L’inizialità dell’inizio iniziale, di Alberto Fraccacreta

                                               

La cosmogonia deve spiegare l’amore nella sua forma                                                    più alta. Altrimenti è falsa. 

                                               David Foster Wallace

 

Un signore distinto, con lineamenti gradevoli, bei baffi, viennese, il nome roboante di un enfant prodige: Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), trasparente e abissale nella sua décadence. Ecco alcuni versi: «— O che potremmo entrare in un nuovo,/ significante rapporto con tutto il creato,/ se cominciassimo a pensare col cuore». A quale ‘significante rapporto’ si fa riferimento? Be’, innanzitutto, il dato pratico: si tratta dell’esergo di Nel centro d’ogni cosa. Poesie 1890-1910 (traduzione e cura di Andrea Landolfi, Del Vecchio Editore, pp. 279, € 19,00), prima vera grande selezione della produzione lirica di Hofmannsthal a cinquant’anni dall’edizione Einaudi a cura di Elena Croce. 

Questi versi sono frutto di una personale concezione poetica dell’autore austriaco: la preesistenza. Commenta Landolfi nell’introduzione: «La preesistenza altro non è, in realtà, che lo stato di grazia dell’intuizione di un nesso ancestrale tra sé e il cosmo, stato che, di norma, in una vita può innescarsi, e non sempre, una o due volte, e solo per pochi, magici istanti». Siamo lontani, dunque, dall’equivoco critico dell’estetismo: il pensiero di Hofmannsthal si orienta sul tentativo di un ‘rapporto nuovo’ con le cose, di un respiro che tende all’auroralità, alla con-fusione dell’io nell’alterità (l’amour/a-mur di Lacan) all’interno di un tempo primordiale: «La guarda e — Madre mia! — dice soltanto,/ e — Ahimè figlio adorato! — lei risponde/ e lui porta la croce. Adesso trepido/ parla il cielo alla terra. Poi corre/ un brivido nel vecchio e grande corpo/ ed essa si dispone al nuovo giorno» (Prima dell’alba). In una probabile reminiscenza dalle visioni di Anna Katharina Emmerick raccontate da Clemens Brentano, Hofmannsthal immette nell’incontro sulla via della croce tra Gesù e Maria i richiami della reciprocità mentale, dell’essere in relazione sin dalle viscere dell’universo, per segnalare «il senso della vita/ col suo ardente splendore» (Dialogo). 

Gli ultimi titoli (gli ultimi fuochi) di poesia del 2021 sembrano accomunati, nonostante le difformità storiche e geografiche, da questa passione per l’heideggeriana inizialità iniziale. È anche il caso della poetessa aborigena australiana Oodgeroo Noonuccal (1920-1993), di cui My People. La mia gente (a cura di Margherita Zanoletti, con un testo di Alexis Wright, Mimesis, pp. 348, € 26,00), a cinquant’anni dalla pubblicazione originale, offre ancora un’ampia prova di integrità letteraria. Vero e proprio classico della letteratura postcoloniale — ritornata prepotentemente all’attenzione dopo il Nobel conferito ad Abdulrazak Gurnah —, prontuario di autodeterminismo e di resistenza contro le sfrenate politiche di assimilazione, My People racconta «gli aborigeni quali gli eredi di una cultura eroica, che ancora combattono e sopravvivono, da tempo immemorabile», come scrive Wright nella premessa al testo. Leggere per credere: «Qualcosa di osceno nei rumori/ Delle cose create dall’uomo offende la dolcezza e la limpidezza/ Della Natura./ L’urlo duro dei venti,/ Mai senza armonia, mai volgare, che squassa gli alberi,/ Lo stridio dei gabbiani — questi/ Hanno il loro posto nel mondo/ Cosi? come il canto arioso dello scricciolo» (Assalita dai rumori). Il ‘posto nel mondo’ risiede nell’originaria ‘dolcezza’ e ‘limpidezza’ della ‘Natura’ che l’uomo in toto rigetta e sfregia. Lo stile di Noonuccal è primitivo ed essenziale, ricco di allitterazioni e complessi impianti rimici che rendono la proposta traduttologica particolarmente interessante. Osserva Zanoletti nell’esaustivo saggio monografico che precede la silloge: «Oodgeroo si serve, simbolicamente e pragmaticamente, della lingua dei colonizzatori per trascrivere e tramandare storie, esperienze e immagini legate al mondo aborigeno, e in tal modo, dando voce alla sua gente, dichiara ed esprime la sua identità di ‘half-caste’, indigena ed europeizzata».

