Marco Scalabrino, “Giovanni Formisano”

Ogni tantu pinsati a stu pueta
di Giorgio Morale

Una impressione di lettura, una nota biografica, qualche giudizio critico, una piccola antologia poetica di Giovanni Formisano, un invito all’ascolto.

Nel racconto in cui Pierre Menard scrive a distanza di secoli il Don Chisciotte esattamente con le stesse parole, ma realizzando un’opera totalmente diversa da quella di Cervantes (Pierre Menard, autore del Chisciotte, in Finzioni), Borges evidenzia le questioni connesse all’interpretazione: tra queste la problematicità di ogni rilettura come tentativo di tornare indietro nel tempo e di rivivere un vissuto. Pensavo a questo rileggendo le poesie di Giovanni Formisano incluse nel volume omonimo di Marco Scalabrino pubblicato di recente in occasione del 50° anniversario della morte del Poeta (22 dicembre 2012). Poesie apparentemente così legate a una temperie culturale e addirittura – apparentemente – circoscritte in ambito regionale. Poesie che appartengono alle “Cose ormai sentite, e a sazietà risentite”, per parafrasare l’Alfieri, tanto da essere entrate nel tessuto linguistico siciliano, che è il massimo che si possa dire a indicare la profonda penetrazione di un autore.

Eppure, nonostante la pregnanza dell’impasse sottolineato da Borges, a ogni rilettura il vissuto che queste poesie suscitano è non meno forte. Sarà per la separatezza della lingua siciliana dalla lingua della comunicazione, che la conserva non consunta dal commercio quotidiano? O per la forza (e la dolcezza, e la ricca stratificazione) intrinseca di questa lingua, che si situa alle radici della lingua italiana? O per il carattere archetipico delle situazioni che appaiono in queste poesie, che, per quanto puntualmente collocabili nella società di appartenenza, esprimono tuttavia un sentire che prescinde dalle contingenze? O sarà, molto più semplicemente e in riferimento ai suoi meriti specifici, un effetto e una dimostrazione della classicità dell’autore?

Questo per dire la mia rinnovata commozione alla lettura di questi versi. Solo per fare qualche esempio, “Canusciu na paranza” ha la magia del dantesco “Guido i’ vorrei“, con l’incanto di quella luna liquida che ancora spicchiulia; “E nchiudi l’occhi e penza” ha una pensosità e una determinazione non comuni nella lirica italiana e che mi fanno pensare al Vallejo di “Ci sono colpi nella vita, così forti… Io non so!“; Mentri ca si’ a la scola dice una volta per tutte la tanta fudda che la figliola da sola allestisce in casa, che diventa a un tratto vuota durante la sua assenza; per non parlare della celebre “E vui durmiti ancora“, musicata in una sola notte da Emanuele Calì, che Sergio Sciacca definisce di “trobadorico deferente rispetto della signora amata” e a proposito della quale Santi Correnti cita un singolare fatto:

“Sul fronte della Carnia, durante la prima guerra mondiale, un giovane soldato siciliano intonò una canzone. Il silenzio che aleggiava dava voce solo alle note della mattinata. Al termine dell’esecuzione si sentirono le espressioni di apprezzamento degli avversari austriaci: non arrivarono a capirne il senso, ma rimasero incantati dalla bellezza della musica”

Mirabili sono tante altre poesie, dove a dispetto del tempo la musica ancora suona, dove ancora vivono gli affetti familiari e la natura partecipe in cui si rispecchiano, il senso di intimità de La me casa e la piena del sentimento nei casi sia lieti sia dolorosi della vita. Poesie che ancora parlano al presente e al contempo sembrano congiungere la raffinatezza della scuola siciliana al concreto sentire della produzione popolare.

Sia benvenuto allora questo volume di Marco Scalabrino, che ci restituisce la possibilità di un primo incontro con Giovanni Formisano. Il volume risulta prezioso per vari motivi. Scalabrino ricostruisce il contesto in cui operò l’autore, dalla straordinaria vivacità della vita culturale siciliana tra il 1880 e il 1920 al ripiegamento durante il ventennio fascista, alla rinascita e alla nuova effervescenza negli anni successivi alla Liberazione, di cui riferisce l’intenso dibattito culturale intorno alla poesia in siciliano.

