Chandra Livia Candiani: “Con delicata cura”

Presentiamo in forma più estesa il dialogo di Laura Campanello e Daniela Monti con Chandra Livia Candiani che apre il numero 13 del magazine 7, dedicato a capire come l’emergenza Covid-19 ci ha cambiato e ci cambierà.

Intervista a Chandra Livia Candiani di Laura Campanello e Daniela Monti

Viviamo questi giorni difficili dentro le nostre case. Un orizzonte che si chiude o, paradossalmente, che si apre? Questa situazione di apparente “sospensione della vita” sarà occasione di cambiamento?

Tutto dipende da come ci accostiamo agli accadimenti. La pratica regalata dal Buddha mi invita a stare con le cose così come sono senza volerle diverse, cercando di non rifiutarle ma nemmeno di farmi sommergere. E quello che stiamo vivendo ora è un passaggio spaventosamente difficile. Io sono abituata a vivere molto in casa e molto da sola. Ma non è facile, qualche volta ci si sente tagliati fuori. In tempi normali, se ci si ferma e si assapora quel che si prova e ci si chiede: “Fuori da cosa?” Ci si accorge che si tratta di essere fuori da un mondo di illusioni. Il mondo della brama, dell’ambizione, del costante dover essere qualcuno di speciale. Ogni esperienza è esperienza e non solo quelle collettive, l’esperienza più solitaria che ci sia può contenere tutto il mondo se è scelta con occhi aperti e cuore sveglio. Così come l’esperienza più coinvolta nel mondo può diventare una forma orgogliosa e infestante di auto-riferimento e di vanità. Ora, nell’emergenza, l’aiuto agli altri può arrivare da piccolissimi gesti nascosti, da pensieri, da auguri tatuati nel cuore.

Non considero questi giorni come ‘sospensione dalla vita’ ma come quintessenza dell’osservazione di cosa sto facendo della mia vita, del mio pensiero, del mio tempo, di quello che conta e di quello che è superfluo, delle relazioni buone e di quelle che non nutrono o fanno danno. Di come ricevo il mondo e di cosa gli porto in dono.

Se ricostruiamo in casa un mondo in miniatura e passiamo da un’attività a un’altra, se telefoniamo in continuazione, o stiamo per ore in rete, se anche intorno al virus c’è una corsa di parole e di iniziative compensatorie non credo che sarà occasione di cambiamento. Come non avvertire che c’è un troppo pieno?

Questo tempo difficile è una grande svolta per noi del cosiddetto primo mondo: le guerre, le inondazioni, i terremoti, le epidemie sono sempre altrove, ma non questa volta. Questa volta la nostra vita è cambiata in pochi giorni, la fugacità, la non solidità di tutto è evidente, ci riguarda. Il mito del controllo è ormai una statua andata in pezzi. La malattia e la morte sono qui, vicinissime. Eppure.

Qualcosa di nuovo arriva, se mi fermo e respiro e sento il legame invisibile con tutto e tutti, se sto con quel che fa male e lacera e fa sentire che il mondo si scuce, crolla, se sento l’angoscia della tragedia che sta accadendo ma so anche distinguere quando mi sto soffocando di pensieri oscuri e mi calo invece in quello che ho da fare, che sia una traduzione, una lettura, lavare i vetri o i pavimenti, qualsiasi attività fatta con consapevole preziosità diventa collegamento con tutti e con tutto, una benedizione per il male comune che stiamo attraversando, un augurio di farcela. Questo ovviamente non significa non voler comprendere la complessità della situazione, tutt’altro. Tutto questo sta accadendo anche perché vogliamo sempre crescere, aumentare, essere ovunque, invadere tutto, appropriarci di tutto, diventare tutto, dire di tutto. Nel mio piccolo, ho sentito gli effetti della brama. Sono almeno sei mesi che a ogni richiesta pubblica rispondevo il più gentilmente possibile: “Grazie, resto a casa.” Ero stanca, mi sentivo un ciarlatano, mi si chiedeva di tutto. E sentivo le illusioni più diverse circondarmi. Io non so niente signore e signori, ho solo una Via e la seguo con cuore appassionato. Pubblicare un libro, tre libri, 27 libri non significa sapere qualcosa. Essere gentili con gli sconosciuti, ascoltare, accarezzare con il silenzio il dolore, lottare, sbagliare e pentirsi, parlarsi sul serio anche quando fa male, dirsi il bene anche quando non ci si può più toccare e le parole intimidiscono, questo è sapere qualcosa.