La Grecia tra antico e moderno e la ricerca di un’identità remota sono lo sfondo de Il grande formichiere e altre piccole favole in poesia di Niki-Rebecca Papagheorghìou (a cura di Elisabetta Garieri e Andrea Franzoni, traduzione di Elisabetta Garieri, illustrazioni di Giuditta Chiaraluce, postfazione di Francesca Sensini, pp. 150, € 18,00), brevi storie kafkiane in prosa in cui l’intrinsichezza della poesia si manifesta nella pura concentrazione (e concertazione) dei motivi secondo una tastiera ispirativa che va dalle Illuminations di Rimbaud al piglio surrealistico di Gertrude Stein. Ecco Le lenticchie: «Le camomille analfabete, i cipressi intellettuali e al di sopra la Notte, che cucina per tutti, ora che è primavera, lenticchie d’oro». O, ancor di più, il paradigmatico Libro antico: «La donna è un essere oscuro. Abita in un libro antico dalle pagine ingiallite, dove non c’è scritto nient’altro all’infuori di lei. Il libro ogni tanto si oscura, come quando la pioggia è vicina, o come fa l’acqua quando il cielo si annuvola. L’uomo gira le pagine una ad una. A poco a poco brutti presentimenti s’impossessano di lui. Come fosse entrato in un castello disabitato, in rovina, dove chissà cosa può succedere da una stanza all’altra. Ha l’impressione che la donna lo spii. Apparirà all’improvviso, pensa, e chissà a che gioco vorrà giocare. Per scongiurare quel brutto pensiero, prova a disegnare una cosa qualunque sulla carta ingiallita. La carta si oscura a tal punto che il disegno svanisce nel nero. L’uomo sobbalza impaurito. La stanza prende un colore di pioggia. Dal libro chiuso si ode una canzone con parole incomprensibili». Uno dei temi più cari alla Papagheorghìou (1948-2000) è infatti l’incomunicabilità tra le persone che si traduce au contraire nel profondo desiderio hofmannsthaliano di con-fusione, di piena sintonia.  

Poesia delle origini, del ‘sussurro universale’ è quella del polacco Jaroslaw Mikolajewski, raffinato traduttore dei nostri classici e autore di una raccolta, Sciocche lacrime (prefazione di Tiziano Broggiato, traduzioni di Barbara Sosnowska, Roman Sosnowski e Leonardo Masi, Algra Editore, pp. 140, € 12,00), che con toni dimessi e talora oracolari — debitori alla grande lezione di Wis?awa Szymborska e Adam Zagajewski — rileva l’intrusione del trascendente nel quotidiano: «in una stanza immaginata/ oltre la parete qualcuno si esercita con la scala/ la maggiore// nella mia inquietudine/ attraverso il muro/ apre la porta/ alla passeggiata sul fiume// così lontano/ e così poco lontano» (ad occhi chiusi). Scrive giustamente Broggiato: «Patria, giovinezza, padre, Gesù: i temi della poesia di Mikolajewski prendono spunto da situazioni, sentimenti e avvenimenti che, a seconda della linea di incandescenza personale, scoprono una comune, caustica appartenenza». La tensione all’iniziale di Mikolajewski si risolve però in un’adesione fiduciosa agli oggetti, grazie ai quali è possibile sintomaticamente «vedere la propria gioia nella convessità della pallina di Natale// nella cornice glitterata intorno al vetro giallo».

