Intervista a Giancarlo Pontiggia

Giancarlo, parlami delle ragioni al fondo della tua poesia, di cosa ti ha spinto a iniziare a scrivere, e di cosa ha influenzato maggiormente la tua scrittura.

Non c’è alcuna forma di vocazione nella mia vita. Se mi volgo indietro, e ripenso alla mia giovinezza, e prima ancora alla mia infanzia, non vedo alcun momento in cui abbia detto a me stesso: voglio essere un poeta. A dire il vero, non ricordo di aver mai espresso alcun pensiero su quel che avrei voluto essere. Ero solo un bimbo che amava la vita nei suoi aspetti più semplici: correre tra i campi, contemplare un cielo, dormire, sognare, oziare, giocare tutto il pomeriggio a pallone, fino allo stremo delle forze. Come tutti i bimbi, avevo anch’io i miei campioni: il primo fu Nencini, ruvido e ardimentoso, come un eroe omerico, al Tour del ’60; poi Rivera, che pareva giocare come in sogno, disegnando geometrie magiche con la naturalezza di chi può fare tutto; Mariolino Corso, con le sue punizioni a foglia morta, il suo sinistro estroso, che infiammava anche chi, come me, interista non è mai stato; e Felice Gimondi, «il mio campione» per sempre. Leggevo poco, eppure sentivo il battito ansioso – quasi timoroso – delle cose, il loro disarmato oscillare, tra rovina e bellezza, in quella sperduta compagine di mondo in cui mi era capitato di vivere: strano, misterioso miscuglio di foglie e di erbe, di bestie e di cieli. Le «parole remote» del mio primo libro vengono dai pomeriggi di un Sessantuno qualsiasi, «quando / le mattine si disfano con il sole / già grande, cresce il meriggio cieco, e / più buie ombre declinano sul mondo». Ma tutta la mia poesia, in fondo, è in quel sentire estivo, in quel fruscio di ore sonnolente e bruciate, di sentieri ombrosi, di temporali improvvisi che scuotono il metallo del cielo. Sono parole che stavano già dentro il cuore di una spiga, nell’odore stordente dell’uva americana, o nell’irrompere improvviso di un leprotto su un sentiero di robinie, che è l’immagine da cui è scaturito il mio ultimo poemetto (Animula, in Voci, fiamme, salti nel buio, 2019): semi ancora avvolti nella scorza di un lungo sonno, ma pronti a sbocciare un giorno, se mai qualcuno avesse voluto prendersene cura. Nessuna rivelazione: solo un sentimento di vita ancora alle sue origini, che a un certo punto si è tradotto in parole. 

Quali esperienze e/o persone nella tua vita ti hanno particolarmente segnato? Almeno quali sono quelle che ti piacerebbe ricordare qui?

Si ha sempre un po’ di pudore nel parlare delle persone che hanno contato nella tua vita. Mi piacerebbe invece continuare a dire, come già d’altronde suggerisce la tua domanda, del potere che hanno sempre esercitato su di me, fin da quand’ero piccolo, i luoghi e i paesaggi. E con luoghi intendo anche le case, le loro stanze, la luce che muta con il passare delle ore, ritmando la tua percezione della vita, il sentimento stesso del mondo. In un saggio di diversi anni fa, intitolato Uno spazio poetico: la «domus» romana (ora in Lo stadio di Nemea), avevo accennato al legame fra luogo e immaginazione: lo spazio che genera immagini; le immagini che si fanno parole. Un rifugio che verdeggia nello spazio di un campo diviene un rifugio dell’anima, e da lì sprigiona le parole del rifugio, di un’intimità speciale, così come le stanze di una casa, con i suoi solai, le sue cantine, i suoi armadi dai cassetti misteriosi producono un loro immaginario più intimo e celato, ora protettivo ora inquietante: l’animo umano si nutre di queste scoperte, che sono materiali e simboliche insieme. L’immaginario della mia infanzia è tutto selvatico e contadino, fatto di cascine, di alberi da frutto, di pioppi, di robinie dai fiori dolci: e le case stesse su cui s’improntano i miei primi sguardi, e dunque la mia intera percezione del mondo, sono sempre case che stanno sull’orlo di sentieri sterrati e polverosi, di campi di granoturco, di nespoli dalle foglie scurissime. Mi ci sono voluti anni, nondimeno, per capire che quell’immaginario non tanto agiva, in me, sul piano dei contenuti, quanto su quelle delle forme, dei modelli percettivi che si stratificano inevitabilmente nel nostro animo fin dalla nascita: le mie poesie sono pensate come spazi, ma come spazi in cui all’ombra protettiva di una stanza corrisponde la verticalità di un cielo, o la selvatichezza di un paesaggio solo in parte addomesticato dalla mano dell’uomo. Le parole della poesia che amo di più sono quelle in cui la dimensione della quotidianità s’impenna all’improvviso, e si fa altro da sé, pur senza cancellare la percezione prima, quieta e statica, del mondo. Anche l’idea di tempo, di cui ho parlato nel mio secondo libro, non poteva agire se non nella forma di uno spazio stratificato: un bosco nel quale all’improvviso si aprono radure, ci si perde per uno strano sentiero, in un fiorire di memorie remote e inabissate, forse ancestrali.

