e sperimentazioni, che me ne hanno reso la stesura gratificante. Partenze e promesse. Presagi (2019) è, invece, stata concepita come importante, complessa, forse ambiziosa e, in effetti, più impegnativa. Ne sono abbastanza soddisfatto, ma ora – come spesso capita nell’immediato o quasi – faccio fatica a leggerne, a ritrovarne tracce di vita. Dovremo soffrire ancora un po’ prima di riappacificarci reciprocamente. 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Il progetto, secondo me, è sempre successivo a una intenzione o a un desiderio. Non sempre questi raggiungono intensità tale da generare un vero disegno e spesso languono in quella terra di mezzo tra il vagheggiare e il realizzare. In sintesi: mi piacerebbe avere più tempo e costanza per leggere e aggirarmi, magari con l’intento di scriverne, tra le sterminate pagine di letteratura e poesia che non ho mai potuto o saputo avvicinare: da qui potrebbe nascere qualche progetto di scrittura saggistica che per ora non ha però nemmeno contorno. Sul versante poetico quest’anno dovrebbe essere pubblicata l’ultima raccolta, ormai quasi conclusa, “Sull’improvviso”, cui forse affido, attraverso una stanchezza della parola, qualche minima dichiarazione di poetica. Una breve silloge dal titolo “Di sesta e di settima grandezza” sarà anticipata sul Quinto repertorio di poesia italiana contemporanea, come premio editoriale di Arcipelago Itaca, ma la raccolta completa è affidata al Premio InediTO che entro l’anno ne concorderà la pubblicazione con qualche editore selezionato. Nel frattempo vivo in quell’interregno, aureo da un punto di vista creativo, dove ogni qualsiasi verso può essere libero di farsi e disfarsi, circolare e depositarsi, essere embrione e germoglio, senza ridursi a mattoncino di case-raccolte che quando sono in fase avanzata di costruzione tendono a imprigionare ogni nuovo verso e fagocitarlo.

***

Cinque poesie:

Un ignavo rivede la propria fine

Non ci fu volontà in mezzo al fiume

le acque erano placide ed opache

nel caldo di luglio, la sponda sabbiosa

mi parve indifferente tornare a riva

o lasciarsi portare dalla liquida mano:

e l’una e l’altra parola chiedevano

di essere pronunciate, nella scelta:

ma il vero ignavo fino in fondo resta

equidistante: né dramma né commedia

fu assecondare i flussi sonnolenti…

Non ebbi certo volontà di morte

ma credo sia stata la vita, offesa, a ritirarsi

*

Julius, volgendo le spalle alla nave

«Che tu possa piangere come un violino

Ridere come petalo toccato dal raggio»

(L. Ionas)

Sto infisso nella terra

– di chiodi e arbusti, ibrida semenza –

nell’armatura esigente del mio soma

con i quindici o i cent’anni che espongo

secondo il vento o il luccichio dei fiori

nel lampeggiare d’un settembre caldo

come non ne ricordo negli ultimi trent’anni.

Sta suo malgrado intorno a me la vita.

*

Si torna dove si è già stati

Sono tornato ad esplorare la vita

– avvolto dal manto d’oro del leopardo –

l’anello perfetto, il ciclo d’ogni cosa:

molto è cambiato dopo l’onda del pianto

ma, ancora, ho in me la perla e il macigno,

nel passo la fibra palpitante al balzo

e la parola che, detta, si dissolve.

Si torna dove si è già stati.

I luoghi sono infiniti, i giorni,

ora, grappoli diradati. 

Ritrovare l’orma è dono inatteso

quella di chi ci accompagnò è stria

d’ala tra neve e pietra.

Mi dici: il monte si è fatto più alto:

so invece d’essermi fatto io più piccolo.

*

Una differente origine del giorno

Una differente origine del giorno

è ancora possibile

è possibile, ancora

se infinita è la notte.

Schiere abitano l’arcipelago

prima del sole:

moltitudini in attesa

dell’iride bianca

di qua dal guscio di Oort.

*

(inedito)

Un respiro improvviso spostò i rami

alti, l’imbroglio astuto delle foglie

qualcosa s’intravide, nel ritaglio cobalto:

uno sfarfallio. O una scheggia, 

l’ala boschiva dell’astore o solo

semplicemente un raggio di sole

Semplicemente? mi irridesti, incredula

Il vento era cessato, il cielo già richiuso

***

Alfredo Rienzi (Venosa, 1959) vive dalla prima infanzia nel torinese. Ha pubblicato diversi volumi di poesia, da Contemplando segni, silloge vincitrice del X Premio Montale, in 7 poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1993, Pref. di M.L. Spaziani) fino al recente Partenze e promesse. Presagi, (puntoacapo Ed., 2019). Alcuni volumi (Oltrelinee, 1994, Simmetrie, 2000 e Custodi ed invasori, 2005) sono in parte confluiti ne La parola postuma. Antologia e inediti. Ha tradotto testi da OEvre poétique di L. S. Senghor, in Nuit d’Afrique ma nuit noire – Notte d’Africa mia notte nera, a cura di A. Emina (Harmattan Italia, 2004) e pubblicato Il qui e l’altrove nella poesia italiana moderna e contemporanea (Ed. dell’Orso, 2011. È inserito nell’Atlante dei poeti dell’Università di Bologna e presente in numerose antologie critiche nazionali.

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