Luca Pizzolitto, Crocevia dei cammini. Recensione di Giannino Piana

Luca Pizzolitto, Crocevia dei cammini, Edizioni PeQuod, Ancona 2021.

In una società del “fare”, dell’”avere” e del “consumare” la poesia non può che risultare del tutto anacronistica. Essa non è utile, non serve, ed è per di più in aperto contrasto con le logiche dominanti. Ma questo anacronismo e questa inutilità sono – paradossalmente – le ragioni della sua grande attualità. Il disagio esistenziale, che ha assunto in questi ultimi anni connotati inquietanti grazie anche al dilagare della pandemia, ha reso trasparente la fragilità della condizione umana. Serpeggia un senso diffuso di malessere ontologico, dovuto alla percezione del limite o forse, più radicalmente, del fallimento della nostra civiltà.

Nasce da questa percezione, spesso soltanto inconscia, il bisogno di una svolta che riporti al centro delle attenzioni la ricerca dell’”essere” la quale, sostituendo il qualitativo al quantitativo, segni il passaggio dall’esteriorità all’interiorità. Questo scavo nelle profondità dell’umano esige, per venire attuato, il riferimento a un linguaggio – quello dell’arte e della poesia – che trascende l’immediato e il contingente, evocando una alterità mai totalmente circoscrivibile e ricuperando la simbolicità in cui prende forma la bellezza.

La ricchezza di questo approccio, il cui segreto sta nella capacità di andare alle radici della realtà, penetrandone l’”al di dentro” – il segreto nascosto da cui tutto muove – è la “cifra” di questa raccolta di poesie di Luca Pizzolitto, che rappresentano una meditazione sulla vita, un canto intessuto di profonde risonanze che sembrano venire da mondi lontani, che irradiano la loro luce sulle cose inanimate, e da cui viene il respiro che anima tutto ciò che appartiene al mondo dei viventi. Si, perché la vita ha un’estensione incontenibile, che si sviluppa sotto l’egida di un tessuto relazionale, una rete di rapporti che l’uomo intrattiene senza soluzione di continuità con il mondo che lo circonda, in uno scambio incessante di stretta reciprocità.

Questo intreccio di rapporti costituisce lo scenario che fa da sfondo e conferisce forma a emozioni e sentimenti contradditori i quali, lungi dal provocare sterili compiacimenti e ripiegamenti involutivi, riportano in luce le domande fondamentali che l’uomo non può non porsi se intende uscire dallo stato di acquiescenza e di torpore, in una parola di alienazione, provocato dai pesanti condizionamenti della cultura dominante, e ritrovare pienamente se stesso. Si rende trasparente in questo contesto il respiro polivalente della natura, che si estende, con le sue luci e le sue ombre, nel succedersi delle stagioni, che vanno dall’inverno in cui “la neve pesa sui rami” al “viso acceso della primavera nel cielo bianco di aprile”; dall’estate “che acceca e brucia ogni cosa nel cielo caldo, nell’afa di agosto”, all’autunno con la “nebbia fredda” e il “cadere delle foglie” nei giorni di ottobre.

Nel trascorrere dei giorni e delle ore – privilegiate sono le ore della sera, nelle quali all’inquietudine dell’oscurità (l’azzurro del cielo/ strappa e cade/ nel dolore silenzioso/ della sera, p. 13) si associa il silenzio che favorisce il raccoglimento e sollecita la meditazione – si alternano stati d’animo diversi, persino opposti, che vanno dall’angoscia e dalla paura all’attesa e alla speranza. Il groviglio inestricabile di emozioni, di sentimenti e di passioni, che hanno sede nelle profondità del cuore umano e che si riflette nella consapevolezza dell’ambivalenza di ogni evento come di ogni forma di progresso, nella costitutiva polarità della realtà irriducibile per questo a interpretazioni omogenee ed univoche.

Pizzolitto non esita a immergersi nel vivo di questo stato di tensione dialettica, facendo anzitutto propria la valenza negativa e indulgendo in una forma di profondo pessimismo fino a ipotizzare “un domani senza destino/ né attesa” (p. 39). Ad affiorare, in questo contesto, è il dramma dell’insignificanza di tutto, di una vita che “arde e consuma nel niente” (p. 31), del “nudo vagare nel niente/ di tutte le cose” (p. 98) e dell’”inesorabile/ muoversi e cadere di ogni cosa/ verso il nulla” (p. 64). Una sorta di deriva in quel “nulla metafisico”, che è al centro della fede inquieta di David Turoldo (si pensi soltanto a Mie notti con Qohelet) – in Pizzolitto risuona con insistenza l’eco della poesia turoldiana – e che denuncia il destino ineluttabile di ogni esperienza umana “ la percezione inesorabile/ della deriva di noi, del tempo/ di tutte le cose” (p. 46).                                                                            

       Ma, al di là di questa devastante situazione, resa più tragica dall’”ostinato silenzio di Dio” (p. 11) e in cui i “giorni si perdono nello spazio/ sacro del ricordo, i nostri/ volti illesi, trattenuti al pianto” (p. 23), non viene del tutto cancellata l’attesa del futuro. Ad essa rinvia anzitutto “ forte ed eterno l’amore”, quello divino che si manifesta il venerdì santo nel dono della vita come “un sole che splende sulla polvere di strade bruciate” e che si manifesta anche come “silenziosa presenza”, ricordandoci che “niente cade, niente muore davvero” (p.51). E questo diviene allora richiesta di perdono per aver dubitato di una salvezza gratuitamente donata (Perdona,mio Dio,/ perdona la fuga,/ il dolore e il pianto, p. 59); diviene desiderio di

vivere sempre come/ un qualcosa di prezioso e/ dimenticato tra le mani di Dio, p. 76).

Il tutto si trasforma, in definitiva, in preghiera, capace di colmare i “vuoti di noi”, le “antiche lontananze ferite” e di donarci pace “in una notte santa di veglia”, proiettandoci “sempre verso un tempo,/ una stagione che non sappiamo” (p. 89) e dove l’attesa si colora di speranza. Una speranza che trova espressione in una delle più belle liriche di questo libro che reca il titolo dell’intera raccolta – Crocevia di cammini – e che merita di essere pubblicata integralmente: “Nello spazio sacro della sera,/ nel volgere a compimento/ di tutte le cose,/ scenda ancora su di noi la grazia,/ una dolce benedizione/ A te giunga il canto/ di questo inquieto esistere,/ a Te giunga il grido/ che non trova pace, ragione” (p. 103).

       A suggellare la bellezza di questo libro di Luca Pizzolitto concorre infine, accanto al contenuto esistenziale che ci immerge nelle profondità dell’umano, un delicato e immediato lirismo, che senza cadere mai in una forma di stucchevole manierismo, apre lo spazio, anche attraverso la simbolicità del linguaggio, all’invocazione del mistero assoluto.

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