Una volta prima di una lettura poetica ho chiesto a un albero: “Ho paura. Cosa faccio adesso?” Lui mi ha risposto: “Non essere meravigliosa.” Che lezione di stile di vita!

Lei scrive: “Non sono un cantore di astrattezze, indosso la mia storia”. Qual è la sua storia, lontana e vicinissima, di oggi, di ora?

La mia storia di ora è che sono abituata alle emergenze, che ho fatto spesso bagagli veloci per scappare, che ho dovuto spesso restare dove non volevo, salvarmi dalla violenza minacciata o eseguita. Sono capace, sono adatta a questa situazione. Ho vissuto tante volte nel terrore, non è un vanto, è un fatto e adesso non ho paura. Seguo le direttive intelligenti per non fare male a me e per non fare male agli altri, sento quanto questo male ci avvicini, nonostante il metro di distanza, se rischio ti metto a rischio, questa distanza è sacra, fa che io ti rispetti e tu rispetti me. Fino a pochi giorni fa vedevo solo persone nascoste dietro gli schermi, frettolose, anche negli abbracci. Così sicuri del perdurare. Oggi siamo toccati tutti dall’impermanenza. Quindi siamo più vicini alla vita. Tutto cambia non significa tutto muore, ma tutto muta continuamente, è musica.

Noi non sentiamo il nostro corpo e così come possiamo sentire quello dell’altro, non sentiamo quando sta tremando di fianco a noi, quando ha paura, quando si sente offeso e ferito. Forse il metro di distanza ce lo insegnerà? Certe volte non a un metro ma a mille miglia dagli altri avrei voluto essere per quanta vergogna sentivo per i loro misfatti, le parole senza cura e ancor di più la bruttezza di cadere nel contagio, fare e dire le stesse cose travolta dalla rabbia non ammessa.

Abbiamo timore delle giornate vuote, dell’assenza del lavoro e di cose da fare. Come prendere confidenza con questo vuoto? Come lasciarsi istruire dal vuoto?

Il vuoto è la nostra vera natura, quando vediamo nascere una bambina … vuoto! Quando incontriamo un amore … vuoto! Quando un albero è tutto giallo di foglie in autunno … vuoto! In questi giorni gli alberi stanno fiorendo … riesco a fermarmi e … vuoto!? Noi temiamo la nostra vera natura perché è uno specchio, potremmo vedere qualcosa che non ci piace, forse tutto quello che raccontiamo agli altri non ha più alcun senso nello specchio, ma forse solo liberandoci delle immagini imprestate possiamo farci tenerezza e compassione. Cosa chiamiamo vuoto? Fermiamoci a sentire. Il vuoto vuole solo essere incontrato. In altre religioni si chiama con altri nomi. Il Buddha l’ha chiamato così perché non lo riempissimo di concetti, per lasciarlo libero dalle definizioni e dalle immagini. Il vuoto è vuoto di opinioni, di mi piace e non mi piace, di mi serve non mi serve, di io e tu, di noi, vuoto. In ogni noi c’è qualcuno che viene tagliato fuori. Il vuoto include tutto e tutti. Ha una gigantesca memoria per ognuno. Ognuno è singolare nella sua pluralità, eppure è nessuno. Nel vuoto sorge leggerissimo il soffio della tenerezza per tutti gli esseri. E quando dico esseri non parlo solo degli umani. Ma i vegetali, gli animali, i fiumi, i mari, i laghi, le montagne, le pietre, Tutto vivo, tutto in ascolto.

