Enrico Macioci, “Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia”

Recensione di Giovanni Agnoloni

Enrico Macioci, Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, TerraRossa Edizioni, 2022

Quella di Alfredo Rampi, il bambino precipitato nel pozzo di Vermicino nel giugno del 1981 e lì morto dopo lunghi e drammatici tentativi di salvarlo, seguiti dalla TV nazionale e, suo tramite, da quasi tutti gli italiani, è una vicenda che ci ha segnati profondamente. Anzi, a ben vedere, è una delle prime di cui io ricordi degli scampoli di immagini televisive, insieme a certi flash di attentati terroristici, così frequenti in quella stagione storica.

Il punto centrale di Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, il nuovo romanzo di Enrico Macioci, uscito da poco per TerraRossa, è proprio questo, come l’autore spiega molto bene nel capitolo di apertura. Quella tragica storia – preceduta, a livello d’impatto, forse solo dalle stragi degli anni ’70 e dal rapimento di Aldo Moro, ma in quei casi non in diretta, e inoltre, giusto un mese prima, dall’attentato alla vita di papa Giovanni Paolo II – ha determinato l’ingresso impietoso e devastante dell’occhio dei media nella vita collettiva. Uno sguardo, il loro, che ha finito per diventare il nostro con una corrispondenza pressoché perfetta, spingendoci senza riserve né pudori nei territori dell’angoscia più radicale (anche se non necessariamente nella direzione giusta, quella della coscienza di sé e della crescita personale).

Quella è stata la fine della nostra infanzia, se non altro in senso “antropologico”. Certo, non tutti, come Enrico e me, stavano vivendo proprio in quel periodo il transito dalla più tenera età all’essere “ragazzini”, che comunque è un primo passaggio-chiave nella vita. Ma sicuramente tutti hanno – nel momento stesso in cui iniziava il decennio dell’illusoria abbondanza e del benessere alla portata generale – perso la verginità delle facili speranze. Attenzione, non dei sogni, ma del pensiero “agile” che potessero realizzarsi senza difficoltà. In quei frangenti ci siamo resi conto che la vita è un velo sottile, capace di lacerarsi da un momento all’altro, e forse per la prima volta abbiamo intuito che il futuro ci avrebbe esposti sempre più a situazioni estreme, schermate dalla presenza indefettibile della televisione (internet per come oggi lo conosciamo era ancora di là da venire). Una schermatura che, come accennavo sopra, non sempre ha portato a un’accresciuta consapevolezza di sé come individui e, di riflesso, come popolo.

Il grande merito di Enrico Macioci – oltre a quello, che sottolineo da sempre, di essere uno dei pochi scrittori italiani capaci di appassionare con trame interessanti e stile limpido e curatissimo – è stato quello di aver affrontato tutto questo complesso scenario storico, sociale e comunicativo dal punto di vista di un bambino. Perché attenzione, Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, pur ruotando attorno alla figura di Alfredo Rampi – e riprendendo nel titolo stesso le parole che pronunciò quando già stava iniziando a perdere lucidità, nella profondità del pozzo – non parla di lui. O meglio, lo fa, com’è ovvio, ma partendo da un’altra vicenda, frutto di una brillante invenzione narrativa: quella di un piccolo aquilano, Francesco, della sua famiglia e soprattutto di un suo amico, Christian, straordinariamente maturo per la sua età. Con lui Francesco giocava tutti i giorni, ma all’improvviso Christian scompare e nessuno riesce più a trovarlo. E questa bomba esplode nella vita di Francesco proprio mentre si sta consumando la tragedia di Vermicino.

Il dramma di una generazione, dunque, viene qui presentato attraverso l’esperienza di formazione insita nel dramma personale di un bambino e delle persone intorno a lui. La prova di crescita attraverso il dolore di un intero popolo (se riuscita o meno, ognuno lo valuti per sé) si specchia nel percorso d’iniziazione alla cruda verità della vita attraversato, suo malgrado, da Francesco.

