“Vuoto”, di Ilaria Palomba

Recensione di Francesco Improta

Ilaria Palomba, Vuoto, Les Flâneurs Edizioni, 2022

In un’una elegante veste tipografica di Les Flâneurs edizioni è arrivata in libreria l’ultima opera di Ilaria Palomba, Vuoto. La bellissima copertina di Francesco Dezio è già di per sé allusiva ed evocativa: sul davanzale di una finestra che si affaccia su una notte nera come la pece, “priva di ogni pianeta”, direbbe Dante, una giovane donna, dai capelli biondi, in atteggiamento pensoso – come si evince dalla fronte appoggiata sul palmo della mano – rimugina pensieri tristi, dolorosi, funerei e l’abito da sera, lungo fino ai piedi, sembra listarla a lutto, mentre sul pavimento fogli appallottolati e libri aperti alludono chiaramente al suo lavoro tormentato di scrittrice. La giovane donna disegnata in copertina è Iris Palmieri, la protagonista di questo libro definito dai più un memoir visionario; io credo, però, che sia preferibile bandire qualsiasi etichetta, dal momento che la stessa Palomba in più di un’occasione ha sostenuto che per creare qualcosa di autentico e di originale bisogna considerare la scrittura come margine e muoversi tra piani e generi diversi in una rivisitazione che è anche e soprattutto una contaminazione. Le vicende che la vedono protagonista si svolgono nell’arco temporale di un anno tra la Puglia, la Lucania e Roma. Non a caso il libro si divide in otto sezioni, legate tutte tranne l’ultima, Senza tempo, alle quattro stagioni da un’estate all’altra. Tre gli eserghi e tutti particolarmente significativi: il primo, tratto da Sutra del Loto X allude alla volontà di adesione al buddismo della protagonista, in cerca della suprema illuminazione, il secondo è estra­polato da Menzogna romantica e verità romanzesca di René Girard e allude al cosiddetto desiderio triangolare, l’ultimo è desunto da un antico testo in lingua copta, Tuono, mente perfetta sulla natura femminile del divino. Impossibile seguire l’andamento dei fatti e perché il libro si avvale di frequenti analessi e di sogni o incubi premonitori e quindi slitta continuamente tra passato, presente e futuro, e perché il viaggio è quasi tutto interiore, tanto che non si andrebbe lontano dal vero nel definire la Palomba speleologa del profondo. Attraverso un lento e laborioso cabotaggio lungo i liti rupestri ed impervi dell’inconscio affiorano le paure della protagonista da ricollegare in gran parte ad un episodio della sua prima adolescenza non ancora metabolizzato, lo stupro subito d’estate da un ragazzo poco più grande di lei. Crescendo Iris, i cui rapporti con la famiglia di origine sono sempre stati difficili, sperimenta tutte relazioni fallimentari, e in campo sentimentale e in campo lavorativo, per cui matura la con­sapevolezza della propria fragilità, della propria inadeguatezza e della precarietà della sua esistenza:

mi sono trovata a soffrire moltissimo per motivi che non erano chiari neanche a me, un amore finito, gli amici che mi abbandonavano, mi domandavo cosa fare della vita, restavo ad aspettare che le cose si sbloccassero. Ero ossessionata dall’abbandono. M’innamoravo di chiunque. Mi facevo spolpare e abbandonare. Mi ricoverarono. Ho dovuto esperire l’altra faccia della realtà per comprendere. Cosa significa fragilità?

Questo angosciante senso di vuoto che si porta dentro Iris cerca di riempirlo con le droghe, con il sesso sfrenato e promiscuo e soprattutto attraverso l’amicizia di Giulio, più giovane di lei, ma oltremodo sensibile con cui confidarsi e inseguire gli stessi sogni letterari. A un certo punto, però, Giulio, non meno problematico di lei, si toglie la vita gettando nello sconcerto Iris che pure insieme a lui aveva più volte accarezzato l’idea di morire, del resto le sue preferenze letterarie erano rivolte a poetesse o scrittori che si erano tutti tolti la vita prima del tempo: Silvia Plath, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Anne Sexton, Alejandra Pizarnik, Guido Morselli e Carlo Michelstaedter. Anche Iris, quindi, corteggia la morte e ha messo in atto diversi tentativi di suicidio. La morte di Giulio le fa nascere un ingiustificato senso di colpa, in quanto ritiene di non aver fatto quanto era nelle sue possibilità per salvargli la vita. Nel frattempo, anche il matrimonio con Federico, più grande di lei e scrittore già affermato, dopo i primi entusiasmi si trasforma in un gioco al massacro:

