Su “Sonetti d’amore per King Kong, di Gino Scartaghiande

di Domenico Ludovici

Oggetto e circostanza, il libro di Gino Scartaghiande pubblicato dalle Edizioni Il Labirinto di Roma nel 2016, vincitore del Premio Frascati di quell’anno, comprendeva le sole due raccolte edite in precedenza, Sonetti d’amore per King-Kong e Bambù, seguite da testi inediti, sparsi e dimenticati, o compresi in qualche volume collettaneo, come le Poesie scolastiche del 2004. 

   A distanza di cinque anni, Scartaghiande ha voluto aggiornare quella raccolta aggiungendovi un’ampia sezione di inediti più recenti, intitolata Cavallucci marini, e tre brevi testi dedicati al giovane poeta Gabriele Galloni, scomparsi tragicamente  a soli 25 anni. Il libro, il cui titolo complessivo è appunto Cavallucci marini (Edizioni Il Labirinto, Roma 2022) è prezioso, perché permette di tenere fra le mani e di apprezzare in un unico insieme l’intera poesia di Scartaghiande, che – scrive Domenico Adriano nella nota che lo accompagna – “ci porge tutto il suo lavoro, unito in un disegno unico, in una scienza «contemplativa» di minute verità cocenti quanto accecanti”. 

   Ma ora, appena dopo Cavallucci marini, a rinverdire – se ce ne fosse bisogno – il ricordo dell’esordio di questo “poeta di raffinata cultura e sensibilità”, Antonio Bux, direttore della collana “Le mancuspie”, della Graphe.It Edizioni, ripubblica e offre a giovani (che forse lo scopriranno per la prima volta) e meno giovani lettori, l’indimenticato libro d’esordio di Gino Scartaghiande, quel Sonetti d’amore per King-Kong diventato ormai di culto. 

   Mi permetto una breve digressione. Nulla da dire sulla nuova edizione, ma lasciate che un vecchio amante di quel libro resti fedele alla vecchia del 1977 della “Cooperativa Scrittori” – copertina bianca e grigia con un disegno di Jackson Pollock. A quel piccolo, grande libro, prezioso anche come oggetto, sono attaccato in modo particolare, perché è uno dei pochi che fu risparmiato dal terremoto dell’Aquila che in quel 2009, già così lontano ma ancora così dolente, inghiottì la mia casa. Invecchiato, strappato, piegato (piagato),  ma caro, è ancora con me. Dalle pagine bianche che lo chiudono vengono le note di lettura del tempo, con le quali – appena aggiornate in qualche luogo, come i numeri delle pagine citate – mi piace celebrare questa riproposta.

 

Dopo il ’68 e i primi anni Settanta, quando rifugiarsi nel “privato” era considerato alla stregua di una diserzione e quindi come un peccato imperdonabile, Gino Scartaghiande scrive un libro coraggioso, arduo, aspro e lirico insieme, nel quale torna al privato e – seppure con qualche minima, inevitabile esitazione – lo fa usando e risperimentando la lingua. Sì, Gino ristudia il linguaggio, cercando il suo, volendo trovare una precisione non priva di partecipazione e se il risultato sembra misurarsi sull’ambiguità è solo perché l’età e il mondo sono ambigui.

   Per Gino, la lingua è uno strumento; è il suo strumento, e lo usa in modo perfettamente “fisico”, come il contadino usa l’aratro o la vanga. È attraverso la lingua, tramite il suo torbido turgore che, lisciando, leccando, scavando, lui assaggia e conosce il mondo. E lavora a un nuovo stile. Rispettando le differenze, è, per analogia, quello che lo “stilnovo” fu dopo Guittone e i rimatori tardo provenzali e siciliani. Dante e Guido avevano certamente studiato i predecessori, ma il loro modo di fare poesia diceva che Guittone era semplicemente superato. Fatte salve le differenze, Gino non rinnega, per esempio, Pagliarani, che per primo apprezzò la sua poesia e la presentò sulla rivista “Periodo Ipotetico”, ma leggendo Sonetti d’amore per King-Kong ci troviamo – a mio modo di vedere – di fronte all’evidenza che la poesia contemporanea di Pagliarani (quella che poi diventerà la Ballata di Rudy, aggiungo ora) nasce già vecchia e il suo “in progress” non lo è nei fatti; o, più semplicemente, che quel modo di intendere e di fare la poesia è superato. Semmai bisognerà riflettere su ascendenze diverse, come la Rosselli (tanto per fare il nome più evidente).

   L’accostamento allo “stilnovo” non è peregrino. È anzi pertinente e calzante fin dal titolo; e lo dimostra l’uso perfettamente funzionale al testo che Gino fa di due terzine dantesche, estratte dal X del Paradiso, ed inserite nella terza – breve ma bellissima – parte  del primo poemetto, Il nome. La differenza, casomai, sta nell’oggetto d’amore. Là, come si sa, la donna angelicata; qui, al contrario, la bestia per antonomasia, King-Kong, l’angelo coprofago. Là, come si sa, l’amore è puro e incorporeo; qui, non ha niente di angelico o angelicato, anzi è terreno e fisico, al limite dell’oscenità. Il poeta è un’avventurosa (avventurata) prostituta, Kong è un mostro con le narici dilatate: rincorre ed è rincorso, penetra ed è penetrato. Non sono differenze da poco, com’è ovvio, perché la ferinità dell’oggetto d’amore genera, sì, una poesia pensativa, ma al tempo stesso corporea, carnale, impudica.