Ecco che, allora, le parole di Alfredo riportate nel titolo rivelano a un tratto una sorprendente potenza filosofica. Quell’invito disperato e salvarlo dalla gola del buio diventa un richiamo, valido al contempo per tutti e per ciascuno di noi, ad affrontare l’ombra junghiana, il territorio delle paure e dei mostri rimossi, quelli che si frappongono tra l’Io e il Sé, impedendo la piena realizzazione della persona. Per l’appunto quella separazione che i media, spesso e volentieri, nel tempo hanno alimentato, favorendo uno stato di divagazione perenne, un divertissement godereccio o, al contrario, imperniato sul dolore, che mentre invita a osservare pornograficamente l’angoscia, non educa ad affrontare il vero buio: quello della notte oscura dell’anima, premessa indispensabile per accedere alla luce. La differenza tra uno show dalla risata facile e un dramma in diretta, dopo tutto, all’atto pratico è secondaria, perché l’unica cosa che contava allora e conta ancor oggi è tenere le persone scollegate dalla coscienza di sé, e perciò più facili prede di messaggi calati dall’alto. Oggi viviamo nelle conseguenze di quelle premesse. Quello che era meno chiaro, e che questo ottimo romanzo ha meritoriamente messo in luce, era da dove fosse iniziato tutto ciò – quell’assenza di pudore, e quello spirito voyeuristico che in seguito ha trovato la propria applicazione ad attentati (penso alla grande ferita dell’11 settembre 2001), guerre ed epidemie, sempre attingendo dalla volontà generale di trangugiare immagini e notizie senza mai compiere il fondamentale “passo dentro”: quello che consiste nel chiedersi chi siamo nei nostri territori più profondi e oscuri, e perché certe cose avvengano intorno a noi e abbiano certe risonanze sulla nostra mente.

Francesco quel passo lo compie, attraverso la vicenda di Christian e, in un inquietante gioco di specchi, attraverso quella di Alfredo. Capisce e accetta quello che non c’è nella sua famiglia – l’amore tra i suoi genitori – e nel piccolo mondo che lo circonda – l’ottusità di chi sta cercando il suo amico. Ma soprattutto comprende chi è, o almeno chi non è e non vuol diventare. È così che effettua quel transito irreversibile attraverso la stanza buia. Quello che precede (potenzialmente) l’accesso alla luce del Sé, indispensabile per diventare – e restare – uomini liberi.

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Informazioni su giovanniag

Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976), è scrittore, traduttore letterario e blogger. Autore del libro di viaggio "Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa" (Fusta Editore, 2020) e del romanzo psicologico "Viale dei silenzi" (Arkadia, 2019), ha anche preso parte al romanzo collettivo "Il postino di Mozzi", a cura di Fernando Guglielmo Castanar (Arkadia, 2019). È inoltre autore di una quadrilogia di romanzi distopici sul tema del crollo di internet e della società del controllo ("Sentieri di notte", "Partita di anime", "La casa degli anonimi" e "L’ultimo angolo di mondo finito", editi da Galaad tra il 2012 e il 2017 e in prossima riedizione in volume unico), in parte pubblicata anche in spagnolo e in polacco e in prossima riedizione in volume unico. Ha scritto, curato e tradotto vari libri sulle opere di J.R.R. Tolkien (su tutti, "Tolkien. Light and Shadow", opera bilingue italiana-inglese, ed. Kipple, 2019), e tradotto o co-tradotto saggi su William Shakespeare e Roberto Bolaño ("Bolaño selvaggio" a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, ed. Miraggi, 2019, tradotto insieme a Marino Magliani), oltre a libri di Jorge Mario Bergoglio, Kamala Harris, Arsène Wenger, Amir Valle e Peter Straub. Ha partecipato a numerose residenze letterarie e reading in Europa e negli Stati Uniti, e traduce da inglese, spagnolo, francese e portoghese, oltre a parlare il polacco. I suoi contributi critici sono disponibili sui blog “La Poesia e lo Spirito”, “Lankenauta”, “Poesia, di Luigia Sorrentino” e “Postpopuli”. Insieme alla giornalista Valeria Bellagamba, ha creato e gestisce la pagina Facebook "Anticorpi letterari", con interviste in diretta video a protagonisti del panorama culturale italiani e internazionale. Il suo sito è www.giovanniagnoloni.com.

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