Hai viaggiato molto? Quali sono le città che ami di più e perché?

Credo di essere un viaggiatore assai modesto, di non avere insomma il gusto dei viaggi e degli spostamenti: forse perché amo troppo Milano, e mi viene subito la nostalgia quando devo andarmene, sia pure per pochi giorni. E forse anche perché, tranne Milano, non amo in genere le città, né grandi né piccole: le metropoli mi annoiano, come se fossero entità astratte, prive di una loro verità umana; e le città di provincia, anche se nobili, mi intristiscono. Amo Milano – com’è inevitabile – per una mia mitologia personale, fatta di lastricati, di binari del tram, di cortili, di quel suo cotto vivo e terroso, ma sempre sobrio, di cui sono testimoni i mattoni della Ca’ Granda, dove ho passato i miei anni dell’Università; ma anche per la sua natura civile, eredità delle riforme felici di Maria Teresa e di Giuseppe II, di quel tempo utopico e grande, forse irrecuperabile, che fu l’età dei lumi. Vagare per questa città, a piedi o sui suoi tram ombrosi e sognanti, mi dà una strana sensazione di benessere, una sorta di ebbrezza leggera. Gli unici viaggi che mi appassionano sono quelli verso le isole greche dell’Egeo, le Cicladi cui ho dedicato una sezione di Bosco del tempo, ma anche Kythera, l’isola di Afrodite, che compare esattamente al centro del mio ultimo libro: un luogo di sospensione e di luce, in cui le forze possenti e disgreganti del cosmo sembrano trovare come un’improvvisa pace. Quel che mi conquista da sempre, delle isole greche, è la loro energia fisica, il puro dato materico, che si sente all’improvviso appena sali su una nave, come se acqua, terra e cielo si saldassero in un’unica percezione: «Brucia in voi, onde, come un fuoco / severo, / un fiato d’ambra, minerale. Tutto è / nel vostro azzurro senso, in questo / tempo fisso // di luce e di sale».

Cosa ti piace di più e cosa ti piace di meno del tempo in cui viviamo?

Al mio tempo sono grato per la libertà che ci ha concesso: libertà della coscienza e libertà della parola, ma anche libertà nella scelta dei propri modelli di vita. So bene che la libertà, in ogni epoca, e tanto più nella nostra, è qualcosa che sta sempre in bilico, e che a volte può ridursi più a un simulacro che a una sostanza: le derive populiste di questi anni, i processi di falsificazione che stanno minando le istituzioni del mondo occidentale, la maligna e dispettosa insofferenza dell’uomo-massa nei confronti della vita culturale, la volgarità spettacolare e mediatica che avvolge ogni nostro atto, l’oltranzismo querulo e astratto di tanti intellettuali stanno lì a dimostrarcelo ogni giorno. Eppure, noi continuiamo a vivere in un contesto in cui possiamo ancora leggere, pensare, viaggiare, sognare con una libertà forse sconosciuta prima della mia generazione. 

Ti potresti definire un ottimista? E cosa significa per te questo aggettivo?

