LA DISTANZA: SPAZIO, TEMPO, INTERIORITÀ
di Raffaela Fazio
La distanza è duplice. Da un lato, può essere dolorosa, perché ostacola qualcosa che è abbastanza connaturato in ciascuno di noi, ovvero il nostro desiderio di abbandono totale e di totale fusione, di accoglienza e di pieno riconoscimento. Dall’altro lato, la distanza è fondante e necessaria: affinché una qualsiasi realtà possa esistere, infatti, essa deve distinguersi dal resto ed essere distinguibile. In questo senso, la distanza è lo spazio che permette ad ogni cosa di delinearsi, di crescere e di essere compresa.
Qualcosa accade
a distanza
qualcosa a distanza
di tempo
e qualcosa
accade soltanto
quando è stata compresa
soprattutto
se a portarla era il caso.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
Il necessario distanziarsi delle cose, può essere naturale oppure può avvenire con fatica.
Si staccano da soli
i volti dal silenzio
le spighe dal calore
ormai superfluo
i fiumi da altri fiumi
verso il mare
e il bene che fa male
dal suo male?
Oppure è con fatica
che tutto si trasforma
che il greto rende al ciottolo
il suo peso,
si asciuga
il moto dispendioso
e il giorno salva un’eco
un poco più di vita?
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Tutti sappiamo che la mancanza di una giusta distanza può far soffrire. Come quando non riusciamo a staccarci da una realtà che ha smesso di essere vitale.
È la conchiglia
che chiama a sé il ricordo
portando in grembo
il seme dell’amato
il suo bisbiglio?
Oppure è il mare
che anche da lontano
la ferisce
la tiene le impedisce
di partorire infine
dal vano mormorio
un più liscio silenzio
un oblio?
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Ci troviamo dunque a vivere la duplicità della distanza, dolorosa ma anche necessaria.
Noi stessi, però, siamo fatti di distanze al nostro interno, per le molteplici dimensioni che ci costituiscono. E non sempre siamo in contatto con queste diverse parti e dinamiche.
Il nostro spazio interiore, complesso e contraddittorio, è lo spazio al quale non possiamo sfuggire. È la casa che siamo chiamati ad “abitare”. Abitare chi siamo significa abitare uno spazio in relazione ad altri spazi che mutano e che ci modificano, attraverso il prisma della percezione e dell’elaborazione; per farlo, è importante rinunciare all’idea di un’identità predefinita o di una struttura che, conquistata magari a fatica, possa corrisponderci una volta per tutte.
Viviamo
e vogliamo narrarci.
Ma si sfa ogni racconto
nel dirsi:
non c’è filo, né trama.
Solo esiste
uno stare nel mondo
(sia sul fondo
che sul pelo dell’acqua).
Solo questo ci basti
e ci prema:
abitare chi siamo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Abitare chi siamo non coincide con il raccontare chi siamo, perché la vita, a differenza della narrazione, non è né coerente, né lineare, ma si sviluppa per intrecci, sovrapposizioni, capovolgimenti.
Eppure, l’interiorità non rinuncia all’orientamento. L’orientamento è il senso che cerchiamo di volta in volta. Se non ci fosse questa ricerca di senso, non ci sarebbe neppure movimento, sviluppo, non ci sarebbe vita. Quello che accade, nello spazio e nel tempo, viene riportato nell’interiorità, affinché “avvenga” realmente.
La ricerca di un senso deve fare i conti con l’ombra, che ci portiamo dietro come un alter ego, in un gioco di opposti riconciliati o inconciliabili.
A livello mitologico, le due facce contrastanti della stessa persona sono a mio parere evocate nel racconto delle due Elene. In una versione di questo mito, Paride non rapisce a Sparta la vera Elena, ma un’immagine fatta di nuvole e d’aria che Era ha messo al suo posto. È questo simulacro che il figlio di Priamo conduce a Troia. All’insaputa di tutti, la vera Elena vive nascosta in Egitto, finché la nave di Menelao, di ritorno da Troia, approda in quel paese spinta dai venti. Il re ha con sé la falsa Elena, credendo che sia la sua sposa. Quando le due Elene si incontrano sulla spiaggia, quella fatta d’aria scompare e la vera, dopo lunghi anni di attesa, riprende il suo posto accanto a Menelao, tornando in patria. Le due Elene sono in fondo parti della stessa persona, separate da una distanza che si accorcia proprio nel momento in cui uno dei due aspetti viene integrato (non svanisce).