   Il primo poemetto, Il nome, è ancora di passaggio, per così dire. La rivisitazione dell’assassinio e della morte di Rosa Luxemburg non è più solo un episodio di poesia civile, ma diventa l’occasione per una ricerca di sé stesso; un modo per esprimere qualcosa di altro, per “sondare le proprie ferite” e scoprirne, metterne a nudo le labbra, come se potessero parlare. Il poemetto è pieno di immagini fortemente espressioniste, quasi esibite. I versi su Berlino, per esempio, ricordano quelli di Dámaso Alonso (da Hijos de la Ira) su Madrid. Il verso è ancora disteso; anche se già esibisce frequenti enjambements, azzardati anche su congiunzioni, articoli e preposizioni (e ciò ne accentua l’elemento espressionista); si stratifica in una sua compostezza e quasi sempre nel rispetto dell’ordine naturale della frase. Basta leggere qua e là per rendersene conto: L’esistenza non / è dedita allo sfruttamento della morte (pag. 11); … il piacere / non è altro che un letamaio dove ronzano / mosche. Ed io mi sento una mosca dal ventre / nero e puzzolente (pag. 19). Sono solo due piccoli esempi di una caratteristica che, in linea di massima, conservano anche quelle parti del libro dove il verso è più breve, più spezzato.

   Nel corso della lettura, si ha l’impressione che la punteggiatura sia spesso arbitraria, imprevedibile e, anche, inesatta, più emotiva che logica. A una prima lettura ci si chiede: è un vezzo? una cifra stilistica un po’ forzata? Sembrerebbe così; invece è l’attestazione di come il pensiero sopravanzi spesso le intenzioni poetiche. In altre parole: la forza dell’idea, la sua urgenza, costringe la forma a predisporsi e porsi tale e quale la trova lo scarto, lo scatto in avanti del pensiero. Rileggendo con attenzione, ci si rende conto che la punteggiatura viene usata meticolosamente e serve ad arginare la tentazione di eccedere in cadenze musicali, o in immagini decorative. Questo perché spesso Gino si affida ad un accumulo di immagini, o a frammenti di visioni (L’immagine è l’universo delle nostre fughe,/ è l’escrescenza terrestre… si legge a pag. 41). Sono lacerti, scorci, lampi. Ma incastrandosi l’uno con l’altro danno espressione alle idee, ai sentimenti. “Soliloqui per immagini”, dice Gino. E il lettore è catturato dall’ambiguità; a volte anche irretito (e irritato) da lacerti di cui non riesce a cogliere con immediatezza e fino in fondo i nessi semantici o logici (si legga la poesia a pag. 49). Ma l’impressione dura poco. Gli scarti del pensiero, i lacerti riflessivi, per così dire, hanno il compito d’interrompere il flusso logico. Rileggendo lo si capisce bene. Hanno anche il compito di porre un freno alla strabordante energia erotica che permea parole e versi (si vedano alle pagine 25 e 29 due fra le più belle poesie del libro). Comunicano il malessere del poeta che cerca di svelare un’identità ancora fumosa, in certo modo (pag. 28). E invoca l’interlocutore, affinché gli dia un nome (pag. 41). 

   (Ricordo, tra parentesi, che quando incontrai alcuni di questi “sonetti” su La parola innamorata, la famosa – e per certi aspetti famigerata – antologia uscita nel 1978, fui stupito. Mi domandai come c’era finito Scartaghiande fra quei poeti. Lui, più di qualche altro, stonava lì in mezzo. Gino non è innamorato delle parole. Né le sue parole sono innocenti. Non lo sono perché il poeta non lo è, nonostante cerchi e invochi il ritrovamento di un’innocenza lontana. Gino sa di non essere innocente – come ognuno che abbia consapevolezza di sé). 

   Per tornare all’analogia iniziale con lo “stilnovo”, per Gino, come per Guido Cavalcanti, per esempio, le parole sono adornate / di pianto, dolorose e sbigottite, perché deputate ad una rappresentazione (o rappresentanza) in negativo; a dare, cioè, espressione alla sofferenza del mondo attraverso la sofferenza amorosa. La loro ambiguità rispecchia quella del mondo in cui esse sono forzate a cercare “il nome”; un nome che, alla fine, anche se trovato, sarà, forse, difficile da pronunciare e far intendere.

   Per concludere – ora – queste note disordinate, invito ancora una volta a rileggere la terza, bellissima parte de Il nome, appunto, quella in cui troviamo le parole di Dante fatte proprie dal poeta, e con cui esorta il lettore (e io i giovani lettori di oggi, magari poeti) a riflettere su quanto gli è stato rivelato. 

   “Sto solo camminando”, dirà Gino Scartaghiande in Bambù, il suo libro successivo. Guai a fermarsi, infatti; guai a credere d’essere arrivati.

 

 

 

Un pensiero su “Su “Sonetti d’amore per King Kong, di Gino Scartaghiande

  1. paolo valesio

    Sono grato per la bella recensione, che mi porta a ripensare la poesia di Scartaghiande ––  anche se non sono d’accordo sulla sentenza a proposito di Pagliarani (“quel modo di fare e di intendere la poesia è superato”) ––  e anche se trovo che polemizzare ancora con l’antologia “La parola innamorata” (del 1978!), dicendola “per certi aspetti famigerata” sia alquanto incongruo.

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *