“L’intrico luminoso della vita”: sulla nuova raccolta di Alessandro Ramberti Enchiridion celeste

 

di Alessandro Burrone

Quando leggo la poesia di Alessandro Ramberti, scrittore e editore riminese (1960), non di rado mi viene in mente l’immagine di una scala. Piccole scale, tre pioli alla volta, sembrano del resto le terzine e le sue composizioni agili, intense, e tese a una leggerezza che appunto intende portare chi legge verso l’alto. Una poesia che si fa compagna di viaggio; oppure come una corda, quella che lega un gruppo di alpinisti in montagna. 

 

Ad introdurmi a questa nuova raccolta di Ramberti, Enchiridion celeste (Fara Editore), è stato un verso da un poema dello stesso, “Tempo nascosto” (scritto nel 2011 in occasione di una delle annuali kermesse fariane a Fonte Avellana, dedicata appunto a questo tema): “Noi siamo tessuti dal cielo / da capo torniamo a conoscere.” – Un noi e il cielo, legati da un ritorno.  

 

Enchiridion, manuale, istruzioni per accompagnarci a guardare il cielo. La raccolta si apre con una serie di Idilli: brevi poesie scritte sul filo di un istante o un desiderio o un principio fuggitivo o fuggito. Questa prima parte si apre infatti significativamente con una citazione dal recente libro dedicato a Enea (La scelta di Enea, Rizzoli, 2022) di don Luigi Maria Epicoco: “Ogni esperienza è un cambiamento, ogni cambiamento è una perdita, ogni perdita è sempre la rivelazione di ciò che non può essere perduto […]”. (Parrebbe il caso di ribadire, a proposito, quello che scriveva Simon Leys: “ogni epigrafe dovrebbe essere memorabile”, com’è in questo caso.)

 

Si cerca il segno di ciò che è imperfetto: un senso “al tu e al noi”, la dimensione “in cui non si è più singoli / pianeti ma un sistema” (“o meglio una parabola / vivente del divino”), un “aggancio al dopo”; addirittura ciò che inquieta, perché necessario, diventa rassicurante, come si legge in un passaggio di particolare pregnanza:

 

Credere?

 

Incorniciare dubbi

è mettere in tensione

la tela della vita

 

se essa è floscia e priva

di domande si adagia

su cocci di certezze. 

 

Ci si ferma a domandare certe grandi parole: “Stile”, “Umanità”, “Grazia”, “Spogliazione”, “Profumo”. Ma il vero idillio, la preghiera, è realmente la riscoperta che “noi siamo incontri”: come dichiara in conclusione a una poesia dal titolo parlante, Endiadi. Nonostante nel percorso (come scrive in “Guado”) si possa naufragare in “isole a volte / grandi come deserti”, o cadere nell’inganno di molteplici “fantasmi”. Leggiamo poco dopo (in “Vocazioni”):

 

[…]

Ma calma allora il fiato

 

considera il tuo poco

lascialo andare fuori

di te dal tuo recinto

 

trasforma il desiderio

di potenza e di gloria

violento e divisivo

 

in moltiplicazione

aperta ed inclusiva – 

diventerai la tessera

 

preziosa di un mosaico

il tuo bagliore scampolo

già qui di eternità.

 

*

 

“[A]priamo il ventre al cielo”: questo invito ci porta alla seconda parte della raccolta (intervallata da una illustrazione disegnata da chi scrive, riportata qui sotto e per cui ringrazio l’autore), intitolata “Piccolo manuale per abbracciare il cielo”. Quelle che si pensavano essere scale, diventano delle specie di telescopi aperti su uno spazio che usualmente tendiamo ad ignorare, quel “bordo” tra l’al-di-qua e l’al-di-là, un campo di battaglia dove di fronte allo spavento del cielo viene meno l’ambientazione idilliaca. Emergono invece gli spigoli, le rotture e le distanze, i “barcollamenti” e l’abbandono. Questa parte si apre con una seria proposizione:

 

Spirito

 

Ascolto per sentire il desiderio 

l’instabile emozione che ci spinge

a fare verità ad incendiare

 

il deserto così colmo di spirito

così avido della nostra sete

da mettere in noi il seme del perdono.

 

Si attraversa poi, nella composizione simbolicamente più lunga, un bosco dolomitico (“Albero dolomitico”), per prepararsi a un cammino inaspettato e più tortuoso. Da questa altezza si sente una vertigine fra i versi; si avanza senza paura delle “scosse”, delle “crepe” che possono creare, di andare tra le “Macerie”. Ci sono grida d’allarme: “Ci siete? […] / Vi prego diamo un’anima al futuro.” Ma lascerei scoprire il resto – sperando di aver suggerito alcuni movimenti di questa raccolta, che riesce nell’intento di riorientarci verso una simile apertura – al lettore, con una concatenazione di immagini che ne racchiudono l’essenziale (da “Armanda”):

 

[…]

il cielo è piombo livido

all’imbrunire siamo cassa armonica

 

per soffi che se ne vanno lontano

come ascende la massima sequoia

portando la sua linfa sulla cima

 

con le radici scandagliando il campo

della memoria il pozzo che conserva

l’intrico luminoso della vita.

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