Studioso attento della lingua e della poesia siciliane, Marco Scalabrino ci introduce inoltre alla bottega artigianale di Giovanni Formisano con considerazioni sull’aspetto metrico e sulle scelte lessicali dei suoi versi, evidenziando in essi la presenza di peculiarità del siciliano come il ricorso a vezzeggiativi e diminutivi o il raddoppiamento e la ripetizione di termini, ma al contempo notando un influsso della lingua italiana non solo nel vocabolario, ma anche nelle strutture linguistiche: tale è l’adozione di forme verbali al futuro estranee al siciliano. Marco Scalabrino non manca di individuare “qualche svarione” come soluzioni ortografiche discordanti e non conformità al siciliano: ma questo, commenta lo studioso, “capita persino nelle migliori famiglie“. La conclusione del volume è commossa e lasciata alle parole stesse di Giovanni Formisano: “Ogni tantu pinsati a stu pueta“.

Oltre a vari episodi, aneddoti e testimonianze utili a inquadrare il carattere dell’uomo e del poeta, il volume di Marco Scalabrino riporta una sobria nota biografica di Giovanni Formisano a opera di Antonino Magrì:

“Nacque a Catania il 24 ottobre 1878 da Lucia Platania e Davide Formisano, si diplomò al Tecnico Commerciale di Catania e svolse attività quale titolare di un negozio di edilizia sito in via Antonino di San Giuliano. Sposò Maria Polano di Cagliari e dal loro matrimonio nacquero Davide, Lucia e Alba. Fu vicedirettore del giornale satirico Lei è lario e scrisse anche per altri periodici, fra i quali Il Marranzano, Torcia a ventu, D’Artagnan, Po’ tu cuntu, eccetera. La sua poesia è chiara e limpida, dettata dal canto sincero dell’anima. Fu scrittore di canzoni siciliane tra le quali: E vui durmiti ancora, Luntananza, Taurmina, Prijeri persi, Varcuzza abbannunata, Lavannara, A me matri, Sirinata, Sacciu. Le sue commedie affrontano, in chiave satirica, temi sociali. E’ morto a Catania il 22 dicembre 1962.”

Riporta anche alcuni importanti giudizi critici:

Salvatore Puglisi: “Il vero poeta dell’amore, e in tutte le sfaccettature, della prima metà del Novecento catanese è da ritenersi Giovanni Formisano. Sin da suo esordio con Mennula amara del 1905, il Formisano si rivelò poeta setimentale, appassionato, schietto, ma anche amaro e, perfino, ironico. I temi da lui privilegiati sono quelli della poesia d’amore di tutti i tempi: l’esaltazione della bellezza ammaliatrice della donna amata, il duro cuore di lei, le indicibili pene  che ella procura al proprio innamorato non corrispondendolo, le schermaglie amorose, la gelosia, lo sdegno, l’odio e il disprezzo per una donna infedele… Il suo dialetto è semplice, immediatamente comprensibile e pressoché esente da ricercati arcaismi linguistici”

Sergio Sciacca: “Formisano ritrae la vita semplice, anzi, spontanea che non si pone intellettuali dilemmi, ma ama lo scorrere della stessa conformità delle cose…: il gesto ripetuto per secoli è accompagnato dalla profonda consapevolezza degli affetti… Idilli privi di svolazzi letterari, quadretti di vita quotidiana colti dal vero, attenzione per la dignitosa povertà dei protagonisti… Ma accanto alla tonalità dominante c’è una tonica che si lascia cogliere in tutti i componimenti: l’amore per la propria lingua; la lingua della quoridianità che rifugge dagli idiotismi e dagli arcaismi, ma è sempre pronta ad accogliere neologismi. L’amore degli animali è una delle note dominanti…, con estensione sentimentale alle cose, come ne La me vecchia casa, che acquistano anima e vivono nel ricordo dei giorni di vita che lì sono stati collocati. Ti prende un nodo alla gola perché sono i gesti di una quotidianità serena che vorresti fissare e che invece trascorre, sono gli affetti buoni che vorresti eterni… uomini e cose legati dal cuore, la vita e il suo ricordo annodati dal verso.”

Francesca Romana Puglisi: “Giovanni Formisano cantò il mondo affettivo dei siciliani: la famiglia, gli amici, la terra natia, con accenti sentiti, talora venati da pessimismo che sfocia nella malinconia; ma il superamento del dolore trova note limpide nel canto della speranza, trova accenti teneri nella musicalità dei versi. I suoi pensieri tradotti in poesia creano immagini nitide e schiette… Poesia che esclude circonlocuzioni, inutili perifrasi, contorsionismi linguistici, che rivela il suo stile di vita, la sua umanità, il suo sapere ascoltare la vita nelle sue manifestazioni… Caratteristica della sua arte fu di mantenersi aderente alla vita, perché quanto più verità ci sarà nell’opera d’arte, tanto più ci sarà poesia”

Luigi Pirandello: “… un poeta appassionato, malinconico, amaro, un vero e schietto e personalissimo poeta…”

Tra i meriti del volume, ancora uno, prezioso: una piccola antologia poetica di Giovanni Formisano, di cui riporto qui qualche assaggio vista l’attuale irreperibilità delle sue raccolte.