Imparare a stare: questo insegna la pratica buddista. Ma stare ora, qui, non è mai sembrato così difficile…

Sì, questa volta tocca anche a noi. Ma la difficoltà aumenta coltivando i pensieri tormentosi, incapaci di abbandonarci a una fiducia senza oggetto, vastissima, e credere solo nell’azione personale e diretta. Ma la non azione non è passività, è occuparsi, anziché preoccuparsi, è credere che fare silenzio e inviare benedizioni a tutti senza distinzioni, semplici auguri di bene, sia una profonda azione politica. E levare, levare, levare. Troppe parole sono al mondo, troppi pochi sguardi e sorrisi, poca accoglienza, troppa insistenza sull’insieme, anziché un po’ di spazio per quella radicale solitudine che permette di ascoltare le urla del mondo e custodirle. L’azione nasce dopo, dalla giustezza della percezione. Ho un orecchio sensibilissimo, sento la malevolenza anche quando è celata, sento l’uso che si fa dell’altro, sento le allusioni, sento. Ho più coraggio di dire adesso. Osserviamo il luna park di illusioni che abbiamo creato e diciamo una parola vera, un silenzio come un abbraccio, un ‘non so’ grande come il cosmo.

Come ritrovare fiducia nel presente e nel futuro?

La fiducia va coltivata, come una pianta, come un orto. Una fiducia indomabile, ma non concettuale, quella fiducia provata dal senso di vastità che si crea nel petto quando ci si fida. La fiducia è un tuffo, un coraggio folle, siamo tutti feriti nella fiducia, ma la ferita guarisce nel rinnovare il tuffo. L’etica crea fiducia, se siamo etici e sappiamo di poter tenere per mano le nostre azioni, i pensieri e le parole, sul bordo degli abissi dell’ambizione, del sopruso, della maldicenza, della competizione, dello sfruttamento, del primeggiare, della brama, se sappiamo di poterlo fare, arriva la fiducia che anche gli altri lo possano fare. Si può scegliere.
Quello che seminiamo nel presente è il nostro futuro.

Scrive che “non sappiamo tollerare di non capire”. È vero: se non si capisce qualcosa, si fa subito ricorso alla dietrologia. L’impressione è che “tollerare di non capire” possa privarci della nostra arma migliore, la razionalità, consegnandoci alla disfatta. “Tollerare di non capire” significa perdere di centralità, ed è così difficile, lo insegna l’antico maestro che disegna un uccello sull’ampia lavagna bianca… ciò che sta accadendo oggi può insegnare la tolleranza del non capire? La poesia aiuta a trovare altri linguaggi?

Non penso che la nostra arma migliore sia la razionalità, penso che la razionalità sia molto limitata e ristretta senza il sogno, l’immaginazione, la buona follia, senza il vuoto del non sapere niente, senza la meraviglia e lo stupore del non so. Il mio mantra di questo momento è ‘boh’. Si aprono tante possibilità nel non sapere. È così evidente quando la persona con cui stiamo parlando crede di sapere, certe volte di sapere tutto e qualsiasi cosa tentiamo di dire ripete solo: lo so, lo so. Nessuna possibilità, nessuno spazio di ricerca. E poi abbiamo davvero bisogno di un’arma? Forse è disarmandoci, smettendola di spacciare saperi non provati dalle intemperie della nostra vita, forse è vacillando e tremando che a tentoni scopriremo vie nuove per stare al mondo con rispetto o per andarcene con grazia. Ogni nostro pensiero scorre su binari antropocentrici, è un sollievo perdere la centralità, è un sollievo farsi scolari del senso taciturno di un cosmo in corso, è un sollievo smettere di darsi arie e saperci cretini cosmici e farci scolari. Come? Svuotando la mente e lasciando che arrivino in noi visioni nuove, non auto-centrate, limpide. Ma quando siamo davanti a un vero cambiamento spesso noi ce ne andiamo. Lo vedo tante volte nei gruppi di meditazione, quando a qualcuno non resta altro che cambiare, che smettere comportamenti lesivi, gira le spalle e se ne va a cercare qualcos’altro, qualcosa che gli permetta di non cambiare e di stare bene così. Che poi ‘cambiare’ non significa nulla, se non trasformare quello che già c’è, conoscere il male perché nella sua nuova luce diventi la scelta di non compierlo e di girarsi verso un’altra prospettiva. Ma se ci rifiutiamo di vedere il male che ci abita, non c’è speranza, giochiamo alle belle statuine.

