Su “A grandezza naturale. 2008-2018” di Raffaela Fazio

Su “A grandezza naturale.2008-2028” di Raffaela Fazio, Arcipelago Itaca, 2020. Nota di lettura di Carlo Giacobbi

Nella silloge in commento, Raffaela Fazio opera una sorta di redde rationem della sua produzione poetica intercorsa tra il 2008 ed il 2018.

Un decennio, dunque, che ci consente di sviluppare un’indagine diacronica sugli aspetti contenutistici e formali assunti dalla poetessa a cifra stilistica della propria versificazione.

A voler effettuare una sorta di sistemazione dei topics rinvenibili nel macrotesto, con tutti i limiti insiti in ogni intento classificatorio, si potrebbero utilizzare tre categorie ontologiche: a) l’essere in mundo (di cui alle sezioni “Il senso e l’andatura” e “Cento modi per chiamare o nessuno”); b) l’essere pro mundo (pertinente alle sezioni “Voci abitate”, “Prospettiva inversa” e “Tra visione e forzatura”); c) l’essere ultra mundo (relativo alla sezione “Altro da Te”).

Le categorie di cui s’è fatta menzione, infatti, sembrano connotare la  linea diegetica del corpo testuale, ove l’io, principiando dalla propria contingenza, ma in una progressiva maturazione della sua kènosis, si rende spazio d’asilo dell’altro-da-sé (degli affetti parentali, del rapporto amoroso) fino a giungere all’indicibile del Totalmente Altro, così ponendo in dialettica immanenza e trascendenza, per mezzo di modalità espressive che evocano, specie riguardo ai temi, le inquietudini luziane.

La Fazio assume a motivo poetico la questione del senso, del telos d’un voyage, ovviamente esistenziale, che indaga la sua andatura per mezzo d’una corporeità, rectius, di un “corpo” (cfr. p. 25) di cui l’autrice denuncia limiti e contraddizioni (quali ad esempio il suo essere “fuori posto” (cfr. ibidem), il suo non avere “coerenza né confini o validi argomenti”, cfr. ibidem).

L’io-lirico, consapevole dell’imperscrutabilità degli eventi, del fatto che “Non ci è dato sapere / qual è il tempo, né il modo” (cfr. p. 17), sembra invenire una possibilità gnoseologica nell’attraversamento del dolore (cfr. p. 17 cit., “il dolore ha il suo guado”) e coniuga la percezione dell’hebel qoelettiano (dell’ “Essere un niente, un soffio” di p. 43) con la pervicace volontà di essere, sia pure quel niente, ma “a ogni costo” (cfr. p. 43 cit.).

Una prova, così la definisce la Nostra, di cui farsi carico in prima persona, poiché il “cadere, rialzarsi” (cfr. ibidem) in cui si sostanzia il mestiere di vivere, è fatto proprio, non delegabile: “non c’è delega / in questo” (cfr. ibidem) sentenzia la poetessa.

È un dire, quello della Fazio, che sebbene conscio della finitudine umana, del “poco fiato / del cuore caduco che spera” di p. 42, non ripiega in pose nichilistiche o in forme di vittimismo compiaciuto.

L’autrice, anzi, reagisce alla vanitas, opponendo al breve soffio dell’esistere o al “tempo (che) si fa breve” (cfr. p. 76), l’eccedenza dell’amore, la sua dismisura sul facere, sul quotidiano e spesso sterile affaccendarsi, convinta, appunto, che “l’amore eccede il fare” (cfr. p. 20), che “Non c’è amore / (…) / che è sprecato” (cfr. p. 29) e che, in definitiva, ciò che dà senso all’essere in mundo è “soprattutto amare” (cfr. p. 43).

Ma più che di opposizione, si tratta qui di abbandono, di fiduciosa resa al “destino” (cfr. p. 52) che accomuna “ogni uomo” (cfr. ibidem), di offerta del sé “al mondo” (cfr. ibidem) nonché “al cielo” (cfr. ibidem), nel momento in cui, in tale ultimo caso, al termine dell’esperienza terrena, ciascuno sarà “una cosa sola contro l’orizzonte” (cfr. ibidem), per diradarsi in esso, per lasciarsene assorbire.

Nelle partizioni mediane dell’opera (pp. 81-144), il dettato poetico è abitato da voci familiari (cfr. III, Voci abitate, pp. 79-91); l’autrice pone in dominante la dimensione domestica dei primitivi legami affettivi, i flashbacks di un’infanzia resa mediante un immaginario rassicurante: “Il filo di luce / sotto la porta chiusa” (cfr. p. 81), “il libro di preghiere” della nonna (cfr. p. 82), la “calda (…) teiera” (cfr. p. 85).

