Minibiografia intellettuale

La prima maestra è stata la natura: m’incantavo a guardarla, e ho capito quasi tutto. A scuola t’insegnano a dimenticare ciò che hai appreso troppo facilmente. In primina, furono notevoli le uova di Pasqua colorate della signora Spina, una maestra di cui ricordo solo che era alta e bionda: memoria senza volto. Le uova, però, le ricordo benissimo: nelle narici, ho ancora il loro odore forte, inconfondibile, un odore che ha dato senso a un anno. Il resto delle elementari è stato il regno della Battistoni, di cui mi rimane l’aria dolce, ma anche la ferita del quattro in matematica, difficile da rimarginare. Il percorso che coprivo a piedi prevedeva il passaggio accanto a una caserma di pompieri, simbolo di qualcosa che minaccia sempre di spegnere il fuoco dello spirito.

La prima media, all’Eur, fu un covo d’insegnanti stravaganti: dalla prof di greco, emersa dal caos primordiale con la sua borsa strapiena di oggetti, alla gelida Cona, con la quale rischiai di tornare a settembre – per matematica, ovviamente . Seconda e terza media furono marchiate a fuoco dalla Montefusco, personaggio da fumetti alla Alan Ford, che però rese possibile il miracolo di farmi innamorare della Commedia dantesca. Fu allora che scoprii il mio amore per le lettere. La Fuscaldi non si limitava a insegnare, ma era anche una mamma, il massimo per uno come me, sempre in cerca di affetti sicuri. Il liceo fu tempo di amori, uno scialo di talenti che non mi impedì di fare grandi scorpacciate di cultura – soprattutto letteraria – grazie al Todini, insegnante all’antica che sapeva trovare il giusto mezzo fra autorevole presenza e umanità. Di lui ricordo un verso che diceva tutto: “Monti d’Abruzzo, datemi il vostro cuore di pietra”. In quegli anni presi a scrivere, e fu lui il mio mentore. Scoprii anche che in un prof di matematica era possibile sorprendere tracce di umano. Il Bini mi colpì a tal punto, con la sua apparizione, che portai matematica all’esame di maturità, con risultati disastrosi: l’ovvio sessanta fu scalzato da un cinquanta indecoroso.

Approdando alla facoltà di lettere, la prima cosa che vidi fu una scritta sulla porta della biblioteca: “vietato l’ingresso ai cani e ai ciellini”. In compenso, diventai uno dei pupilli di un ordinario cattolico, Mario Petrucciani, il quale si stupiva del fatto che riuscissi a pubblicare ogni cosa che scrivevo. Il centodieci e lode mi risarcì dell’imprevista débâcle liceale.

L’università pontificia mi fece scoprire la spiritualità orientale, legata ai grandi russi: Solov’ëv, Berdjaev, Evdokimov, oltre, ovviamente, Dostoevskij, che mi ha sempre accompagnato. Di Italo Calvino mi taccio (ne ho parlato troppo, come di Mario Vargas Llosa). Poi c’è l’avventura della rete, coi suoi incontri più o meno virtuali. Fra tutti, Tiziano Scarpa, premio Strega, autore di una prefazione al mio libro più intenso su don Mario. La allego, perché è quanto di più vero, in quest’ambito, abbiano detto su di me. Un’esperienza esaltante fu quella – lo dico come se scrivessi già dal paradiso – del blog letterario: non vorrei fare nomi, perché sarebbero troppi. Credo di non offendere nessuno, tuttavia, se nomino Antonio Sparzani, caso rarissimo di intellettuale affettivo, e Franz Krauspenhaar, talmente lontano da me prete, da risultare vicinissimo. Ma il mio vero ispiratore è stato ed è don Mario Torregrossa, di cui parlerò per il resto della vita: portare avanti la sua opera, dal punto di vista intellettuale, è l’ardua missione che il Signore mi ha affidato in collaborazione con Sabina Trane, da beatificare ancor prima della morte. Qui finisce l’avventura, anzi, comincia, perché in cielo nulla si perde di quanto è stato vero.

Tiziano Scarpa, prefazione a Prêtr(re) à porter.

              Ho avuto un’educazione cattolica. Il mio cristianesimo personale si è rotto durante l’adolescenza, per due motivi. Da una parte, obiezioni teologiche alle quali non ho avuto risposte soddisfacenti. Dall’altra, un desiderio di radicalità, di mettere in atto davvero ciò che chiedeva Gesù: mollare tutto, a costo di porsi in conflitto con i propri famigliari; scelte di vita che contrastavano con la versione borghese, decorosa, insomma veneta del cristianesimo che mi circondava. Però è ingiusto adesso dare la colpa alla mentalità del mio ambiente; semmai, la mansuetudine perbenista dei miei conterranei avrebbe dovuto potenziare la mia fiamma, per farmi dare battaglia con più passione. La verità è che ero io ad avere poco coraggio e, con il passare del tempo, sempre meno convinzione; anche per i dubbi teologici a cui ho accennato. La mia fede ha scricchiolato facendo crollare speranza e carità.