“Un anno e mezzo di convivenza ci ha trasformati nei nostri peggiori aguzzini, lui non sopporta più la mia labilità e io non sopporto più la sua grandiosità. Però mi manca quando non mi telefona, mi fa rabbia e mi manca. E io sono nei suoi desideri – nei suoi timori. […] Federico e io – ciascuno a suo modo – abbiamo un disturbo di personalità.”

Le rimane, pertanto, solo la letteratura, in grado di porre un argine alla sua mania di autodistruzione, ma ben presto si rende conto per esperienza personale e in seguito a una conversazione a cena con un’apprezzata scrittrice che:

“…la scrittura non salva, al contrario, ti toglie tantissimo, tu devi darle ogni volta un po’ della tua luce, della tua vita, allora ne vieni fuori un po’ meno vitale, ogni romanzo ti toglie qualcosa.”

Eppure, Iris continua a scrivere tra mille problemi e delusioni: screzi con gli editori, gelosie, invidie, progetti abortiti in dirittura d’arrivo (il libro a quattro mani con il marito), perché la scrittura è la sua vita. Una scrittura che oscilla tra istintività e ricerca spirituale e filosofica, senza comunque aderire completamente a nessuna delle due perché tante sono le istanze che albergano nell’animo di Iris (Ilaria), dal rapporto pro­blematico con la propria famiglia di origine e con il proprio corpo ora avvertito come una prigione ora segnato dallo scorrere del tempo, dai ricoveri in ospedale e dall’inappetenza, alla compassione nei confronti dei senzatetto, alla denuncia ferma e risoluta nei confronti del sistema che si arricchisce con la diffusione della depressione di cui si serve per stroncare sul nascere qualsiasi sogno di rivolta, utilizzando la psichiatria per curare quello che viene contrabbandato come un disturbo ma che è in realtà “un’idea di mondo non coincidente con quella della società in cui viviamo.” Non si può neanche ignorare il rimpianto della protagonista per una Puglia che non c’è più, devastata da colate di cemento che hanno spogliato una terra meravigliosa del suo fascino e della sua magia ancestrale, almeno nelle cittadine costiere invase e saccheggiate dai turisti e trasformate in non-luoghi dalla borghesia arricchita. Nell’entroterra, invece, la situazione è diversa:

“Saliamo in paese, è tutto immobile, anche la gente sembra immobile, rimasta al tempo in cui non c’era altro che paesaggio. Andiamo su e giù per le gradinate, sul viale dei Basilischi e poi verso il faro, nella villa, […] Per quanto lontano si vada, per quanti libri si leggano, per quanti viaggi si facciano, da questa campagna brulla e sconfinata non si fugge, chi è nato qui se la porta negli occhi.”  

In Vuoto – vuoto che alla fine la protagonista decide di accettare, di­chiarando non senza aristocratica fierezza: “ora il mio vuoto è un diamante, è la cosa più preziosa che ho” – ci sono frequenti e significativi riferimenti filosofici da Friedrich Nietzsche a Emil Cioran, a Gilles Deleuze che sono alla base della formazione e della visione del mondo di Ilaria Palomba. Io, però, vorrei soffermarmi su alcune citazioni cinematografiche che non hanno valore esornativo o di erudizione ma sono funzionali alla narrazione stessa, penso a Il silenzio di Ingmar Bergman in cui il regista svedese attribuisce al silenzio una forma di negazione, di rifiuto della menzogna del linguaggio, a The tree of life di Terrence Malick in cui viene rappresentato “lo scontro tra la ferocia naturale e la tenerezza della grazia” e, dinanzi al dolore di una madre che ha perso un figlio, Iris ribadisce la sua ferma volontà di non procreare per non vivere nel terrore di vederlo morire. Ne L’enigma di Kasparhauser di Werner Herzog, invece, Iris si identifica nel protagonista ribadendo la sua estraneità a un mondo sconosciuto di cui registra solo le impressioni, ma il film a cui la protagonista è più legata è Il cavallo di Torino di Béla Tarr, guardato non a caso più volte. In esso si rivendica l’impos­sibilità di una leale competizione; nel mondo non c’è lotta perché una delle due parti, “quella alta, grande, e nobile, viene annientata senza che le sia data la possibilità di battersi sul campo”. In un mondo del genere in cui trionfano i corrotti e gli immorali l’unico margine di umanità è la com­passione, quella stessa che aveva spinto Nietzsche ad abbracciare il cavallo frustato con inaudita ferocia dal suo vetturino. Mi vengono in mente le parole di Jacopo Ortis nella lettera a Lorenzo Alderani da Ventimiglia, 19/20 febbraio 1799: “Tu, o Compassione, sei la sola virtù! Tutte le altre sono virtù usuraie.”

