Intervista a Giovanna Rosadini

di Raffaela Fazio

Giovanna, come e quando è nato il tuo amore per la poesia?

Direi annusando le librerie di casa, fin da piccola. Saggiando i volumi, aprendoli e sfogliandoli, trafugandoli in camera mia… La grande appassionata di letteratura, in casa, era mia mamma: ricordo la successione ritmica dei dorsi dei libri einaudiani, quelli bianchi di narrativa e poesia, ma anche gli arancioni dei saggi, e poi la veste di un tempo, color carta da pacchi, dello “Specchio” mondadoriano… da Cardarelli a Fortini ma, soprattutto, Montale. Indimenticabile l’impatto che ebbe, su di me adolescente, un’edizione nei “Supercoralli” delle poesie di André Breton: la scoperta del potere dell’inconscio tradotta nel dettato automatico, una meraviglia, e la continua sorpresa di immagini e accostamenti sinestetici inediti, pura energia. Ma determinante è stato il regalo di un piccolo e prezioso libretto di poesie di Federico Garcia Lorca, “Cinque lire di stelle”, ricevuto a dieci anni da un giovane amico che abitava nella grande casa rosso mattone con cui confinava, a Genova Nervi, la nostra proprietà. La poesia come elemento relazionale, come scambio nell’ambito di un legame di amicizia (come forma di comunicazione elettiva) nasce per me da quel dono, un concentrato di freschezza e fantasia espressive (“Mi hanno portato una conchiglia. //Dentro ci canta/un mare di mappa. / E il mio cuore/si riempie d’acqua/con pesciolini d’ombra e d’argento.”).

Cosa pensi di questi due binomi: dolore-poesia e poesia-solitudine?

Trovo l’accostamento dei due termini (dolore e solitudine) nella stessa domanda non casuale. Indubbiamente, la solitudine è il prerequisito principale perché si possa verificare quell’ascolto interiore necessario, soprattutto per quanto riguarda la lirica, che è il genere di gran lunga predominante, all’elaborazione poetica. Peraltro, credo che qualsiasi forma di scrittura o di arte germini dalla concentrazione che solo la solitudine può dare, per quanto fondamentali siano, in fase non operativa, gli stimoli esterni e il confronto intellettuale ed emozionale con gli altri. E spesso, ma non sempre, i nostri stati d’animo sono improntati alla sofferenza e al dolore. “L’angoscia suscita la bellezza” ha scritto Christian Bobin “come la domanda provoca la sua risposta. All’origine di un grande poema, di una bella musica o di un’architettura sacra c’è un’angoscia che si placa solo dandole forma, ritmo, misura”. La poesia, ma credo qualsiasi espressione artistica, permette di “oggettivare” i nostri contenuti emotivi, di cui possiamo essere più o meno consapevoli, e dunque, sovente se non quasi sempre, la sostanza del nostro inconscio. Che è per lo più oscura e problematica, e solo così possiamo fronteggiare. “You can stand anything if you write it down”, ha scritto Louise Bourgeois, e “Words put in connection can open new relations … a new view of things.” Ciò non toglie che anche momenti di grande pienezza e realizzazione esistenziale possano generare poesia, o arte in generale. Memorabile in questo senso un grande quadro di Picasso conservato nel museo a lui intitolato ad Antibes, intitolato “La joie de vivre”, di cui tengo come memento una piccola riproduzione sulla libreria vicino alla mia scrivania: la danza di un gruppo di figure, con una donna al centro, su una assolata spiaggia mediterranea, il mare sullo sfondo. 

Oltre alla poesia, c’è un altro aspetto del quotidiano (un’altra fonte) a cui attingi quando senti il bisogno di uno spazio “riconfortante”?

La dispensa con le sue riserve di cioccolato a parte, direi principalmente la musica. Se sono a Milano. Sincronizzarsi col suo ritmo significa riprendere contatto con le proprie pulsioni e slancio vitale. La presenza della natura però è importantissima, ma riesco a goderne realmente soprattutto nella mia casa in Liguria, dove c’è un piccolo giardino in cui non manca nulla: alberi, fiori, e un bel prato con tanto di merlo circondato da una siepe di pitosforo. Da lì, in estate, si possono vedere tramonti memorabili sul mare, e l’affaccio sul golfo mi riporta alla vista dalla mia casa dell’infanzia. Lo spettacolo del tramonto e del crepuscolo, osservato da una sdraio sotto il kumquat, riconcilia col mondo infondendo un senso profondo di comunione, e trasmette un senso di pace assoluta: a poco a poco si accendono le luci delle navi immobili in mezzo al mare, come sospese, e via via che si fa buio cominciano a brillare i puntini luminosi di stelle e pianeti… 

La tua scrittura è cambiata nel corso del tempo?