              Mi ricordo che in quegli anni turbolenti cominciavo a capire che la mia passione era la scrittura. Lo confidai a un sacerdote che avevo appena conosciuto. Avrò avuto diciassette anni, ero ad Assisi, in un raduno di giovani della GiFra, la Gioventù Francescana. Mi presentarono questo prete. Gli dissi che mi piaceva scrivere. All’epoca me ne vergognavo un po’. Era una confidenza al limite di una confessione, quasi come se si trattasse di un peccato, una cosa lievemente sordida, da fare di nascosto. Non lo spiattellavo in giro, di certo non me ne vantavo. Lo dissi a lui perché mi avevano detto che era una persona che aveva un carisma speciale, sapeva darti parole vere, che lasciavano il segno. Non ti aveva mai visto prima, e con una frase ti ustionava per sempre. Un oracolo. Può darsi che le mie aspettative fossero troppo alte. Sta di fatto che gli feci questa confidenza confessionale, o confessione confidenziale: mi piaceva scrivere. Lui mi rispose sorridendo: “Perché aggiungere altri libri a questo mondo, quando c’è già tutto nella Bibbia?”

              Credo che sia la frase più cretina che io abbia mai sentito pronunciare. In questo senso, ha lasciato il segno. Non me la sono più dimenticata. A distanza di trent’anni, eccomi ancora qui a citarla. La serbo nella memoria perché rappresenta perfettamente un certo tipo di atteggiamento cristiano, una delle sue attuazioni possibili. Gli esseri umani sono qualcosa che accade fuori dai libri, sono nettamente esclusi dalla testualità, sono tutto ciò che è esterno alla parola scritta. La loro vita non può e non deve farsi testo. Non c’è nulla da aggiungere alla scrittura. Le parole si sono fissate una volta per tutte. Il resto è superfluo. Non c’è nulla che valga la pena di aggiungere alla parola divina. La parola o è divina o non è. Solo la parola di Dio è scrittura. Le generazioni vivono per vivere, e basta, non per essere scritte, non hanno nulla da tramandare di sé. Né hanno bisogno di specchiarsi nelle parole che scrivono. Scrivere non serve né a trasmettere qualcosa di rilevante agli altri, né a comprendere meglio sé stessi, ciò che si pensa, ciò che si vive.

             

              Per il fatto stesso di scrivere, gli autori cristiani mettono in dubbio la definitività della parola del loro Dio. Non è vero che c’è già tutto nella Bibbia, nemmeno per loro che ci credono. Dante, Kierkegaard, Dostoevskij erano quelli che mi avevano impressionato di più. Non è un caso che siano quelli più isterici, dove non si capisce mai qual è il confine fra esistenza e metafisica; i più cristiani, in questo. Rimestati da sé in un impasto che procura crisi di nervi, grafomania, vertigini stilistiche, verbigerazioni, collassi.

              L’estate scorsa ho letto con emozione il Diario di un parroco di campagna, di Nicola Lisi. Forse è quella la vera scrittura cristiana, il diario, l’addizione di giornate, senza filo logico, senza trama. L’affondo verticale nell’evento. Quello che succede. Lo sfolgorio dell’apparizione. Il comportamento misterioso di uno sciame di farfalle. La visita a cavallo di un vecchio amico che era morto da anni. I rumori notturni. Il sospetto che ciò che è accaduto oggi, uscendo a fare una passeggiata, fosse uno squarcio da cui sprizzava la luce di un altro mondo, o di questo mondo in versione migliore, adeguata alla sua potenzialità, la creazione realizzata nella sua pienezza, per qualche istante.

              Fabrizio Centofanti è uno scrittore cristiano, o meglio, è un cristiano scrittore. E dunque è un genere speciale di cristiano. La Bibbia da sola non basta. La Bibbia contiene tutto o quasi, anche il contrario di sé stessa, ovvero il contrario di ciò che uno si potrebbe aspettare: le dichiarazioni di odio contro la vita, per bocca di Giobbe e di Qoelet, come ricorda puntualmente don Fabrizio. Ma non contiene la nostra vita, oggi, non dice quello che sta accadendo adesso, alle diciotto e cinquantuno del trentun marzo duemiladieci, mentre sto scrivendo queste parole, non dice quello che sto scrivendo e che quindi sopravviverà a queste ore diciotto e cinquantuno del trentun marzo duemiladieci. La scrittura è la zona di affondo nell’impasto di vita e eternità, è la sua zona isterica.