*

Piccola antologia poetica di Giovanni Formisano

E vui dormiti ancora

Lu suli è già spuntatu di lu mari
e vui, bidduzza mia, durmiti ancora,
l’aceddi sunnu stanchi di cantari
e affriddateddi aspettunu cca fora,
supra ssu balcuneddu su’ pusati
e aspettunu quann’è ca v’affacciati.

Li ciuri senza vui non ponnu stari,
su’ tutti ccu li testi a pinnuluni,
ognunu d’idddi non voli sbucciari
su prima non si grapi ssu balcuni,
dintra li buttuneddi su’ ammucciati
e aspettunu quann’è ca v’affacciati.

Lassati stari, non durmiti cchiui,
ca ‘nzemi a iddi, dintra a sta vanedda,
ci sugnu puru iù, c’aspettu a vui
pri vidiri ssa facci accussì bedda,
passu cca fora tutti li nuttati
e aspettu sulu quannu v’affacciati.

*

Chiddu ca fici Diu pri fari a vui

Lu sangu ccu lu latti li ‘mpastau
ccu na certa farina prufumata,
fici na pasta e doppu ci ciatau
ma visti ca non eruvu furmata.

Vi mancavunu l’occhi e si cunfusi
non putennuli asciari lu Misia;
pigghia du’ stiddi li cchiù luminusi
e vi fa ss’occhi pr’ammazzari a mia!

Vi mancava lu cori e, Puvireddu,
non putennulu asciari, chi cummina?
Pigghia na petra cuti e lu scarpeddu
e fa ssu cori pri la me ruina!

*

Ciatuzzu miu

Tu si’ arrivata nna l’età cchiù bedda
‘n cunfruntu a mia si’ ancora picciridda;
semu la strata dritta e la vanedda,
iù sugnu la nuttata e tu la stidda.

Tu si’ lu focu ardenti e iù l’astedda,
lu lumi ca s’astuta e la faidda,
sugnu lu chiantu e tu la risatedda,
sugnu la nuci e tu si’ la nucidda.

Tu si’ na rosa mmenzu na ciurera,
e iù sugnu l’ardica sularina,
sugnu lu ‘nvernu e tu la primavera.

Ti si’ la matinata quannu spunta,
lu suli ca s’affaccia a la matina
e iù sugnu lu suli ca tramunta!

*

Mentri ca si’ a la scola

Quannu ci manchi tu nna sta casudda
pari ca fussi vistuta di luttu,
si’ picciridda ma fai tanta fudda
e quannu manchi tu mi manca tuttu.

M’affacciu ‘n chianu e pari ca li ciuri
senza di tia cuntenti nun su’ cchiù,
mi pari ca non fannu tantu oduri
com’è ca fannu quannu ci si’ tu.

Mi pari ca lu suli a pocu a pocu
si va scurannu e perdi la chiaria,
pari ca tutti cosi nna stu locu
fussuru angustiati comu a mia.

Quant’è longu stu tempu e quantu dura
ddu tanticchedda ca mi stai luntanu,
javi ca ti ni jisti mancu n’ura
e mi pari ca manchi ‘n annu sanu!

*

Canusciu na paranza

Sacciu na paranzedda ch’è pittata
tutta di jancu nsina a lu spiruni,
l’arvulu è jancu, janca è la murata,
janca è la vela, jancu è lu timuni.
Havi na cammaredda ch’è quadrata
unni ci vannu appena du’ pirsuni
e na finestra chi guarda lu mari
unni la luna ci veni a jucari.

Nna ddi sirati quannu spicchiulìa
dda striscia longa chi pari d’argentu,
quannu duci lu mari murmurìa,
quannu a ‘n suspiru sumigghia lu ventu,
nna ddi sirati di malincunia
ca tuttu è duci e tuttu è sintimentu,
vurrissi jiri luntanu luntanu
pri girari ccu tia lu munnu sanu.

Sciota la vela, senza guvirnari,
sempri attagghiu a dda striscia di jancura,
jiri accussì spirduti pri lu mari
unni ni porta la nostra vintura.
Ddà nfunnu li jurnati sunnu chiari,
la nuttata non c’è pirchì non scura
e nna ‘n palazzu ccu tanti faiddi
ci sta la luna, lu suli e li stiddi.

Pri strata stassi sempri a lu to latu
guardannuti nna l’occhi e stannu mutu
e mi vivissi tuttu lu to ciatu
pri nsinu a quannu ca fussi sturdutu;
tuttu l’amuri miu malasurtatu
t’avissi a diri st’occhiu strabburutu,
t’avissi a diri, senza mai parrari,
tuttu lu chiantu ca m’à fattu fari.

