L’ombra che ci abita: una rilettura poetica del mito


di Raffaela Fazio

 

Qualche tempo fa, nel presentare la mia raccolta poetica Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017) dedicata a 28 personaggi femminili della mitologia classica, ho privilegiato, come possibile chiave di lettura, quella dell’ombra.

 

In questo contesto, mi limiterò a citare poche figure che esemplificano il tema e che possono essere raggruppate in tre categorie. Nella prima, l’ombra è presenza fatale, perché non risanata. Nella seconda, essa è un’opportunità, perché in parte ascoltata ed integrata. A queste due si aggiunge, in una riflessione conclusiva, l’ombra considerata come inevitabile alter ego.

 

Come presenza nefasta, l’ombra può rappresentare la propria paura. In particolare, il timore della perdita della persona amata: un timore sano se consapevole, ma deleterio se artefice di una visione distorta, perché finisce col trasformare in realtà il fantasma che prima ha creato. È il caso ad esempio, nella mia rilettura, di Ero e di Procri. Nell’attesa a distanza, Ero paventa il disamoramento di Leandro, teme che la “fiamma” dell’amante si estingua (Perché esita a lungo?/ Dove quei baci/ disordinati/ accumulati in fretta?/ E se già stanco/ prima dell’impresa/ si fosse ormai arreso/ a un altro letto?), ma sarà lei che, perdendo la fiducia, lascerà che la “fiamma” custodita si spenga (Dicevi “Amare/ è quello che mi resta”./ Ma il dubbio/ ti ha vinta./ La fiaccola/ si è spenta). Anche Procri sospetta che il suo sposo, Cefalo, non sia più fedele al patto d’amore. Per gelosia, lei stessa soffocherà il “fuoco” sacro e sarà causa della propria morte (Il colpo/ che ti fende il petto/ non è del giavellotto./ È il nome/ innocuo/ che credi tradimento/ l’eco il tormento/ che in te ha soffocato/ prima della vita/ il sacro/ fuoco).

 

L’ombra non affrontata, non elaborata, si tramuta in passione rovinosa, che annienta la ragione e l’intera persona. In Mirra, il desiderio incestuoso prevale sulla devozione filiale (Un nodo il respiro/ il sangue un groviglio/ fa male/ s’accresce/ diventa animale/ l’istinto incompreso/ taciuto/ non scelto./ E vana è la lotta/ a cui ti condanna/ bambina/ la tua voglia di donna/ non figlia). In Medea, la (comprensibile) indignazione per il torto subito sfocia in sete di vendetta e, soppiantando l’amore per i figli, diventa una specie di autoannullamento (Senza casa/ né volto o memoria/ raschi l’ultima traccia/ fino al nero perfetto/ oltre il grido/ più inerme/ nella carne della tua carne/ un conato/ ora il vuoto./ Non fossi mai nata…)

 

Nella sua forma più subdola, l’ombra si accompagna all’auto-inganno. Nella storia di Laodamia, è la reificazione del ricordo: non più il sogno che il passato possa riprodursi, ma l’illusione che la felicità sperimentata si cristallizzi nel tempo (Non t’illudi/ che il tempo ritorni/ ma inventi/ l’istante che si eterna./ Sullo stampo/ lo scolpisci. Nella cera/ l’abbraccio/ in cui vivi e muori/ ogni notte:/ ultima finzione.) In maniera diversa ma analoga, l’auto-inganno di Selene consiste nel credere che si possa sottrarre l’oggetto d’amore al divenire, vincendone la fuggevole natura e il suo intrinseco mistero (Ma i tuoi baci/ ti fanno prigioniera./ Non sai a quali chimere/ danno vita/ nell’infinito sonno/ del pastore/ (fa male la bellezza)./ Lo tocchi/ e ti chiedi/ se è tuo/ davvero/ nel mentre lo possiedi.) Come auto-inganno ho letto anche la fuga da se stesso di Admeto, il quale sarà però aiutato da Alcesti, la sposa (che varca la soglia dell’Ade al suo posto), a confrontarsi con la propria ombra per conoscersi realmente, quando verrà lasciato solo di fronte al limite che gli è proprio e al destino che gli spetta (Sorridi e ti aspetti/ che nel lutto/ l’uomo solo/ rinasca, s’impasti/ di vuoto e di forza./ Non più vino, né canti/ o battaglie. Basta/ il nudo lamento/ accanto a due figli/ la fatica/ della propria paura/ il sedersi sul trono/ di gemme o di ortiche/ che ha apprestato la vita./ Non esiste un’uscita/ dall’ombra/ che ci forma e ci spetta).