Ottimismo e pessimismo definiscono un moto della volontà, che non pertiene – contrariamente a quanto generalmente si crede – all’ordine della conoscenza, ma a quello della vita morale. Chi pensa, o, più semplicemente, chi guarda alle cose del mondo con animo libero, non può essere né ottimista né pessimista: deve dire ciò che vede, prima ancora di ciò che sente; descrivere la condizione dell’uomo nello spazio infinito del mondo. Se guardi alla vastità dei cieli, che è il tema del mio ultimo libro (Il moto delle cose), non puoi non sentire gli ingranaggi di una macchina che non è fatta per nessuno, tranne che per se stessa: la musica delle sfere non ci è più permessa, dopo le acquisizioni della scienza moderna; noi siamo condannati al vero, anche quando cerchiamo di contrastarlo. Altro è ciò che ricade nella sfera della vita morale. Qui la penso come Epitteto, che nel famoso Manuale – magnificamente volgarizzato da Leopardi – inizia dicendo che «le cose sono di due maniere; alcune in nostro potere, altre no»: solo sulle prime possamo esercitare la nostra libertà, e sperare – dipenderà dai contesti storici in cui ci è capitato di vivere – di poter ambire a qualche sorta di felicità. 

La parola della poesia, nondimeno, non disegna solo traiettorie oggettive: affonda negli strati profondi della nostra psiche, nella materia dei sogni e dei desideri, e dunque dei mondi impossibili. Amplia la nostra conoscenza addentrandosi in quelle cavità del cuore e della mente che si sottraggono da sempre agli eventi del cosmo come a quelli della storia. Quel che mi ha spinto alla poesia, alla poesia più di ogni altro mezzo espressivo, è proprio questa complessità e potenza della parola, che può suscitare più mondi di quelli che esistono: la sua energia immaginativa, questo operare sulla soglia tra immaginazione e vero, realtà e sogno, è ciò che rende la scrittura così ricca di forza emotiva e di pensiero aumentato. Le scienze e la filosofia possono anche avvilirci, benché ogni atto conoscitivo sia in grado di suscitare un sentimento di grandiosa verità; ma la poesia, come i romanzi, la musica, l’arte in generale, possiedono una loro speciale vitalità che trascende la nostra stessa condizione. 

Ci sono cose che non hai mai fatto e che vorresti fare?

Ce ne sono così tante, che nessun catalogo – per quanto esaustivo – le potrebbe contenere. Alcune restano come una spina nel cuore: per esempio suonare la chitarra classica, che studiai per un paio d’anni, e abbandonai per l’impazienza – forse fatale – che è degli adolescenti; oppure correre il Tour, anche da gregario, anche da ultimo della corsa, o meglio, come un tempo era ancora possibile, da «isolato». Oppure mettersi per un anno sulle navi che solcano l’Egeo, e viaggiare – inverno o estate non importa – di approdo in approdo, seguendo i venti che ti spingono, o l’estro del tuo animo. Eppure, a volte ho come la sensazione di averle fatte davvero queste cose: basta sentire il Capriccio arabo di Tárrega interpretato da Segovia, o leggere delle imprese di Bottecchia al Tour del ’24 e del ’25, per avere la sensazione di aver vissuto tutto questo. 

Rispetto al passato, cosa è cambiato in te? 

Quand’ero giovane, non riuscivo a comprendere la viltà, la stupidità, il pressapochismo, l’inettitudine di cui mi pareva impregnata ogni azione umana. Oggi, se mi capita ancora di sdegnarmi, vedo però la fragilità della nostra specie, che in fondo ci ispira pietà proprio per lo stato di miseria in cui è costretta quotidianamente ad agire. L’uomo è questo pauroso, enigmatico impasto di acutezza e di autolesionismo, di ideologie forsennate e di pensare eroico. E ogni generazione deve fare i conti con nuove forme di presunzione e di stupidità, di mitologie e di illusioni: come se non ci fosse concesso di pensare qualcosa di buono senza cadere in un abisso di vaniloqui e di sciocchezze. Saggezza, in fondo, è averne sentiti molti, di quei vaniloqui, e averne tratto le conseguenze. Pensa al Novecento, o agli stessi poeti: e parlo solo dei poeti di valore, perché degli altri è meglio tacere. Quante borie, quante vanità, quante poetiche che pretendevano di dire una volta per tutte cos’è la poesia: e quanta furente supponenza nel sostenere a spada tratta che si può scrivere solo in rima o senza rima, solo in metri o solo in verso libero, che la lirica è morta, che il futuro è poematico, che bisogna essere assolutamente moderni, che esiste una poesia del significante e una poesia del significato, che i poeti sono i legislatori del mondo, ecc. Ma gli uomini non possono agire se non come un pescatore che getta il suo povero amo, e non sa cosa pescherà, se poi pescherà qualcosa: bisogna buttare milioni di ami, perché venga a galla qualcosa di buono. E occorre sopportare che si scrivano milioni di poesie, per poter leggere Le ricordanze o La casa dei doganieri. Certo, il criterio si fa molto pericoloso quando lo applichiamo all’universo sociale: ci sono esperienze da cui non puoi tornare indietro se non dopo un terribile turbine di disgrazie e di lutti. Per questo non possiamo essere indulgenti verso i ciarlatani della politica; e per questo le istituzioni democratiche sono state costruite per rallentare ogni decisione: il buono della democrazia non sta nella sovranità popolare, ma nel rendere impossibile questa sovranità, e insieme nell’impedire che il potere cada nelle mani di pochi o, peggio, di uno solo. 