E tu ccu ss’occhi toi funni e lucenti,
ss’occhi di sonnu, ss’occhi di malata,
m’avissi a diri, senza diri nenti,
tuttu l’amuri to nta na guardata,
m’avissi a diri li to’ patimenti,
tanti cusuzzi ccu ss’occhi di fata,
ca l’occhi suli li fannu capiri
pricchì lu labbru non li sapi diri.

E poi stanca di sonnu e di guardari
cadissi nna sti vrazza abbannunata
e la paranza smossa di lu mari
ti facissi di naca pri la strata
e lu sunnuzzu duvissi durari
nsinu ca speddi dda striscia ‘ncantata,
nsinu a dda casa ccu tanti faiddi
unn’è la luna, lu suli e li stiddi.

*

E nchiudi l’occhi e penza

Nna la vita ci su’ certi mumenti
quannu l’omu si nsonna ed è vigghianti,
basta ca nchiudi l’occhi e nna la menti
venunu suli tanti cosi e tanti
successi a tempu anticu.
Tanti picculi cunti, tanti sceni,
mumenti duci e amari,
palpiti, risi e peni,
tanti spini pungenti, tanti ciuri,
venunu tutti pari
comu na fudda nna la fantasia
di lu tempu ca fu
e nna lu cori scinni
comu na nustalgia
di lu passatu ca non torna cchiù.
Sti mumenti su’ brevi e sunnu duci,
durunu sinu a quannu
si sta ccu l’occhi nchiusi,
ma poi ca lentamenti
isi li pinnulara
ogni cosa scumpari di la menti
e fai ritornu nna la vita amara.
Nna li siri di luna
quannu spunta lu suli a matinata,
quannu si senti duci na canzuna
cantata di luntanu,
quannu lu suli si ni va a curcari,
na paranzedda a mari,
na stidda nica nica di lu celu,
‘n aciduzzu ca passa,
un ciuriddu vagnatu di lu jelu,
quannu c’è lampi e a chioviri accumenza,
su’ chisti li mumenti quannu l’omu,
sudd’è ch’è sulu, nchiudi l’occhi e penza.

*

Luntananza

O luna luna mi manni chiarìa
supra tuttu lu munnu e nna lu mari,
pri favureddu, ti ‘nsignu la via
di dui casuzzi e mi l’a’ salutari.

Nta na casa ci sta na vicchiaredda
chi fa quasetta sutta la lumera,
ntra n’autra casa na picciotta bedda
c’aspetta a lu so amuri e sempri spera.

Sti dui casuzzi ccu sti dui trisori,
sunnu a li faldi di ‘n munti ‘nfucatu,
a me Matruzza portaci lu cori
e a la me bedda portaci lu ciatu!

*

La me casa

Un balcuneddu a mari, a lu livanti,
e na finestra granni a lu punenti,
nna li mura ci su’ quadri di santi,
‘n lettu di ferru e ‘n tavulu cadenti.
C’è na cammira sula e li me’ canti
nasciunu ddocu e nuddu mai li senti,
lu mari vidi ca canta un malatu
e ccu l’unni sbrizzia lu purticatu.

Quannu mi sentu lu cori fistanti
grapu la me finestra di punenti
e li ciuri mi sboccianu davanti,
fannu festa ccu mia, sunnu cuntenti;
si sugnu in pena grapu a lu livanti
e lu mari mi manna li lamenti
ccu li lacrimi soi chini d’affettu
e l’acqua la sbrizzia supra lu lettu!

9 pensieri su “Marco Scalabrino, “Giovanni Formisano”

  1. marco scalabrino

    Ringrazio sentitamente Giorgio Morale e LPELS per avere ospitato il mio omaggio a Giovanni Formisano, nonché “quellochenonhodetto” per il suo gradito commento. A loro e a tutti un cordiale saluto, Marco Scalabrino.

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  2. Giorgio

    Sono io essere personalmente grato a Marco Scalabrino, di cuore, perché con il suo lavoro di analisi della lingua e della poesia siciliane mi permette di scoprire o riscoprire una cultura da cui mi sono allontanato prima di poterla conoscere o approfondire del tutto: e che contiene veri gioielli, come quelli qui riportati.

    Rispondi
  3. Grazia

    mi associo alle riflessioni di Giorgio e mi chiedo se non sia possibile pubblicare uno stralcio di questo testo con la poesia “E vui durmiti ancora…” nella nostra rivista di “Avolesi nel mondo”

    Rispondi
  4. Giorgio

    Grazie a voi, Marco e Angela!

    Poesie sono anche doni.
    Doni per le creature attente.
    Doni carichi di destino.
    (Francesco Marotta)

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