Più in là, la prospettiva tematica si fa inversa (cfr. IV, Prospettiva inversa, pp. 93-119): all’essere nipote e figlia succede l’essere madre; madre che riconosce stupita nei figli una forza gratuitamente concessa (cfr. p. 95, “Che strana forza la forza / che mi concedi”) e che, essendo in intima unione con gli stessi (cfr. p. 109, “Sizigie”), deve anche naturaliter soffrire per il loro pianto, per i loro silenzi (cfr. p. 114, “gli occhi rossi, il viso rigato / c’era in te più silenzio / che nel resto del cosmo”).

In “Tra visione e forzatura” (cfr. V, pp. 121-144) la poetessa oscilla tra amore e disamore; da un lato non crede nell’amore che si erge “spavaldo” – cfr. p. 124 – (nel suo darsi, forse, come entità definitiva e prevaricatoria), prediligendo quindi la dimensione cairologica dell’attesa; dall’altro lo invoca come già presente e lo esorta a restare, a rendersi diuturnus per mezzo di un’opzione atta a rinnovarlo quotidie: “Amore rimani. / Aiutami a sceglierti / anche domani” (cfr. p. 126). Nella dinamica relazionale di cui trattasi, infatti, nulla può ritenersi definitivamente acquisito, poiché l’amore è un farsi, sempre in fieri, commixtus di prossimità e lontananza, tale da non poter essere uguale a se stesso (cfr. p. 137, “l’amore (…) / non sarà lo stesso”) poiché sempre in divenire.

La silloge si chiude con la sezione “VI. Altro da te”. In essa, la Nostra, chiama in causa la trascendenza, il divino, l’assoluto a-spaziale ed a-temporale che si relativizza nel tempo e nello spazio (cfr. p. 147, “Ossimoro incarnato”) per rendersi universale, accessibile a tutti, essendo “Dio dei diademi” (cfr. p. 147) ma anche e soprattutto “dei fondi di bottiglia” (cfr. ibidem); entità di cui la Fazio invoca la chiamata infinita (cfr. p. 150, “Never-ending”), la sorpresa dell’ancòra di più (cfr. p. 151, “Noch Meher”), l’orizzonte di un oltre “che non delude” (cfr., ibidem), di una “luce” (cfr. p. 154) che vinca “la notte grande e vera” (cfr., ibidem).

Molto ricco è l’apparato figurale ove si rinvengono, a titolo esemplificativo: anastrofi (cfr. p. 106, “Vorrei avere / terrose / le vostre tasche di bacche e sassi”); polisindeti (cfr. p. 90, “e mi rispondi e mi parli / e ti rispondo e ti offro la colazione”); anadiplosi (cfr. p. 59, “Vorrei avere tempo. Tempo da perdere”); anafore (cfr. ibidem, “Vorrei avere tempo (…) / Vorrei un’anima (…) / Vorrei che il fuori (…)”; similitudini, anche con onomatopea (cfr. p. 115, “come il “tac” a sorpresa / di una goccia sul naso”); versi con cesura in due emistichi (cfr. p. 73, “Io la incurvo al sorriso. / La esploro.”); epanadiplosi (cfr. p. 133, “L’amore colpisce l’amore”).

A livello prosodico si ravvisa un continuum che percorre l’intera silloge e che si sostanzia in misure versali brevi, connotate da marcati rimandi fonici.

Nel corpus lirico, infatti, certamente non atonale data la densa dispositio degli ictus, si rinvengono rime in clausola (cfr. p. 102, “sordina” / “farina”) o al mezzo (cfr. p. 21, “ancora vetro: / cerchiamo il metro, la giusta misura” e diffuse assonanze (cfr. p. 57, “altrove” / “pudore”) che enfatizzano la melopea del dettato.

Non si vuol certo dire che la Fazio assuma a modelli della sua pronuncia le forme chiuse della tradizione: i versi sono comunque anisosillabici e spaziano dal monosillabo (cfr. p. 125, “no”) al cd. verso-parola (cfr. p. 61, “Poesia.”) a metri eccedenti l’endecasillabo (cfr. il tredecasillabo di p. 158, “Forse è un versare di brodo ogni sera”) e purtuttavia combinati in modo tale da imprimere ai testi una distinguibile scansione rimica di impronta caproniana o, a voler individuare un exemplum contemporaneo, marcoaldiana.  

L’autrice, con “A grandezza naturale”, ci consegna un’opera matura, caratterizzata da coesione tematica e uniformità stilistica, dalla versificazione asciutta, nettata da ridondanze verbo-nominali o aggettivali, frutto d’un accurato labor limae, d’un procedere cioè per sottrazione, che, tuttavia, mai priva la pronuncia della sua intentio comunicativa, di quell’audacia di dire che – ci sembra di poter affermare senza tema di smentita – assurge a cifra distintiva del facere poetico della Nostra valente poetessa. 

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