Le due Elene
(La seguente poesia è una rilettura del mito: nella prima parte, il punto di vista è quello dell’Elena in carne ed ossa, nella seconda, è quello dell’Elena di nuvole ed aria).
I.
L’altra
ti viene incontro
è ormai vicina:
uguali
il tono i lineamenti
il tempo dentro ai gesti
la fierezza
ma gli occhi
rondoni
già lontani
e il corpo
forma d’aria
turbamento.
Sei tu
colei che aspetta
immutata
fedele al vecchio patto.
Lei è il tuo doppio
perfetto irreale
la non-scelta
la solo immaginata
dentro a un sogno
che tu stavi sognando
prima di altri
là dove
amore è guerra
e tutto ciò che sfugge
si rinnova.
Lo vedi, la spiaggia
si dilegua.
Il fato ti ritrova
e il ricordo
che torna alla tua terra
è questa nave
lenta.
Prende te sola
ma porta
– dell’altra –
l’addio illusorio
che fende il nero il mare
sempre uguale
col suo
rostro d’avorio.
II.
L’altra
ti viene incontro
è ormai vicina:
uguali
il viso il portamento
ma il peso
che dà radice al corpo
è nel suo passo.
A terra si proietta
soltanto
la sua forma.
Tu che ti aspetti
stupore nello sguardo
che t’incrocia
non vedi che rimpianto
in quella donna.
Eppure
la storia che lei canta
è tutta intera. Non sa
dello spezzarsi della vista
– del tempo discontinuo
che ha il pensiero
il desiderio – non sa
della violenza
che ti sposta
né del rischio
dello sbaglio.
Tradimento.
La vita lei
l’ha attesa
tu l’hai colta
nell’estasi e nel vuoto.
Il prezzo che hai pagato
è di essere un abbaglio.
Ora è venuto
il tempo della resa.
Ti spogli
le rendi la bellezza
l’incerta sicurezza
che l’esistenza è una.
Mentre le affiora
sotto gli occhi
un’altra ruga
tu scompari
nell’aria
come in uno specchio
un fremito
un brivido già in fuga.
(da “Ti slegherai le trecce”, 2017)
Il nostro spazio interiore, abitato dall’ombra, è fondamentalmente uno spazio di tensione desiderante, cioè di distanza tra le nostre pulsioni e la capacità di dar loro forma.
Le mani intrecciate
mio amore
tentiamo il passaggio
dalla febbre notturna
al coraggio
ma intatti
ricadiamo nel sonno
sotto le palpebre
un’onda
una stessa luce di luci
come acqua che tiene
due relitti sul fondo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
*
A pezzetti intero
Tra erbe mediche fragole selvatiche
disguidi del desiderio
ortiche
senza presagi ti ho trovato
come un tracciato
di molliche.
Pezzetto per pezzetto
ti ho subito mangiato.
Ma ora che il bosco tace e mi parla
delle notti a venire
per averti
in che altro modo
(se non perdendoti)
ti avrei dovuto seguire?
(da “L’arte di cadere”, 2015)
*
Sovrimpressione
Sedeva a un niente di distanza.
E il niente mai più è stato
così pieno
stracolmo come il vuoto di un cratere
di tutto ciò che in vita
era votato
forse
al fuoco primigenio
e invece
non è più accaduto.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
La ricerca di un senso è anche il nostro modo di evitare che la nostalgia alimentata dal desiderio per una persona amata, in sé vitale, diventi dolorosa. Non sempre, naturalmente, l’esito è positivo.
Opposti contigui
Come il sole cerca di notte
l’altro versante della terra
il familiare si sposta nell’ignoto.
Io e te che in guerra
lucenti ci amiamo
ora torniamo
a due paci lontane.
Lasciamo il letto
assolato e sfatto
come un assoluto che invano
cercherebbe un confine
come un dire infinito
che si ritira dal detto.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
*
Dove sono
quando non sono
dentro il tuo sguardo?
E dove ero
quando invece credevo
di arrendermi
al suo assedio?
Dove sono
ora che vedo
che la battaglia
l’hai combattuta altrove?
E cosa sono
se non sono neppure
tra le tue spoglie?
(da “L’arte di cadere”, 2015)
*
Lo sparo
Dispersa
ti cerco.
Sono uno scuro
stormo
che s’alza
dal campo.
Sii vero.
Allarga le chiome
ch’io possa
riunire i miei nomi
sostare.
Ma è in basso
il raccolto
e il tuo spazio una sfida.
Con l’ombra
dilati
quel pezzo di terra
che invita
al furto.
È colpa o destino
tornare insaziata
tra l’erba sottile
scacciata
in eterno
da uno spettro
un fucile?
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
*
Consigli per quando mi pensi
Conserva le mie anche
a temperatura ambiente
il corpo nel verso giusto
(con la testa
rivolta al presente)
ma le labbra vanno riposte
un poco dischiuse
nel buio appena torchiato
nell’attesa
nel mosto.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
*
Se di te
soltanto
ho bisogno
tutto mi manca
il bianco l’ambra il raso il fustagno
il vero il finto
il duro di una panca
la chiusa di una frase
perché
non esiste cosa
che in sé non ti abbia
(neppure la rabbia
il volgare del bello
il dubbio la lode carnale)
né esiste modo
che ti riassuma
o mi assolva
e risolva
per sempre
la presa.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
Accogliere la distanza non significa decodificarla. Ma interrogarci su di essa. La domanda non si esaurisce, perché nessuna conoscenza alla quale possiamo pervenire estingue il mistero insito nell’individuo e nel mondo.
Chiaro il cammino, il destino
che mi ha condotto a te.
Ma quando ti ho raggiunto
ho perso
l’antico orientamento:
al cabotaggio
hai offerto come mappa
un labirinto.
*
Vertigine, tranello
della mente:
ho creduto che il tuo occhio
potesse contenermi interamente.
Ma niente è mai possesso
comprensione, piuttosto
la caduta
di un angelo ribelle
che muove la pupilla.
E entrambi ci denuda.
L’intuito è questo schianto,
no,
è il vuoto che precede.
Il mistero dell’altro rimane. E rimane il nostro stesso mistero. Molto in noi e di noi ci è sconosciuto. Essendo il nostro spazio interiore anche uno spazio di autoconoscenza, ovvero di distanza tra chi siamo e chi pensiamo di essere, questo scarto può ridursi o aumentare. L’ombra muta: può ingrossarsi o essere, al contrario, integrata. Non sempre ci è accessibile il nostro magma personale di scintille e di detriti, né sempre siamo coscienti del nostro agire nel mondo.
Colpiamo di taglio o cediamo calore
senza saperlo.
Involontario vivere
di cui non ci accorgiamo.
Il solo forse
che ci direbbe chi siamo.
La ricerca di un senso influisce anche sulla nostra percezione del tempo. La distanza temporale non è infatti uno spazio definito e definitivo, ma è un continuo spostamento di confini, operato dall’esercizio di interpretazione che compiamo sul passato.
Mina già esplosa
in un punto preciso
mina distante
o a un soffio dalla soglia
il passato
non muta
nello scoppio avvenuto
in cui accade la vita
ma varia
l’aprirsi di breccia
che lo segue
se a lui torna il pensiero
la corona di schegge la pioggia
che cade all’infinito
l’instabile profilo del presente
che di sé trova
volgendosi
l’ennesima variante.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Ogni singolo evento del passato esiste unicamente nella rilettura che ne fa il presente, luogo da cui lo sguardo spazia.
Il passato non resiste.
Nessuno dei suoi angoli
rimane, solo
l’arco
su cui insiste:
dosso di terra
aderente al nostro passo.
Da qui
si avvista l’orizzonte.
Perché il passato
(se esiste)
è quest’assenza
che riempie l’aria
incrina serpentina
il cielo
preme convessa.
È il temporale
che lampeggia
che corteggia
la circonferenza
ma poi non si avvicina.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
*
Faccio ripartire
il viaggio
il racconto di un viso
che non ho più toccato
il giorno
che è finito.
Lo faccio ripartire
da un attimo preciso.
Poi sposto quel momento come fosse
la punta di un compasso
per vedere
con uguale raggio
il mutare del disegno
e del coraggio con cui s’ingegna
la memoria
nel fare dei suoi chiusi passi
una danza di vittoria.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
Tutto ciò che ha avuto un impatto nella nostra vita non potrà mai essere lontano, ma rimarrà attivo al fondo di ogni istante. Proprio come alcune parole, che non smettono di risuonare.
Sembrano assenti
chiuse
nella loro bellezza
ma vivono in gruppo
con fallaci spostamenti
e una grazia urticante
di meduse.
Nessuna parola
seppure lontana
nel tempo
è distante.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
La poesia stessa accorcia la distanza tra presente e passato, perché è un modo di vivere il tempo che privilegia due aspetti: attenzione e cura. Attenzione a non perdere di vista il presente, sotto la tirannia di ricordi o di aspettative. E cura nel trasformare l’evento in esperienza, creando un legame tra gli istanti più forti.