              Possiamo leggere Fabrizio Centofanti in vari modi. Possiamo non dimenticare mai che è un sacerdote che sta scrivendo, e quindi ogni sua parola è come se ne avesse un’altra, scritta sotto, che le fa da accompagnamento, o controcanto. Ma attenzione: non intendo dire che quest’altra parola sia necessariamente la parola biblica, la parola giusta, dogmatica, quella che un buon credente, per di più credente affidatario delle funzioni sacramentali, dovrebbe avere sempre presente in ogni circostanza. L’altra parola non è per forza la parola giusta in quanto parola biblica, parola divina scritta una volta per tutte, alla quale non c’è null’altro da aggiungere… Può essere, sì, quella con cui misurare la distanza fra ciò in cui si crede e ciò che si dice (per esempio, se scappa un improperio in autostrada, fa effetto che sia stato don Fabrizio a dirlo: è lui stesso a notarlo, e a farcelo notare; è lui stesso ad avvertirci quanto sia importante che a scrivere e a dire certe cose sia un prete, uno che disporrebbe di un’altra parola, una parola che non è sua). Può essere anche la parola che constata la dismisura fra le aspettative e le circostanze sgangherate in cui ci si trova ad agire (ma anche in questo, la Bibbia porta conforto, e l’altra parola, la parola sottostante, fa ricordare a don Fabrizio che prima di lui c’è stato qualcun altro che si è ritrovato in mezzo a improbabili banchetti matrimoniali, male organizzati, dove non c’era nemmeno da bere a sufficienza).

              Certo, la parola di Fabrizio Centofanti è quella consapevole di quell’altra, e anche della sua mancanza: “Gesù ha scritto qualcosa, certamente. Ci sarà una pergamena, in qualche posto, un codice, un frammento in cui ha inciso le parole che non volle rivolgere ai discepoli o alle folle, ma consegnò al silenzio della materia inerte, perché prendesse vita. In fondo il sogno di molti – o pochi, non lo so – è imbattersi in qualcosa scritto da Dio: un autografo in cui afferrare il senso, ritrovare il filo. Un sogno da cui ricominciare, per credere di nuovo”.

              Ma la parola di Fabrizio Centofanti è anche quella che sa uscire, che fa a meno dell’altra, che rischia, che si lancia all’esterno senza garanzie, e senza la severità o la condanna o la consolazione dell’altra parola. Allora si immedesima fantasiosamente nella parola degli altri: rom, morti in attentati epocali, presidenti, piloti di aerei, politici cinici, impiegati comunali, papi che rifiutano di essere fatti santi, scrittori immaginari. E si lancia fuori di sé, oltre che fuori dall’altra parola. Anche in questo, assume un peso tutto diverso. Che cosa succede, a un sacerdote che potrebbe riferirsi sempre al Vangelo, quando parla anche extraevangelicamente, quando non scrive meditazioni su un passo della Bibbia né fa delle proprie giornate una chiosa della Scrittura? Quando racconta una sua esperienza da studente, un suo ricordo d’infanzia, un viaggio giovanile a Londra?               

Personalmente, sono rimasto commosso da tutte le parole offerte alla memoria di don Mario, un vecchio parroco dal forte carisma, il cui esempio e la cui direzione spirituale devono evidentemente avere contato moltissimo per il giovane don Fabrizio. Ho prediletto in particolare queste parole, “ho amato don Mario più di Dio”, l’offerta che esse incarnano, il coraggio di averle scritte, con tanta semplicità, e potenza. È una parola che esce dai confini, dalla giurisdizione dell’altra parola che dovrebbe amorevolmente tutelarla, eppure non la tradisce, le si allontana senza smettere di guardarla in faccia, e di chiederle una risposta. E ho prediletto anche i brani in cui don Fabrizio raffigura i suoi momenti di insofferenza, fatica, sudore, conflitto, attrito. Ma invece di riassumerli con pochi cenni opachi, preferisco riportarne qui uno, perché anche questo mio piccolo scritto si chiuda con una parola altrui, un’altra parola, la bella parola di Fabrizio Centofanti:

              “D’estate il prete resta solo. Per modo di dire, s’intende. La folla che ti assedia è sempre là, cerchi affannosamente un buco nell’agenda per l’ennesimo appuntamento che ti chiedono. Ma quelli che dovrebbero aiutarti sono in giro per il mondo, in posti ameni. L’idea stessa ti solleva: “stiamo riposando per voi”. Anche questo è solidarietà. Il problema è quando tornano: rigenerati, pieni di energie, pronti a notare ogni mancanza, mentre tu stai esalando l’ultimo respiro. Però non muori mai, sarebbe troppo semplice. È il bello del prete. Ho provato a spiegarlo ieri in uno degli innumerevoli matrimoni che celebro nel mese di settembre: citavo la scena di una pattinatrice (la sposa stessa) che lancia una rosa verso il suo ragazzo (lo sposo), seduto tra gli spettatori; lui, chissà perché – è distratto, o pensa che non sia diretta a lui – la lascia passare e finisce chissà dove. Dicevo che Dio è uno che lancia rose a vuoto, disposto ad accettare la nostra indifferenza. Il prete, figlio di tanto Dio, deve fare lo stesso. Riempie il mondo di rose, a volte inutilmente.”

5 pensieri su “Minibiografia intellettuale

  1. Riccardo Ferrazzi

    Che dire, Fabry? Ti invidio per tante cose, soprattutto per la fede incrollabile, ma anche per la tua capacità di sormontare le difficoltà quotidiane. Merito della fede, dirai tu. Ma è anche un merito personale, come quello del soldato che non combatte solo quando va all’attacco: sa combattere anche in ritirata, arretrando, ma sempre rivolto al nemico. Più invecchio e più mi accorgo della mia stanchezza, della mia incapacità di continuare a combattere arretrando. E penso a te come a un esempio.

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