 

Ma da presenza nefasta, l’ombra può trasformarsi in opportunità se ascoltata nelle sue giuste rivendicazioni e “depurata”. Attivando infatti la parte positiva in essa contenuta ed impedendo la sua deriva distruttrice si arriva a una diversa qualità di consapevolezza e di esistenza.  

 

L’ombra quale volontà di possesso, ad esempio, può essere disinnescata se il legittimo desiderio di appartenenza ad essa soggiacente viene potenziato ed espresso piuttosto come dono. L’archetipo mitologico della capacità di donarsi è Demetra, che rinuncia alla maternità intesa come proprietà – dovendo Persefone dimorare nell’Ade per parte dell’anno – e diventa “madre” in senso più ampio: consente alla vita di rinnovarsi, permette il ciclo delle stagioni (E quel tuo passo indietro/ in sottrazione/ al Tutto/ ha immesso/ nell’Eterno le stagioni:/ linfa materna/ che a noi dà modo e forza/ di attraversare il vuoto/ – non fine/ ma breve sospensione/ un Forse).

 

Anche l’ombra come volontà di controllo, alla cui base vi è in realtà il giusto desiderio di proteggersi dalla propria fragilità, può essere trasformata compiendo un passo indietro. Circe si vuole padrona degli istinti dei suoi malcapitati ospiti, e li riduce con la magia al loro stato primordiale; ma alla fine si arrende ad Ulisse, si mette a nudo e si apre alla fiducia. Così facendo, arriva a una più autentica consapevolezza di sé e, al contempo, concede anche all’altro una migliore auto-conoscenza, nel dono reciproco della rivelazione (Ma niente/ nell’amore/ è vivo se mansueto./ […] Lo sai/ da che l’ospite nuovo/ ti si è scagliato contro/ da guerriero./ Sulla sua spada/ hai visto/ che eri nuda/ e l’isolasi è infranta. Il talamo/ si è aperto/ al divenire, alla fiducia./ […] A lui che ti ha svelata/ hai dato in dono/ la via verso la morte/ e poi il ritorno). Il controllo si esercita anche tramite la razionalità, con la quale si tenta di tenere a bada il mondo. Arianna crede di dover rinnegare la pulsione istintiva e indomabile, crede che amare equivalga a vincere le forze dell’inconscio, ovvero il Minotauro, arrivando al centro del labirinto e ritornando poi sui propri passi. La sua liberazione arriverà invece al risveglio sull’isola di Nasso, nel momento in cui trasformerà l’abbandono “passivo” subito a causa di Teseo, in abbandono “attivo” al dionisiaco, divenendo sposa del dio dell’ebrezza e lasciandosi dietro tutto ciò che fino ad allora ha conosciuto (Ti slegherai le trecce/ il sangue nelle vene./ Un suono ti conduce/ all’abbandono). Anche Cassandra ambisce, in un certo senso, a controllare il reale, prevedendolo. Desidera ricevere da Apollo l’arte divinatoria ma rifiuta il suo amore; vuole cioè un “dono” senza “donarsi”. Ricerca una visione di pura lucidità senza investirsi emotivamente. Ma la comprensione del reale non può fare a meno del tempo realmente vissuto, non può essere una scorciatoia né una visione distaccata come in uno specchio: dovrà essere compartecipazione integrale. Cassandra è infatti punita: destinata a non essere creduta, la sua conoscenza è sterile. Soltanto alla fine la sua visione sarà riscattata dal dolore, che le permetterà di giungere alla “vera verità”, quando accetterà lo sguardo sulla propria morte (E taci/ come quando/ più bella più forte/ rimarrai in silenzio/ davanti/ alla tua morte).