Si scava una parola
come nel tufo
una nicchia
che accolga cari
simulacri.
Nasce dal vero
l’immagine amata
e dal corpo assente
il verso
che lo invoca, che tenta
di farsi nel tempo
compenso
riparo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
Oltre all’attenzione e alla ricerca di un senso, ciò che riduce la lontananza è la responsabilità, ovvero il farsi carico di qualcosa e di qualcuno. Questo avviene in modo naturale quando si tratta di un figlio.
Ora di punta
(per i miei figli, dicembre 2015)
Come in un’eterna
ora pendolare
in cui il corpo è sorretto
dal vicino
e superfluo
è perfino un appiglio
così anch’io rimango in piedi
grazie a voi
che vi moltiplicate
ogni giorno un pochino
e aderente
al vostro bisogno
mi tenete
non mi lasciate
spazio sufficiente
per uno scarto muto
che un po’ somigli
a un pensiero di morte
a una caduta.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
La vicinanza favorita dalla responsabilità non è solo premura, ma anche rispetto, dunque capacità di creare un giusto spazio tra noi e gli altri, uno spazio necessario e vitale.
Questo dovrò imparare
a disserrare
a guardare dapprima vicino
poi oltre davanti più in fondo
il viale del tuo tempo
che si apre al mondo.
E nel mondo tutt’intorno
restituire una voce
di terra alla terra
e di buono alla fonte lontana.
Saprò lasciare la stretta
ridare
sul pendio inatteso
un più generoso scintillìo
al ruotare dei fatti
non invano
come il bimbo che sente
il soffio di Dio
nell’istante
in cui finalmente
va in bicicletta
con una sola mano.
(da “L’arte di cadere”, 2015)
*
Punteggiatura
(per i miei figli, aprile 2016)
Staccatevi un poco
perché vi metta a fuoco
perché vi legga
col giusto respiro.
Al fiato insegnate
il riposo
siatene il tempo sospeso
che rende
meno labile
il senso
e il buio
più orecchiabile
nota di fondo.
*
Affresco
(per mio figlio, maggio 2015)
Se volessi fermare
nell’arriccio
questo attimo perfetto
di dolcezza
(sabbia pura di fiume)
tradirei il senso
ancora in divenire
la parte di te
forse migliore
il tuo vero pigmento.
E invece ogni momento
va steso, non sottratto
al suo destino:
va dato al tempo
quando il tempo
è ancora fresco.
Così
sul fondo che ti spetta
anch’io devo lasciare
che tu cresca.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
C’è un’altra distanza benefica, che deve rimanere incolmabile. È la distanza tra percezione e definizione del Principio della vita stessa, che, per restare tale, non potrà mai essere circoscritto. La sacralità e l’inafferrabilità di questo Principio (indipendentemente dalle immagini che gli vengono associate) pongono l’essere umano davanti al suo limite. Ma è in virtù del limite e del dubbio che può nascere qualcosa di estremamente prezioso: la fiducia. Dato che le forze che permettono alla vita di preservarsi, mutando, vanno al di là della nostra ragione e della nostra volontà, per esistere non possiamo che avere fiducia. E la fiducia è proprio quello spazio che, attraversato, non si esaurisce.
Al Dio ignoto
Lascia che dentro Te
integra sabbia
io pianti la punta
come anfora d’argilla nella stiva
un poco storta.
Ma fa’ che mai non abbia
la certezza
se sia d’amara oliva
o d’uva
il sangue
che in me questa natura
a un’altra meno labile pienezza
già trasporta.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
*
Sei così Altro
dal sommo appiglio
dalla ragione dallo sbaglio
che sei anche me.
Lo sei in quest’ora.
E dislocato nella parola
rivolta senza sosta
sei il tempo che mi occorre
per darti
una risposta. Non prima
ti esaurisci.
Sei il modo in cui mi riesce
balbettando
di arrivare fino in fondo.
(da “L’ultimo quarto del giorno”, 2018)
*
Non ti conosco, pensiero fuggiasco
che mi precedi appena
di un palmo aperto quanto un deserto.
E come seguirti
senza capire?
Ma forse non questo ci avvicina.
Forse è un versare di brodo ogni sera.
Ricopiare segni.
Imparare un nodo per farlo e disfarlo.
Forse è la pioggia che cade sul bagnato.
Il cigolio del perno.
Il lavorio che fa più vero il giorno.
Forse il conoscere
non è in nessun pensiero.
Nessun velo di Maya.
Ma è l’asino che piano
torna alla mangiatoia.
Amare Dio
è mangiare
così
dalla sua mano.