La poesia… quello che conta per me non è la poesia ma il luogo da cui proviene. Essere fedeli a quel luogo, frequentarlo, è luogo solitario e disobbediente alle convenzioni, anche a quelle letterarie, certe volte parla, certe volte tace. Obbedisco.

Quali sono le nostre più grandi paure?

La paura di non essere visti e presi in considerazione. Per questo avere una relazione intima con l’invisibile e il silenzio è un farmaco sia per gli invisibili che per i prepotenti.

Tutto il suo lavoro con i bambini e le bambine cosa le ha insegnato?

L’umiltà, l’ascolto senza volerli diversi, i punti di partenza, la simpatia corale, il rischio, la fertilità dell’errore, guardarsi negli occhi, chiedere tanto, non frustrare e non adulare, onorare il loro sapere, creare spazi per la saggia follia, lasciarmi salvare, ridere insieme magari di cose diverse, piangere senza precipitarsi a consolare, lasciare che l’insieme si crei da sé senza forzature comunitarie, notare i solisti e lasciarli in pace, fare silenzio insieme scoprendone il piacere funambolo.

Il gigantesco tema della compassione. Oggi più che mai serve una “spudorata compassione”, così si chiudeva un editoriale del Corriere di qualche giorno fa. Ne usciremo più compassionevoli? Possiamo – come scrive lei – inviare compassione a chiunque sentiamo in difficoltà, senza chiedere nessuna ricevuta di ritorno? Come possiamo farlo ora, ognuno con i propri strumenti?

Se non sentiamo compassione per noi, per le nostre meschinità e fragilità, se non conosciamo quello che sta dietro le nostre carrozzerie, come possiamo avere compassione per gli altri? Praticare la compassione non è difficile, regalarsi una pausa dal fare e dal dire e in silenzio inviare a se stessi e agli altri frasi che chiamino in vita la compassione e la distribuiscano: che io o che tu possa essere libero dalla sofferenza, che ci sia una via d’uscita. È una consegna, non un’azione. Non facciamo niente, consegniamo alla Vita grande. Non guariamo, auguriamo la guarigione. Non diamo consigli, benediciamo da lontano. Che ricompensa potrebbe mai esserci? Nasce un senso di sorellanza e fratellanza, un insieme senza esclusioni, perché ogni pratica di compassione termina con la frase: Che tutti gli esseri (non solo gli umani dunque) in tutte le direzioni dello spazio possano essere liberi dalla sofferenza, che possano essere liberati.

Una forma di compassione è la gratitudine per tutti quelli che in questa emergenza stanno dando il massimo dell’aiuto senza alcuna attesa di essere riconosciuti: un’orchestra di invisibili.

Una forma di benedizione è anche dedicare qualsiasi cosa bella che vediamo a qualcuno che sappiamo che sta soffrendo o a tutto il mondo: vedo la strada che si nasconde tra gli alberi, te la dedico; sento un uccello leggermente stonato, te lo dedico.

Cosa significa oggi prendersi cura di sé e prendersi cura degli altri?

Prendersi cura di sé è prendersi cura degli altri e prendersi cura degli altri è prendersi cura di sé. È un disastro quando li separiamo.

