di Raffaela Fazio
MiDBaR, deserto. DaBaR, parola. Il deserto come luogo della parola, che nasce nel silenzio e al silenzio ritorna, dopo aver attraversato distanze, pericoli, solitudini.
Ma DaBaR è anche evento. Una parola evento che si inscrive nel tempo, accettando i rischi del divenire e cercando non una comprensione che fossilizzi il senso, ma un’accoglienza che la rinnovi.
Nel deserto, che azzera l’orientamento e genera una visione sempre diversa, la parola evento inciampa di continuo su se stessa. Eppure è proprio il suo balbettare, il suo cadere e ricominciare che la rende vera e cosciente della sua povertà, bisognosa di un senso che la soccorra. Nel deserto, non si sopravvive da soli.
MiDBaR è dunque il luogo sia dello svuotamento che dell’incontro, entrambi necessari a una parola che, per esistere, deve farsi cassa di risonanza dell’alterità.
Dabar
Ogni parola è un passo.
Cambia nel dirsi e nell’ascolto
come una distanza
raggiunta con il corpo
e superata.
Fonda flessuosa luce le cresce dentro
se in alto
o nella misura dell’appoggio
più spazio riesce a separare
l’immagine dal nome.
E il nome pronunciato
è già percorso.
Non c’è certezza di un inizio
sul cammino.
L’origine ci sfugge
come l’istante
in cui tutta la lingua si dispiega
e il bambino
di colpo sa parlare.
Ogni parola è un balbettare
forte dell’inciampo
con cui il suono
l’invera mano a mano.
Nasce dal deserto e non lo lascia:
mentre lo attraversa
ne spinge il confine più lontano.
E nel silenzio si vede
riflessa, incinta di echi
come il profeta
che muore
carico di futuro
sulla soglia
della terra promessa.
*
Moriah
“Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò su Isacco suo figlio, e tenne in mano il fuoco e il coltello, e camminavano tutti e due insieme” (Gn 22,6).
Due ombre.
Ciascuno la sua lotta.
Mi ama
il primo come fiamma
ma a volte è nero incendio
nello scontro
col mio soffio
e se non gli rispondo.
Mi teme
il secondo, si riduce
gli basta
il peso della legna sulle spalle
l’ubbidienza.
Al primo insegno il freddo
del coltello
la pausa, il mio mistero
all’altro
il bisogno dell’istinto
il sentimento vivo
nella legatura
più ribelle.
Io voglio ardore e freno
insieme
in ogni uomo
un passo
che tra i due oscilli
nel salire
e mentre torna a valle.
*
Alle querce di Mamre
“Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo […] Andrò a prendere un boccone di pane; ristoratevi, dopo potrete proseguire […]». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo” (Gn 18,2 ss.).
Vigile quiete
la sosta sulla soglia.
Accordi il fiato
al ritmo delle ore
– le più calde.
Il tuo riposo si concilia
al mondo:
pare una vigilia.
Ma cosa attendi
vecchio
se non pretendi nulla?
Perché
dal fondo dei tuoi anni
alzi lo sguardo?
Hai visto e sei accorso.
Non chiedi
chi sia lo straniero.
Non cerchi un segno.
Nel suo panim
accogli
il volto al plurale
del mistero.
A fare ogni uomo degno
basta quello.
Prometti poco:
dell’acqua e un po’ di pane.
Gli ospiti avranno
invece
latte fresco, panna
un tenero vitello.
*
Ossa
“La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa […] Egli mi disse: «Profetizza al soffio, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia al soffio: «Così parla il Signore Dio: soffio, vieni dai quattro punti cardinali, soffia su questi morti ed essi rivivranno» […] Ecco, essi vanno dicendo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti»” (Ez 37,1.9.11).
Su te la mia mano.
Perché tremi come in una fossa?
Non staccare lo sguardo
dal bianco delle ossa.
Ma nella piana
di resti scomposti, di sassi dispersi
allena la vista
oltre quello che vedi.
Ascolta da dentro:
il midollo rilancia la corsa
come il seme sotto la scorza.
Questa valle
è solo paura, una tomba
che non vi conviene.
Io vi fascio di vene
vi rivesto di lembi
di pelle
di muscoli e nervi.
Crescete!
Aprite la bocca
allo spazio più arioso
unite la voce!
Io vi bacio
e vi estirpo i sepolcri da dentro
gli sterpi del senso ormai chiuso.
Vi conduco
alla terra
che è vostra, a un diverso
riposo.
*
Rut
Nell’aia
“Booz mangiò, bevve e con il cuore allegro andò a dormire accanto al mucchio d’orzo. Allora essa venne pian piano, gli scoprì i piedi e si sdraiò” (Rt 3,7).
Il calore
dei campi e del vino
nei corpi
distesi – silenziose sementi.
Ogni uomo ha un peso di stelle
dentro il sonno
un destino.
Ma tu sei leggera
e profumi muovendo i capelli.
Chiedi pace
al respiro. Scegli il posto
che la notte non nega.
Nessuna carezza:
solo scopri i suoi piedi
e aspetti la brezza
dall’alluce al cuore
il risveglio.
Lui saprà che ti spetta
la parte migliore.
Per amore la terra
è fatta di tempo
e la storia
di vento, ruah.
*
Qol demamah daqah
“E un vento fortissimo che spacca montagne e spezza le rocce era davanti al Signore. Non nel vento, l’Eterno. E dopo il vento, un terremoto. Non nel terremoto, l’Eterno. E dopo il terremoto, un fuoco. Non nel fuoco, l’Eterno. E dopo il fuoco, un suono di silenzio sottile. Come l’udì, Elia s’avvolse il viso nel mantello e uscì sulla soglia della grotta” (1 Re 19, 11-13).
Non vento di bufera
frastuono
non fuoco o tremore
non guerra, non pace
ma bocca che si apre
senza suono.
L’Eterno
è silenzio sottile
che ti vuole e che non rivela
niente: solo
ti concede un respiro
e un’ansia più mansueta.
Rinunci a capire:
è il tuo modo
di attendere il futuro
perché la conoscenza
è un’illusione.
Il vero si fa strada
se i sensi sono arresi
complici del dubbio.
E mantice
l’assenza.
[Raffaela Fazio, Midbar, Raffaelli Editore, 2019]