In questo scavo interiore che la porta a confessare a sé stessa prima che agli altri le lacerazioni, le crepe e le ferite più profonde e nascoste senza remore e reticenze, la Palomba si serve di un linguaggio ricco e composito, ora ruvido e scarno, ora elegante e raffinato, sempre comunque icastico, tagliente e preciso come un bisturi. Talvolta mette in atto, con estrema disinvoltura, la tecnica del flusso di coscienza (pag. 116/7) e, attraverso il monologo interiore, i pensieri si affacciano alla sua mente senza un’or­ganizzazione logica e privi di segni d’interpunzione. Altre volte il suo linguaggio si distende più pacato e descrittivo come nel bellissimo cameo riservato alla zia Sara:

“Siamo ancora qui. Fumiamo cinquanta Marlboro nella penombra del soggiorno e sale l’oscurità, si allunga nel cremisi, il cielo è così grande – con le nuvole sguinzagliate in fantasmi – che ci inghiotte, e nelle sue fauci continuiamo a fumare, a stramaledire gli uomini e l’amore, a sorseggiare un altro bicchiere di vino che allappa e resta sui denti, sulla lingua, mentre cala la notte, non accendiamo la luce. Tra le pareti le cose che non ci siamo mai dette.”

Dinanzi a un libro del genere, così sincero, devastante e incendiario, mi viene in mente ciò che Giovanni Verga scrisse nella prefazione ai Malavoglia: “Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicare”. Chi legge Vuoto di Ilaria Palomba, una perla rara nella narrativa con­temporanea, ha il dovere di accostarsi in punta di piedi, di non far rumore e di godersi la bellezza inusitata di questo libro eccezionale.

 

 

 

 

 

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Informazioni su giovanniag

Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976), è scrittore, traduttore letterario e blogger. Autore del libro di viaggio "Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa" (Fusta Editore, 2020) e del romanzo psicologico "Viale dei silenzi" (Arkadia, 2019), ha anche preso parte al romanzo collettivo "Il postino di Mozzi", a cura di Fernando Guglielmo Castanar (Arkadia, 2019). È inoltre autore di una quadrilogia di romanzi distopici sul tema del crollo di internet e della società del controllo ("Sentieri di notte", "Partita di anime", "La casa degli anonimi" e "L’ultimo angolo di mondo finito", editi da Galaad tra il 2012 e il 2017 e in prossima riedizione in volume unico), in parte pubblicata anche in spagnolo e in polacco e in prossima riedizione in volume unico. Ha scritto, curato e tradotto vari libri sulle opere di J.R.R. Tolkien (su tutti, "Tolkien. Light and Shadow", opera bilingue italiana-inglese, ed. Kipple, 2019), e tradotto o co-tradotto saggi su William Shakespeare e Roberto Bolaño ("Bolaño selvaggio" a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, ed. Miraggi, 2019, tradotto insieme a Marino Magliani), oltre a libri di Jorge Mario Bergoglio, Kamala Harris, Arsène Wenger, Amir Valle e Peter Straub. Ha partecipato a numerose residenze letterarie e reading in Europa e negli Stati Uniti, e traduce da inglese, spagnolo, francese e portoghese, oltre a parlare il polacco. I suoi contributi critici sono disponibili sui blog “La Poesia e lo Spirito”, “Lankenauta”, “Poesia, di Luigia Sorrentino” e “Postpopuli”. Insieme alla giornalista Valeria Bellagamba, ha creato e gestisce la pagina Facebook "Anticorpi letterari", con interviste in diretta video a protagonisti del panorama culturale italiani e internazionale. Il suo sito è www.giovanniagnoloni.com.

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