Poesia italiana del XXI secolo

Loriana d’Ari è nata e vive a Genova nel 1979, dove lavora come psicoterapeuta. Ha pubblicato su diverse riviste e blog letterari, e ricevuto riconoscimenti in occasione di vari concorsi, tra cui il premio Gozzano, Bologna in Lettere, Poesia di Strada e la segnalazione per la raccolta inedita al Montano. La sua silloge d’esordio, silenzio soglia d’acqua, è risultata vincitrice del VI premio Arcipelago Itaca per la raccolta inedita (opera prima).

che mi attrae è la colla del niente

nell’eterna spirale o moto alterno a

diffrazione del bianco: un alveare

di creature nate a morire.

qui per sempre vorrei danzare

con la pelle aderente al vero, tesa

nella pienezza della resa

*

nel transito alla goccia, il chicco di grandine allenta

la scorza della dura lattescenza. non rimpiange

il confine, tutto quel che trattiene lo cede

in cambio di un po’ di calore

*

dei vivi e dei morti

 

ecco le povere cose, gli esili resti.

nel disarmo i coltelli feriscono

da ogni lato.

qui la colpa è uno scavo di rotule

nel fango, la spola

dei vivi tra gli opposti schieramenti.

quanto ai morti, indugiano

anche loro, da quando è slittata

la soglia non sanno più

dove cadere

*

Parola poetica difforme quella di Loriana D’Ari, dalla natura lancinante, magmatica che si addensa nelle polarità del tragico in cui depositi di rifrazioni dolorose, memorie offuscate di formazione fetale e di decomposizione mortale, sedimentano in una componente linguistica fluida, affannata appena dietro il nodo di un dolore senza possibile via d’uscita. L’oggetto luttuoso della rappresentazione, nella sua alterità sempre fuggevole di “bolla che si sfrangia”, punta a riunire la sua anima sparpagliata in “un grano di buio” e riesce in questa partitura di testi, come nel corpus integrale Dei vivi e dei morti da cui sono tratti, a tematizzare l’indicibile, per rintracciare un senso provvisorio proprio dove, nella sua integralità, non può essere riconquistato, perché orrendo e impossibile da metabolizzare. In questa tensione percettiva, ipostasi di un dolore individuale e soggettivo dell’Io, in cui “…coincidono/ ombre e contorni…”, si colloca dunque la forza poetica dello spaesamento percettivo di Loriana D’Ari, la cui matrice strumentale non edifica certezze, piuttosto solleva dubbi, collocando l’esistenza stessa in un mondo inatteso in cui penzolare nel vuoto dei giorni, seguendo la miracolosa trasparenza di verità essenziali rapprese in una sonata su una corda sola, nella quale galleggiano debordanti le vestigia di una catastrofe. Dietro l’infinito invalicabile di un lessico volutamente antilirico, che tenta di penetrare dentro “…un alveare/di creature nate a morire…”, si cela una parola inquietante e traumatica, che schermata da un’apparente compostezza, fa intuire la presenza del disordine sottostante: “…ogni strada è un attrito di spine/quando i piedi non sanno posare/a terra…” E infatti, la realtà appare corrosa, scalfita, abrasa, screziata, logorata, scheggiata; domina in essa l’oscurità misurata di un dolore in cui spesso le presenze umane mancano, dove prevale, piuttosto, lo spazio della casa abitato dagli oggetti della lontananza, fisica e mentale: “ecco le povere cose, gli esili resti.”. Questa volatilità della dispersione, questa fluidità di corpo difettoso, incistato nella sua fallibilità e fragilità di “dissolvenza nella scia dei passi” finisce, inevitabilmente, per trovare specchio in quello stesso tessuto dolente che si ostina a distruggere“…in monconi di ali contratte/nello sforzo di non tracimare…”. (…) Una poesia dunque quella di Loriana D’Ari in cui si genera una mescolanza impura, che ha la forza di divenire impulso illimitato verso l’inviolabile riserva della solitudine, separando i nodi magnetizzanti della ragione, rivelandone la realtà tragica, per strappare all’oscurità ciò che si nasconde oltre le contraddizioni e le ferite della quotidianità.

(Antonella Pierangeli)

 

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