 

Psiche stessa è mossa da un desiderio di comprensione, in sé legittimo. L’ombra, in questo caso, non è la volontà di controllo, ma la paura di essere ingannata dall’istinto. È giusto che Psiche non si fermi agli impulsi “notturni”; sbaglia però nello strumento che usa, perché indaga l’amore con lo sguardo più superficiale della curiosità cercando conferme nell’apparenza, invece di andare a fondo di se stessa (La vista/ ha cercato/ ragioni/ e si è persa./ Inganna la luce/ lusinga/ in superficie). Il mito di Psiche – dell’anima – si conclude con un successo e, insieme, un insuccesso. Psiche sarà “salvata”, ma non dalla propria ricerca, né dalla sua forza volitiva o intellettuale; sarà salvata grazie all’intervento esterno del dio – e grazie al suo perdono – che la risveglierà, permettendole di accedere a un livello superiore (Ti sveglia/ perché scorda/ il bruciore dell’olio/ sulla spalla/ e ti destina/ al vento:/ con le ali ti offre ali/ di farfalla/ e sfalda/ il tuo passato/ il tradimento).

 

Il mito di Psiche ci ricorda, forse meglio di altri, che nell’affrontare la propria ombra, indipendentemente dall’esito del percorso, l’individuo si trova sempre in presenza del mistero, con il quale dovrà fare i conti, imparando a rispettarlo. Il mistero non è solo esterno all’uomo, naturalmente, ma è anche insito in lui. Lo si intuisce in particolare quando si avverte al nostro interno la coesistenza dei contrari.

 

L’ombra, in questo senso, non è più né limite, né opportunità, ma diventa una silenziosa coinquilina, un perenne alter ego. Persefone, dapprima fanciulla dalle “snelle caviglie” e poi signora dell’Ade, ne fa l’esperienza: in lei coabitano la luce del mondo terreno e l’oscurità del regno ctonio. Persefone comprende alla fine che il piacere non può essere disgiunto dal dolore e, nel mangiare il chicco di melagrana che la riporterà nell’ade, fa spazio all’ombra dentro di sé, come a una presenza sorella che l’accompagnerà per sempre (Poi il chicco/ che tenta le labbra/ e feconda/ ti sdoppia e riunisce/ ti mette nel grembo/ la primavera/ e gemella/ insanabile l’ombra).

 

Nel mito delle due Elenesecondo il quale non è la vera Elena (che vive nascosta in Egitto) ad essere rapita da Paride, ma un’immagine fatta di nuvole e d’aria che Era ha messo al suo posto, può essere ravvisato l’archetipo femminile forse più suggestivo dell’ombra come alter ego. Le due Elene sono le due parti della stessa persona. L’una è l’ombra dell’altra: stabilità e cambiamento, tranquillità e rischio, fedeltà e tradimento, rimpianto e rimorso. In fondo, non c’è una parte più vera dell’altra. E viene da chiedersi se l’Elena più instabile e sognatrice, il simulacro fatto d’aria, sia davvero, come racconta il mito, quella che alla fine svanisce. Nella mia rilettura, questa Elena resta, lascia il suo marchio, come una nuova ruga: segno non d’invecchiamento, ma retaggio d’esperienza, che rende l’anima una cassa di risonanza sempre più vasta (Mentre le affiora/ sotto gli occhi/ un’altra ruga/ tu scompari/ nell’aria/ come in uno specchio/ un fremito/ un brivido già in fuga).

 

Alla compresenza di aspetti opposti, che si proiettano gli uni sugli altri o che si alternano come due facce di un’unica realtà, allude il titolo stesso di questa raccolta: Ti slegherai le trecce. L’immagine dello sciogliersi i capelli può suggerire, nel mondo femminile, la sensualità di un gesto intimo, l’abbandono alla naturalezza. Allo stesso tempo, nell’antichità, i capelli sciolti sono segno di lutto (ricordiamo le prefiche), quasi la morte stessa giustificasse il superamento delle regole formali di cui si veste il quotidiano. Eros e Thanatos dunque. Tutti i personaggi mitologici del libro non solo si muovono tra questi due poli, ma li contengono al loro interno. E non potrebbe essere diversamente. Come percepire la vita, infatti, se non nella dinamica tra forze opposte, gioco di ombre?

2 pensieri su “L’ombra che ci abita: una rilettura poetica del mito

  1. effeerre128

    La tua” rilettura poetica del mito” è un capolavoro ed anche espressione di grande cultura e sapere….E’ affascinante constatare come mente umana possa intimamente penetrare eventi mitologici a noi lontani e farne una fonte di riflessione adeguata ai nostri giorni… Complimenti!!

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  2. Pingback: L'immagine e la parola | Intervista a Raffaela Fazio - Poesia del Nostro Tempo

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