Lo spazio perfetto, di Raffaela Fazio

Dopo il lavoro, il venerdì, Francis non si univa mai ai colleghi. Aveva un’unica voglia: far girare la chiave nella serratura e chiudersi la porta alle spalle.

Anche quella sera. Entrò in casa, si spogliò, portò la posta nello studio. Con le dita tamburellò sulla parete, per sentirne la diversa risonanza. Dietro al muro c’era un’intercapedine che lo faceva suonare a vuoto in alcuni punti. Lui e suo fratello, da piccoli, si inventavano storie sulle anime che sarebbero rimaste prigioniere in quell’interstizio e non sarebbero più uscite. “Promettimi che non mi lascerai mai da solo se un giorno mi dovessi perdere nel vuoto tra i muri!” gli aveva detto ridendo Dorian.

Francis si fece una tazza di tè e si sedette sul divano. Chiuse gli occhi e tracciò mentalmente ogni angolo, ogni particolare dell’appartamento, che conosceva meglio dei suoi stessi lineamenti. Là dentro aveva i suoi puntelli, che soltanto lui avrebbe potuto spostare.

Era nato lì. Un giorno, però, non aveva più sopportato che fosse quella casa ad averlo partorito. Allora aveva deciso di ridarle, lui, un’altra vita. Forse per questo era diventato architetto. Era diventato architetto per trasformare la casa in cui era venuto al mondo e non permettere il contrario, non lasciare che fosse lei a segnarlo.

Naturalmente, sua madre non gli avrebbe consentito di toccare nulla, di cambiare niente; da tempo però abitava in un ospizio, e aveva smesso di pensare a quell’appartamento dal giorno dell’incidente: la macchina aveva sbandato e Dorian non ce l’aveva fatta. Francis sì, era sopravvissuto. Ma sua madre non pareva essersene accorta in tutti quegli anni, e Francis non glielo aveva perdonato. 

Solo alcuni muri erano rimasti quelli originari. La carta da parati, le mattonelle colorate erano scomparse, sostituite dal bianco perlaceo dell’intonaco. Il bianco percorreva anche le tende di lino, le porte, le venature del marmo del pavimento.

Francis non sopportava colori superflui o superfici inutili. Non tollerava sbalzi, elementi che si protraevano. Al posto delle finestre a battente, aveva messo finestre a saliscendi con ante che scorrevano su binari verticali. Si era sbarazzato di cassapanche e comodini, costruendo armadi a muro. Ma le imperfezioni rimanevano, come quella della giunzione tra il pavimento e le pareti. L’ideale dello spazio sarebbe stato l’assenza dello spazio stesso. Questo a volte lo faceva soffrire.

Quel venerdì sera, si disse che forse era lui che non andava, che occupava troppo posto in quello spazio. Se fosse riuscito a pensare allo spazio senza esserci dentro, si sarebbe avvicinato alla perfezione. 

Francis non era mai riuscito a vivere con nessuno. Ogni donna che era venuta a stare con lui aveva finito col dilatare le superfici, col rompere quel poco di armonia di piani, quel minimo di purezza cromatica che lui era riuscito a creare. Ogni donna aveva lasciato oggetti che racchiudevano violenza, spigoli di borsette, denti di pettini, punte di tacchi, contorni di rossetti. E lui non poteva sopportare altre presenze là dentro. 

Si stese sul divano. Pensò che in soffitta aveva ancora troppe cose, cose che si facevano sempre più pesanti e premevano sulle assi di legno. Pian piano, le sue palpebre presero il peso di quegli oggetti da scordare e Francis fu sommerso da un sonno profondo senza sogni.

La mattina dopo, per sbarazzarsi del senso di oppressione, decise di uscire. Mise in una borsa vecchi giocattoli e libri dalle pagine ingiallite, e se ne andò sul lungofiume. Li voleva dare via; non gli importava di venderli.

Le bancarelle erano tante e si snodavano in maniera disordinata, senza logica, come il corpo di un serpente a sonagli in preda a convulsioni. Non c’era armonia in quell’alternarsi di colori e forme, usciti dai conati di uno spazio insopportabile. 

Francis era sul punto di lasciar perdere tutto, quando vide, dietro a una bancarella, il viso di un bambino. “Dorian!” pensò e si sentì soffocare. 