E, nel punto terminale di questa rassegna, siamo arrivati al nodo che raccorda non soltanto i poeti summenzionati ma una precisa idea di poesia. Perché si va in cerca degli ‘inizi’? «La legge della vicinanza si fonda sulla legge dell’inizio», scrive Heidegger in Parmenide. «Il primo inizio è sì ciò che decide tutto, eppure non è l’inizio iniziale, cioè quell’inizio che schiude nel ‘chiarore di una radura’ (lichtet) sé stesso e, allo stesso tempo, il suo ambito essenziale, e che in tal modo inizia. L’inizialità dell’inizio iniziale accade da ultimo. Noi però non conosciamo né la modalità né l’istante dell’‘ultimo’ della storia, né tantomeno la sua essenza iniziale». In effetti, i poeti non sembrano aspirare tanto ai preludi, alle genesi e all’origine in sé (anagrafica e biologica à la bon sauvage), quanto all’ultimo (cioè definitivo) inizio, nella sua stabile prosecuzione (inizialità). I poeti sono sulle tracce di una condizione d’integralità che Pascoli ha descritto nella poetica del fanciullino e che, ad esempio, Derek Walcott ha chiamato «Innocenza Essenziale». 

Il saggio di Davide Rondoni, Cos’è la natura? Chiedetelo ai poeti (Fazi Editore, pp. 200, € 15,00), tocca scrittori come Lucrezio, Keats, Leopardi, Luzi inseguendo il «primo nome del mistero», sempre lungo la trafila dell’originarietà: «I misteri della Natura ci affascinano — nota Rondoni — e sembrano sempre a distanza da noi, ultimamente sfuggenti. Siamo arrivati a ‘vedere’ cosa è successo subito ‘dopo’ una frazione infinitesima di tempo dal Big Bang. Ma poi non siamo arrivati al quid iniziale. Ci arriveremo? Chissà. Eppure in questa distanza cerchiamo ‘affetto’ (dal latino afficere, colpire, provocare uno stato d’animo), cioè una forza di unità, un senso che ci leghi. Con la Natura cerchiamo di stabilire un legame, non vogliamo sentirci ‘solo’ suoi ospiti». Cos’altro è il quid iniziale se non la già decantata inizialità? Anelare all’alba dell’esserci, alla schietta presenzialità delle cose vuol dire instaurare una relazione. (In tal senso anche Giorgio Morandi nella martellante riproduzione degli oggetti si sforza di trovare costantemente l’inizialità, come ravvisò Bonnefoy in un celebre saggio.) L’inizialità è una relazione, non soltanto un generico e cronologico ‘tendere all’infanzia’, al mito di un’infanzia dell’umanità. «Quanta infanzia deve rivivere in noi lungo gli anni?», si domanda giustamente Rondoni, che mette sotto il catalogo del pensiero-infanzia l’intuizione di un’hölderliniana poesia nel «tempo di povertà». «Per il poeta autentico, di qualunque tempo e cultura, si tratta di ritornare a un pensiero pre-saputo, nel pre-sciente. Un pensiero-infanzia. Come se si trattasse di tornare per via di continui avanzamenti, acquisti e incrementi a una nuova povertà. A una più luminosa nudità. Vale per Saffo, Dante, Shakespeare e per noi oggi». ‘Luminosa nudità’ e ‘nuova povertà’ che equivalgono a un’autenticità (Eigentlichkeit): autenticità che equivale a un’innocenza prelapsaria, un’immacolatezza. Immacolatezza che equivale a una sorta di mariologia della letteratura, cioè quel persistente desiderio dei poeti di raggiungere l’età dell’oro, l’equanime condizione sine macula, l’incipienza, l’enracinement, lo stato di grazia, la preesistenza. 

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