Hai progetti per il futuro?

Ne ho troppi, temo. Ma sono una macchina pigra, che tende ogni volta a rinviare la realizzazione a tempi di là da venire. In fondo ho sempre scritto, per rimanere a questo, ai margini del mio sentire e del mio pensare: ho desiderato la poesia più di quanto non l’abbia voluta, eludendola ogni volta che potessi, arrendendomi a un verso solo quando non ne potevo più fare a meno. Forse soffro di accidia; ma a volte ho come la sensazione che questa mia natura sia stata una sorta di astuzia dell’anima per evadere il senso del nulla e del tedio, i grandi mali che affliggono l’umanità da sempre. Per chi scrive poco, ogni verso pare come un dono del cielo: non ti sognavi neanche di poterlo scrivere, di poterci arrivare; vederlo, all’improvviso, ti rende felice. 

Cinque poesie da “Il moto delle cose” (Mondadori 2017) 

Pochi versi, ma veri.

Pochi versi, ma veri.

Valgano per te, come per me. 

Che siano limpidi – per guardare il cielo 

alto –

e severi, se così è il tuo animo.      

*

Rovine, trombe, quando

Rovine, trombe, quando

chi siede, in un giardino

di pensieri e di aranci, sente

all’improvviso un urto, scricchia

il terso dei cieli, s’incavedia

il lume della vita – arco, stame

sfinge

*

E nascemmo

E nascemmo

alla vita che già c’era. 

Le cose

c’erano, le tante, le inaudite

cose, di cui c’invaghimmo

a poco a poco. 

E noi guardavamo 

l’aria che luceva 

e piove e nevi

e soli che stagnavano, tiepidi,

nelle mattine troppo 

quiete.

E guardammo, un giorno, i nomi

le parole prime, scure,

che dicono sì e no, che oscillano

tra le cose

*

Piogge di novembre

Dorme, lui, uno come tanti, 

nella sua cella di polvere e anima, seme

dopo seme, giorno

dopo giorno, è freddo, è notte, è un giorno

di primo autunno che si compie

nella sua mandorla di luce

ultima, troppo umana. Necessità

lo unge, contro ogni pena. Piove

fuori, piove

nel sogno della mente, che si ritira

in un impluvio remoto di forme, stampi, 

crune

del tempo che si assottiglia

e l’acqua che scende è madre,

e l’acqua che scende è ade… presto

sarà inverno, e piove e fuochi e nevi

si va, sui remi,

incontro a un unico destino

*

Un presente remoto

(Polvere stellare)

Vengono, da un tempo 

che non è più, da un punto

smemorato del mondo, fionde

di una luce persa,

abissale. Urta, annaspa, 

l’anima, s’infiamma

nella materia, vaga,

del cielo, s’incrinano

le anfore – attonite, vaste – 

degli occhi, nero

che si fa nero, fuoco

che s’impenna, arde

delira

in cunicoli di cosmo, 

in tavole

di tenebra

*

Giancarlo Pontiggia, milanese, ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Con parole remote (Guanda, 1998), Bosco del tempo (Guanda, 2005) – entrambe riedite nel volume complessivo Origini (Interlinea, 2015) –, Il moto delle cose (Mondadori, 2017). Per il teatro ha scritto Stazioni (Nuova Magenta, 2010) e Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002), Lo stadio di Nemea (Moretti & Vitali, 2013), Undici dialoghi sulla poesia (La Vita Felice, 2014). Nel dicembre 2019 è uscita per i Quaderni di Stampa la plaquette Voci, fiamme, salti nel buio.

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