Andò a sedersi su una panchina e aspettò che il suo cuore riprendesse un ritmo normale. Poi guardò nuovamente, cercando di scorgere il ragazzino che gestiva la bancarella con aria da esperto commerciante. 

Rimase a osservare, ancora confuso da quell’incredibile somiglianza. Alla fine decise di avvicinarsi.

“Va bene, ti prendo la tua roba” gli rispose il bambino “ma deve esserci uno scambio. Niente in cambio di niente. Guarda, tieni queste” e gli mise in tasca alcune vecchie cartoline che vendeva a pochi centesimi. Francis non aveva reagito, aveva solo notato quanto piccole fossero le sue mani.

“Cosa sei, un commerciante anche tu?” gli domandò il ragazzino. 

“No. Un architetto”.

“E un architetto cosa fa?” 

“Inventa case e altri posti”. 

“Scommetto che un labirinto non lo sapresti inventare. Se io fossi un architetto” ma poi il bambino si interruppe; una donna voleva sapere il prezzo di un cofanetto cinese.

Quando Francis tornò nel suo appartamento, quella sera, non ebbe voglia di mangiare, né di leggere il giornale. Sentì che aveva voglia di disegnare e andò nello studio. Chiuse la porta e appoggiò un foglio di carta sul tavolo. 

Quella stanza era stata la camera di Dorian, piena di giocattoli e di libri, di colori e poster alle pareti. L’intonaco aveva cancellato la memoria, ma la memoria si ricomponeva da sola, come una macchia di umidità che riaffiora quando meno te lo aspetti.

Francis iniziò a tracciare delle linee sulla carta. Tracciava, poi si fermava, cancellava, disegnava di nuovo, correggeva, poi riprendeva, prolungava una linea, la congiungeva a un’altra, la interrompeva, poi la completava, ne aggiungeva una terza, una quarta, una quinta stando attento che le proporzioni fossero rispettate, che la simmetria fosse perfetta, che la figura crescesse in maniera armonica, come la corolla di un fiore, come l’immagine dentro uno specchio, ripetuta all’infinito.

Non seppe fino a che ora aveva continuato a disegnare. Non si era neppure reso conto di essersi addormentato. Quando si risvegliò, ebbe l’impressione che fosse ancora notte. Sentì la gola secca e volle prendersi un bicchiere d’acqua. Avvicinandosi alla porta, tamburellò automaticamente con le dita sulla parete, ma, questa volta, il muro non riecheggiò come al solito.

Aprì la porta e si accorse che non era nel corridoio, né in cucina e neppure in sala. Era in una stanza completamente bianca, vuota, senza finestre, una stanza mai vista prima d’allora. Si slanciò fuori da quella per ritrovarsi in un’altra uguale. Quando volle uscire anche da lì, vide che era entrato in una camera che era la copia esatta delle prime due. Decise allora di tornare indietro, ma si rese conto che là dove si trovava adesso c’erano varie porte. Ne prese una a caso, che dava su un’altra stanza in niente diversa dalle precedenti. Scelse una seconda porta, poi una terza, una quarta, una quinta, una sesta, finché non riuscì più a contare. Iniziò a correre e a inciampare sui suoi stessi passi. Sentì che i pensieri gli stavano sfuggendo e che niente più gli apparteneva. Non sapeva neppure se a velargli gli occhi fossero lacrime o gocce di sudore. 

In quel momento gli venne una frase sulle labbra: “Promettimi che non mi lascerai mai solo se un giorno dovessi perdermi nel vuoto tra i muri”. 

Ebbe voglia di fermarsi, di sedersi per terra e coprirsi la testa, ma le gambe continuarono a portarlo avanti, sempre più avanti nello spazio che non aveva più senso. Cercò un ricordo, a cui potesse aggrapparsi come a un filo d’Arianna, ma la sua memoria era bianca come tutto il resto, una superficie senza sbalzi e protuberanze. 

Allora mise la mano in tasca e sentì qualcosa sotto i polpastrelli: tirò fuori le cartoline. Erano immagini in bianco e nero, dai bordi ingialliti: foto di quella città, di quel quartiere, di quella strada. Francis riconobbe l’angolo, l’incrocio, il punto preciso dove abitava. Ma la sua casa non c’era. Non era mai esistita. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *