Marino Magliani intervista Lamberto Garzia

Marino Magliani intervista Lamberto Garzia sul suo nuovo libro Capped Dice (Betti Editrice, 2021)

Il titolo del libro, Capped Dice, prende spunto da un termine desunto dal gioco dei dadi o Craps, che vuole intendere un dado (truccato) sottoposto a limatura di uno dei lati e consequenziale certosino riempimento/incappucciamento (capping) dello spazio lavorato con un materiale diverso, che alla vista appare identico all’originale, ma anche e più semplicemente L’INCAPPUCCIATO (l’autore) DICE, racconta, attraverso le pagine di un Diario allucinato e a tratti esilarante, di una pericolosa  indagine tesa a svelare un Mistero, nella quale il personaggio principale, almeno nelle prime pagine, è quello del grande scrittore Tommaso Landolfi («Giusto appunto, mi hai detto dell’esistenza del gran segreto, che se permetti lo intenderei col termine inganno. E quindi, più precisamente, mi hai rivelato di possibili, sebbene in dato modo catalogabili, malefatte di tale signor Landolfi. Ma questo oscuro non me lo puoi per il momento squadernare, anche perché questo oscuro non è ancora per te del tutto chiaro… e una volta portato alla luce ciò che è intimo nella sua mantella lisa, sarà una calamità, anche se poi una calamità per chi, Lamberto…»). Ma accanto all’illustre narratore, nel Diario compariranno, sotto forma di racconto diretto o citazione, personaggi reali noti (Valentino Zeichen, Giuseppe Conte, Nico e Matteo Garrone, Oriana Fallaci, Rocco Carbone, Franco Cordelli, Alberto Sironi, Antonio Franchini, Alessandro Ceni, Giovanni Maccari, Aldo Gabrielli, Jonny Deep, Orson Welles, Sylvester Stallone,  Sugar Ray Leonard, Roberto Duran, Eddy Merckx, Philip Warren Anderson e molti altri, che per “opportuna delicatezza” verranno nominati soltanto con la lettera X, sia perché alcune indagini non sono concluse e sia perché alcune sono donne che nei loro specifici campi sono assai popolari) e meno noti, ma non per questo meno importanti all’interno della puntigliosa struttura del romanzo.

Intervista di Marino Magliani all’Autore:

– Leggendo il libro mi sembra di capire, che senza la figura di Tommaso Landolfi, forse non sarebbe mai nato…

– Certamente no. Ma bisogna fare un salto gambero a circa 8 anni fa, quando mi fu ufficiosamente commissionato da un College statunitense un compito specifico, che interessava la figura del grande scrittore in rapporto al Ponente ligure e in particolare modo la cittadina turistica di Arma di Taggia, nella quale visse, più o meno permanente, dal novembre 1962 al dicembre 1968.

Terminata, in parte la ricerca, basata sulla toponomastica del paese negli anni 60 e le opere scritte da Landolfi in quel periodo, ho deciso di approfondire meglio il rapporto tra la parola scritta e la realtà nel suo divenire, perché avevo ipotizzato la possibilità di dare vita ad un Percorso d’Autore denominato «La Passeggiata Landolfiana”, interessando l’Amministrazione Comunale di Taggia, la quale ha accolto con entusiasmo la proposta (Progetto, o meglio attuazione materiale del progetto sospeso nel marzo 2020 causa coronavirus).

Durante la ricerca iniziai a mantenere un diario informale, che teneva a mente in diario scritto da Landolfi ad Arma di Taggia tra il novembre 1962 e l’aprile 1963 e pubblicato nel 1967 con il titolo DES MOIS.

– Quindi il libro è conseguenza del tuo diario…

– Sì, anche se poi altri «folletti» hanno fatto capolino, sovente dispotici… Anche se vorrei precisare, venendo io dalla poesia, che ho cercato di mantenere per l’intero volume un linguaggio poetico; anzi azzarderei affermare che trattasi di un libro – diario poetico di 525 pagine.

– Il titolo è in inglese… e non poche frasi all’interno del libro sono in inglese…

– Per quando concerne il titolo, vi è stata una sorta di doppia obbligatorietà, dato che Capped dice è un termine desunto dal gioco d’azzardo, tanto caro a Landolfi,  e per precisione dal Craps (popolare e antico gioco d’azzardo con i dadi – dice), dove si intende un dado (truccato) sottoposto a limatura/rasatura di uno dei lati e consequenziale certosino riempimento/incappucciamento (capping) dello spazio lavorato con un materiale diverso, che alla vista appare identico all’originale. Questo materiale alterato, dalle proprietà diverse (massa più pesante, maggiore densità, differente elasticità), capace di produrre forme di rimbalzo anomale sul tappeto verde e a vantaggio del giocatore, è considerato il metodo più intelligente per fare sembrare i dadi identici a quelli ufficialmente in dotazione in una Sala da Gioco… e questa è la prima obbligatorietà, che è in effetti subordinata alla seconda, che  altro non è che una considerazione vertiginosa di Landolfi presente in DES MOIS:

« Rien va. Per cominciare è un solecismo; forse sostenibile (qualunque costrutto si può sostenere in qualche modo) e forse anche confortato da buoni esempi. Comunque questo poco importa, importa per contro a me stabilire che detto titolo non è quello originale; l’originale […] è NO DICE. Nella quale sostituzione è però andato perduto il vero senso del titolo stesso. Io intendevo, in sostanza, dire che con tanti discorsi non avevo concluso nulla; e niente altro. Perché dunque, invece dell’espressione inglese non avevo adottato un onesto Colpo nullo in buon italiano? […] No dice, invero è colpo già caduto, pienamente configurato, e successivamente dichiarato nullo per qualche vizio; Rien va è al contrario semplice incidente di gioco, e neppure di gioco di manovra, in cui il colpo non ha avuto il tempo di configurarsi. No dice annuncia il capo partita quando i dadi abbiano già segnato e mostrino il punto; Rien va grida il bouleur quando, per esempio, un oggetto estraneo sia caduto nel piatto rotante e ostacoli la regolare corsa della pallina, o in casi consimili (può bensì avvenire che quest’ultima, sfuggendo alle dita dell’impiegato, si adagi ugualmente in qualche casa, ma è falso adagiamento e falso punto e, allora sì, casuale). In altri termini, il mio titolo era meramente negativo, e questo di Rien va torna a positivo…»

Invece, per quanto riguarda l’uso dell’inglese all’interno del libro, è esclusivamente un uso ironico e volte autolesionistico… In questi giorni sto terminando la prima assai confusa stesura di quella che è o dovrebbe essere il Diario numero 2, frutto di un mio viaggio in Messico nel febbraio del 2020 (precisamente nella parte terminale della Grande Valle del Rio Bravo, a Matamoros – Playa Bagdad, un tempo Puerto Bagdad) e Texas (Brownsville -Boca Chica, dove ha sede SpaceX, il sito di lancio aereospaziale) dal titolo LIVE DEALER, e ad un certo punto, conversando con un biologo marino incaricato di salvaguardare il deporre delle uova da parte della Tortuga lora (tartaruga pappagallo), espongo il mio parere: «… l’inglese lo usiamo per far colpo, perché ci immaginiamo che il lettore o ascoltare ne possa rimanere meravigliato, una forma di Meraviglia e Possesso… in verità, io ne faccio uso autoironico e non poche le volte in un desiderio autolesionistico, mi fa schifo quella lingua barbara priva di eleganza, tendente ad un utile immediato o immediatezza di scopo: “Mi hanno invitato cena, ho appena terminato di vestirmi, indossato un paio di mutandoni lungi, esco ora e in anticipo da casa, non è educato giungere in ritardo”, questo è l’uso dell’inglese, capisci cosa intendo ».

– Il sottotitolo è «Diario di una battaglia novembre 2016 – aprile 2017», fa riferimento al provocatorio scontro – incontro che ingaggi con Landolfi, e da qui i tanti rimandi alle arti marziali, al pugilato e ad autori che ne hanno trattato come Antonio Franchini o Norman Mailer …

– All’apparenza il nemico appare essere Landolfi, credo il maggior rappresentante novecentesco del saper scrivere in prosa, ma in verità è uno scontro (maggiormente una preghiera sacra) con il linguaggio, teso a voler in esso trovare una identità o appartenenza, possederlo ed esserne posseduto… come al tempo stesso la figura del Landolfi uomo in Arma di Taggia è stata usata (o essa da tramite) per cercare una identità specifica di luogo circostanziato… e questo incedere è confermato o tragicamente confessato a pagina 483, quasi al termine del diario:

« […] A raccontarmi questo, più o meno due mesi fa, è il sarto Beppe (credo si chiami Giuseppe, credo) Manco, vestito  sempre elegante anche se l’età c’è: 84 appena fatti, aveva precisato. Lo avevo disturbato, nei pressi del non più tra noi passaggio a livello, per una bazzecola [bazzecola?!] circa il cappotto rivoltato di Landolfi, poverino… mi sopporta non tanto perché sia io di origini salentine e lui un signor assai educato, ma anche perché coglie occasione per raccontare qualcosa del passato lontano, un raccontare quasi esentato da aneddoti, basato in maggiore sul qui c’era, poi c’è stato, ora c’è: e lo fa in una trattenuta malinconia che non sconfina nel patetico, è un sentire, così mi appare, di chi ha amato un luogo e ancora, seppur con certa demarcazione, lo ama… e lo trovo squisito e squisita per lui questa inclinazione di anima: e un poco lo invidio, io che non voglio ricordare, io che non posso ricordare un luogo che ho sempre detestato o non considerato, che l’ho vissuto (sono stato vissuto) come un non-luogo, l’unico luogo che aveva precisa caratteristica di luogo era la palestra di judo… E se mi si dovesse chiedere il perché, potrei semplicemente proferire ma signori, guardatela, l’unica cosa che È: è il mare che cambia man mano di colore e l’estesa spiaggia, se poi considerate come una cosa che È questo incoerente ammasso di bungali in aberrazione verticale, falange di villette tutti colori, palazzoni da deflagro anni ’60 o la sterilità sentimentale di questo aggrego di persone e non un viso nuovo tra questi soliti e rozzi visi… E argomentazione altra, rimanendo nelle cose discorse con la mente, potrebbe mirare a quell’essermi, IO, mai sentito armasco o sanremasco e tanto meno ligure, ma allora che, se non ti senti neanche abruzzese o pugliese, evita risposte pseudo poetiche come una di quelle che hai dato a un blog letterario di sottobosco, che il tuo appartenere non è da cartina geografica,  ma dal fondo di un vulcano marino sommerso al fondo dell’ultimo buco nero conosciuto, Ridicul… ma, e veniamo a cruciale punto, non è che la tua mania su Landolfi – tralasciando altrimenti… sorvolando sul Dark Tourism, su Antonio Campanella, su T. Garcia Cortes, su Richard Jarecki e chi ne ha più ne metta – e i presunti luoghi landolfiani non siano altro che un disperato tentativo di cercare, o di convincerti, di aver trovato un che di appartenenza e dare un senso, quindi, al tuo sradicamento esistenziale e a te stesso urlare, vedi, Lamberto qui c’era la Scuola Guida Anfossi, poi c’era stato il negozio emporio di Roncalli, ora c’è la parrucchiera Enrica, dove tua mamma più non può andare, e se vuoi aggiungici pure che lì, svoltando a destra c’è il portone della palazzina (medesimo complesso registrato al catasto nel 1960 e reso abitativo dal 1961) nella quale, in un appartamento al secondo piano, ci aveva abitato per fugace tempo Tommaso Landolfi, quel grande e sventurato scrittore che stai rivoltando come un calzino…. E non che sia … e non… e che in tutto vi rientri questo presunto Diario, che stai cercando di compulsare, dannatamente alterato?»

– Al termine del libro è presente una Nota dell’autore, che è un vero e proprio episodio narrativo, ma è anche un dire o confessare significatamene spiazzante, medesimo termine usato dal direttore editoriale della Betti, Paolo Ciampi.

– Ad essere sincero questo libro che mi sono ritrovato tra le mani, un oggetto ingombrante, una Cosa difficile da definire… e che non so bene definire… e se in forma colloquiale dico che un è acido senza o non esagerata assunzione di acidi o come la sinfonia wagneriana de Le Valchirie suonata a ritmo infernale Heavy Metal con chitarra elettrica  EVH Wolfgang Standard – Van Halen e amplificazione Marshall “Super-Lead” da 100 watt … In forma o ripiego intellettuale affermo e confermo che per la stesura avevo costantemente a mente gli scritti di Philippe Lejeune,  Georges Gusdorf (compresa la loro vivace querelle), Alain Girard, Stephen Greenblatt, Shuzo Kuki e altri… ma conferma questo non è per me conferma di questa Cosa che tengo tra le mani…  Certamente potrebbe apparire un genere o sottogenere «nuovo» fecondato in vitro,  un Grafted Diary, che post-parto è Cosa che potrebbe divenire o già è Cosa gemellare o trigemina, e nel peggior dei casi una Cosa deforme, che potrebbe benissimo e giustamente essere abbandonato sul monte Taigeto, e lì dimenticato… Ma anche in questo caso, sulla Cosa deforme o meno, non credo di aver aggiunto molto… e forse, ricollegandomi alla domanda sulla Nota dell’Autore, proprio da questa faccio citazione ultima, sperando essere più da rischiaro, anche per me.

(…)

Oggi, che è della Nota dell’Autore, obbligata o non obbligata che sia, che si abbisogna, perché sempre – come il Maestro Landolfi insegna e riporta a mo’ di congedo nell’ultimo rigo del suo Diario Terzo, DES MOIS – sempre c’è… c’è sempre:

C’è qualcosa di impavido nel sonno dei morti.

«Nos tertium genus insitionis invenimus … Noi abbiamo inventata una terza maniera d’innesto, la quale essendo delicatissima non è acconcia per ogni schiatta d’alberi, ma comunemente l’ammettono quelli che hanno umida, succosa e forte l’intera corteccia…» – (Lucio Giunio Moderato Columella, scrittore latino di agronomia)

Mentre sono qui, in questo appartamento ubicato in via Aurelia 244, Arma di Taggia, e nella mia stanza ricopio dal quaderno copertina arancione su altro copertina nera questo Diario, percepisco, dettato forse da abbagliante sfibramento psichico, di aver dato forma a un genere o sottogenere letterario: una specie di larvato Grafted Diary, un diario innestato in altro diario… un primus genus insitionis ho forse inventato, mi domando [e dalla nostra camera segreta, la Valki annuisce, facendo percussione con le dita a paletta sui tasti laterali di un flipper Dark Rider], che certo non è acconcio per ogni schiatta di lettore, ma neanche – e su questo si potrebbe fare malalingua – progettato a tavolino… e se proprio si vuole individuare un mobile che è tale e quale nel nome e del quale ne ho fatto uso, non ho problemi a confessare che trattasi di un tavolino o tavolo dal panno verde smeraldino, dove, nella Sala Universale del Gioco d’Azzardo, i dadi, non truccati, rotolando e rimbalzando, mostrano, terminato il loro tragitto, dei numeri che sommati potrebbero rivelare vittoriosi un 7 oppure un 12, ma anche e oppure qualsiasi altro risultato, che è e sempre sarà frutto del fortuito fottuto Caso…

Lamberto Garzia è nato a Sanremo nel 1965.

Dopo un lungo peregrinare tra Nizza, Roma (baracca adiacente quella del grande poeta Valentino Zeichen), Atri (Abruzzo), attualmente vive tra Arma di Taggia (estremo Ponente ligure) e Tellaro (estremo Levante ligure). Ha pubblicato tre libri di poesia (La Chanson de Lambert, prefazione di Giuseppe Conte; Leda, pref. di Claudio Damiani, SHIAI E AI, postfazione di Milo De Angelis), parti di essi sono stati tradotti, tra l’altro, in Giappone e Cina.

Ha ideato, ancora in fase di attuazione, il Percorso d’Autore LA PASSEGGIATA LANDOLFIANA in località Arma di Taggia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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