Direi proprio di sì. Il primo libro, “Il sistema limbico”, è stato il più sorgivo, quello con una maggiore freschezza di scrittura ed effusività scoperta… Subito dopo ho scritto la raccolta più meditata e complessa, “Il numero completo dei giorni”, che è stata però pubblicata in seguito a “Unità di risveglio”. A sua volta, quest’ultimo è un volume composito, la cui prima sezione è anteriore al mio incidente del 2005, e conserva ancora una certa densità compositiva, mentre dalla seconda sezione c’è un ripartire dal grado zero della coscienza e della scrittura, recuperando a mano a mano la mia cifra espressiva, con un crescente grado di elaborazione. Poi è arrivato “Fioriture capovolte”, dove mi pare di aver raggiunto una maggiore scioltezza e naturalezza espressiva… E infine, le stringhe prosastiche che chiudono “Frammenti di felicità terrena” inaugurando una nuova modalità poetica (perché la poesia non è data solo dalla scansione in versi, peraltro individuabile anche in un testo in prosa, ma pure dall’intensità e densità di scrittura, dal suo ritmo interno e dalla sua misura. Una piccola silloge in uscita per maggio/giugno da Interno Poesia (che si intitola “Un altro tempo”) continua questo filone, ritornando, da una maggior distanza temporale e da una riconquistata dimensione esistenziale, sulle tracce di “Unità di risveglio”. Se guardo all’intero arco temporale della mia produzione creativa non posso infine non osservare come il drastico cambiamento della gestualità legata allo scrivere seguito all’incidente ha influito notevolmente sui contenuti della mia poesia: se prima la scrittura era manuale e molto veloce, e i versi arrivavano di getto come una scarica elettrica (o, per dirla alla Patrizia Valduga, “una pisciata”), ora che sono costretta a usare il computer scrivendo praticamente con un dito solo questa immediatezza si è perduta, a scapito dei cortocircuiti semantici e delle folgorazioni intuitive: la scrittura ha un andamento, tutto sommato, più lineare. 

Puoi parlarci brevemente delle raccolte a cui tieni di più?

Ogni libro è un po’ come un figlio, ciascuno, come detto sopra, ha una sua peculiare significatività legata alla stagione della vita che rappresenta: impossibile scegliere. Ad oggi tuttavia credo di aver raggiunto un pieno compimento, nel senso di vertice espressivo, con “Il numero completo dei giorni”, pubblicato per Aragno nel 2014 e ripreso, per intero, nell’autoantologia “Frammenti di felicità terrena”, pubblicata nella collana “Gialla oro” da LietoColle/Pordenonelegge nel 2019. Ma penso di aver declinato in ciascun libro una parte di me stessa, come ho esemplificato rispondendo alla domanda precedente, nell’arco di un percorso mi auguro evolutivo. A volte rimpiango la semplicità e l’istintività del primo libro, “Il sistema limbico”, o la composita stratificazione del secondo, “Il numero completo dei giorni”, o la capacità di trasfigurazione della sofferenza di “Unità di risveglio; poi però mi viene in mente la densità immaginifico-evocativa di molti dei testi di “Fioriture capovolte”, come “Respiro nel respiro, ascolto la notte.”, o l’esattezza della gioia trasmessa dai “Frammenti di felicità terrena”, e mi dico che finché avrò necessità e piacere di scrivere i miei versi avranno un senso, per me e per chi li legge e leggerà.

Dal tempo presente, è possibile trarre qualcosa di utile per il futuro a tuo parere?

Immagino che la domanda identifichi il “tempo presente” con la situazione di pandemia che stiamo attraversando. Ebbene, certamente sì. Abbiamo dovuto rivedere e riformulare la nostra progettualità e il nostro senso delle priorità, imparando a semplificarci la vita emendandola dal superfluo. Per noi, cittadini delle società contemporanee postbellicche occidentali, regno dell’abbondanza e del possibile, è stato uno choc imprevisto, ma ha anche, forse, dischiuso la possibilità di vedere e di capire che si può fare a meno di molte cose, che si può vivere con meno e più semplicemente. Un po’ come l’austerity dei primi anni Settanta, che ci fece riscoprire il piacere di andare a piedi o in bicicletta, durante il primo lockdown abbiamo ritrovato, nelle nostre città, la bellezza del silenzio interrotto solo dal cinguettio degli uccelli, e il sollievo dato dall’azzeramento dell’inquinamento… chi non ricorda le terse giornate, l’aria fatta più fine della scorsa primavera, a Milano? Certo non si poteva uscire, ma chiunque avesse un giardino, terrazzo o balcone non li ha mai usati tanto come in quel periodo, e le finestre potevano aprirsi al sole anche nelle vie solitamente intasate da traffico e fumi di scarico… Credo che in tutto ciò abbiamo acquisito nuove consapevolezze di cui faremo tesoro, e forse nuove abitudini. Fare di meno, fare ciò che è necessario. D’altra parte, lo stato di isolamento e deprivazione sociale in cui ci ha posto, col susseguirsi dei lockdown, l’emergenza sanitaria ci ha fatto capire in primis il valore e l’importanza delle relazioni umane in presenza, e di quale nutrimento emozionale e affettivo siano portatori i gesti fisici, il toccarsi, l’abbracciarsi, il baciarsi… Il valore del corpo, dei corpi, che sono diventate chiuse monadi spente. E poi, improvvisamente, il senso di sospensione del tempo, e, venuta meno l’abituale frenesia delle giornate, il senso di vuoto: ma, come ha scritto Niccolò Nisivoccia in un recente libro su questo tema: “Occorre un vuoto al senso; ed è in questo stesso vuoto il mistero delle cose. Ma non è il mistero delle cose a dover avvicinarsi a noi: siamo noi a dover lottare per scardinarlo.”