Nel Discorso dell’acrobata del Canone Buddhista, si racconta di due acrobati che si stanno esibendo in piazza con un’asta di bambù. Il maestro acrobata dice alla sua apprendista: ‘Prenditi cura di me, e io mi prenderò cura di te. Proteggendoci a vicenda, e prestandoci attenzione reciprocamente, faremo mostra di abilità, riceveremo la ricompensa e scenderemo incolumi dall’asta di bambù’.
L’apprendista gli rispose: ‘Maestro, non può assolutamente essere così! Tu, maestro, prenditi cura di te e io mi prenderò cura di me! Se ciascuno di noi proteggerà se stesso e presterà attenzione a sé, faremo mostra di abilità, riceveremo la ricompensa e scenderemo incolumi dall’asta di bambù. Tale, in questi casi, è la regola’.
E il Buddha commenta: E in che modo, colui che si prende cura di se stesso si prende cura degli altri? Con la pratica, con la meditazione, con una pratica ripetuta. E in che modo, colui che si prende cura degli altri si prende cura di se stesso? Con la pazienza, con il non nuocere, con l’amore e con la solidarietà.

Un po’ come dire cura te stesso purificando la tua mente-cuore, cura l’altro con l’amore e la non violenza che da quella purificazione nascono.

Lei ha detto che noi frequentiamo solo ciò che ci rassicura e quando ci manca la terra sotto i piedi – come in questi giorni – nulla è più ovvio, l’ovvietà delle cose ci viene sottratta. Lei ha fatto esperienza di questo? Come può salvarci dallo spaesamento la vita quotidiana, il tempo casalingo?

Ma per chi ha provato, come la chiama Herta Muller, “la sottrazione quotidiana dell’ovvietà delle cose” è proprio il tempo casalingo, il lusso di avere ancora una quotidianità che rassicura. Notare tutte le azioni piccole e indispensabili di ogni giorno, mangiare con cura, notare quell’atto sacro per cui qualcosa muore per noi e poi torna in vita diventando parte di noi. Tutti miracoli che senza il cosiddetto quotidiano restano invisibili. Non so che dire per me il tempo e lo spazio quotidiano sono il sacro e li difendo in tutti i modi più gentili ma decisi che posso dall’invasione della vita pubblica.

Fragilità e morte sono parole che sentiamo pronunciare in questi giorni. Possiamo farne occasione di apprendimento e trasformazione, di “cambio di pelle”, come dice lei?

Non sappiamo cos’è la morte, temiamo quello che non conosciamo. Io mi dico spesso quando sono malata ma non solo: “Arriverà la morte e non ho la minima idea di cosa sia.” Mi fa stare bene non sapere e cedere alla vastità.
Ho scritto così:

Dare una svolta alla parola morte
una scossa di risveglio,
farla uscire dai gusci di spavento
dei secoli e degli antenati,
farla neonata
smettere di capirla
dichiararsi incapaci
e tenerla tra le mani giunte
delicatamente
come fiammifero
nel vento.

Abbiamo bisogno di àncore rassicuranti e di esercizi spirituali: da dove può iniziare chi non pratica già la meditazione?

Le pratiche spirituali non possono essere solo rassicuranti, chiedono la verità del sentire il male che subiamo e che facciamo, chiedono responsabilità etica e solo dopo è possibile l’abbandono alla fiducia nell’intelligenza della Vita senza negazione di quel che accade, senza scappare dal dolore. Il dolore ci attraversa come ci attraversa una lama di luce. Se non aggiungiamo spiegazioni, cause, monologhi, narrazioni, se lo sentiamo e respiriamo perché è solo un visitatore, perché una volta accolto se ne andrà, questa è meditazione? Il respiro è orientale? È una tecnica esclusiva? Tutto questo l’abbiamo in dotazione, fa parte di noi, eccolo qui, serviamoci pure.

Quale poesia ci offre per questi giorni di sgomento?

Seguire il respiro con delicata cura, lasciar andare i pensieri come uccelli che si posano, benedire il mondo.

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