Cinque poesie:

Sbocciami al tuo tocco 

percorrimi i nervi del pensiero 

vigile agli sguardi 

gli spessi filamenti del cuore 

ogni singola giuntura irrigidita 

dall’attesa, ogni fibra 

insisti, premi sulle resistenze 

che si scioglieranno 

sfarinami al tuo setaccio 

ospite inatteso 

inquilino abusivo 

nelle mattine che governano il mondo 

ritroveremo la stagione chiara 

del respiro, andremo a tempo.

***

L’ultimo ricordo è la tua voce,

prima che tutto si confonda 

e poi sbiadisca, in controluce;

dopo c’è stato un volo nella notte,

un tuffo dentro l’acqua più profonda,

lo scivolare netto dove l’ombra inghiotte

l’aria, e l’onda è un vortice che spiomba…

Mentre ogni cosa rimbomba per voi 

che rimanete, a custodire il corpo inerme

chiuso nel silenzio e nell’assenza, 

ormai slacciato da ogni appartenenza…

***

Cage within a Cage

Quest’inizio c’è già stato, molto tempo 

fa: vuoto sospeso dentro un altro vuoto, 

riecheggiata eleganza del gioco – muovendo 

dall’informe scuro e roco. Un mondo 

è germogliato sui rifugi, nominato foglia 

a foglia, stella a stella, sostanza sillabata,

fatta piena – parole accorse a dare forma, 

materia germinata, vita moltiplicata sopra

la traccia di un’altra vita, membrana sbiadita

fino al nulla e rinverdita. Quest’inizio parla

una lingua riesumata, fissata nell’eterno

istante in cui è già stata pronunciata –

eternamente prossima ad essere dimenticata.

***

Non può che essere così: generare, legare, 

esporre, esporsi: accogliere la morbida 

potenza del ramo che si allunga, la radice

che affonda in cerca d’acqua, l’intreccio,

la risonanza, la saldatura, l’urto delle cose;

scoperchiarsi al fulmine in arrivo, lasciarsi

spogliare dalla pioggia, invadere dal mare…

Germogliare, sapendo di poter illividire.

***

Scrivere è un ritorno – innesco che apre voragini

di senso, un andare disarmati incontro

ad ombre infestanti e guerriere. Scrivere

è il gesto che consuma l’attesa, e porta ai confini

di un’eco dimenticata, di una vita forse 

prigioniera fra lamiere, e ancora sconosciuta.

***

Nota biobibliografica

Nata a Genova nel 1963, Giovanna Rosadini si è laureata in Lingue e Letterature Orientali all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia.  Ha lavorato per la casa editrice Einaudi, come redattrice ed editor di poesia, fino al 2004, anno in cui è uscito, per lo stesso editore, Clinica dell’abbandono di Alda Merini, da lei curato. Ha pubblicato la raccolta Il sistema limbico per le Edizioni di Atelier nel 2008, e altri testi poetici in riviste e antologie collettive. Nel 2010 è uscito Unità di risveglio, per la Collezione di Poesia Einaudi. Per lo stesso editore ha curato l’antologia Nuovi poeti italiani 6, del 2012. La sua terza raccolta poetica, il numero completo dei giorni, è stata pubblicata da Nino Aragno editore nel 2014. A maggio 2018 la pubblicazione di una nuova raccolta, Fioriture capovolte, ancora per Einaudi editore, Premio Camaiore, cui ha fatto seguito, nel luglio 2019, l’autoantologia con inediti Frammenti di felicità terrena, edita nella collana “Gialla oro” di LietoColle /Pordenonelegge, Premio Merini. In uscita a primavera, per i tipi di Interno Poesia, la silloge “Un altro tempo”. Vive e lavora a Milano.

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