“Piazzale senza nome”, di Luigia Sorrentino

Recensione di Gisella Blanco

Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Collana Gialla Oro, Pordenonelegge-Samuele Editore 2021

Leggendo la nuova raccolta poetica di Luigia Sorrentino ci si ritrova, quasi involontariamente, al centro di uno sconfinato Piazzale senza nome (Collana Gialla Oro, Pordenonelegge-Samuele Editore 2021). Nel cuore di un inverno archetipico, l’umanità è radunata al cospetto di una grande morte, nello spazio atemporale di un piazzale in cui i destini umani, pur non conoscendosi, si incrociano.

La poeta pone in esergo un frammento di Plutarco dal quale si evince la dicotomia esistenziale che attraversa l’intera opera: “La morte dei vecchi è come un approdare al porto, /ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio”. Sullo sfondo dei versi, infatti, esiste e insiste il parallelismo fra il morire da vecchi e il morire da giovani di una sola, identica morte. Mentre, però, la morte del vecchio uomo è una morte d’approdo che esprime la pienezza di una vita vissuta senza difficoltà, le vite dei giovani si sono spezzate prematuramente nell’ebbrezza della dipendenza, nella chimera della gioia. Il libro della Sorrentino è dedicato al padre ed è stato scritto in un periodo cronologico ben preciso (2017-2018) che, però, sembra espandersi e inerire a un presente, il nostro, in cui il passato non ha mai smesso di pulsare e di operare una costante contaminazione dell’attualità.

Il linguaggio, dotato di intrinseca musicalità, scandisce il ritmo emotivo di climax ascendenti e discendenti che raccontano il susseguirsi di tragedia e miseria. Elementi semantici e metaforici della grande poesia novecentesca (si pensi alla poesia metafisica di  Hölderlin  e a quella filosofica di Schiller) si uniscono a lessemi ultracontemporanei e a immagini iperrealistiche in un contesto lirico psichedelico, alimentato da fonti di luce intermittenti, accecanti, disorientanti, come le luci stroboscopiche degli anni Ottanta.

La neve attraversa l’intera narrazione, è il simbolo plastico e cangiante che viene sapientemente modellato in sculture etiche di grandezza e di minimalità, di resistenza e di fragilità, di terrore e di desiderio così come l’umanità, davanti alla morte, si declina in infiniti volti mantenendo una sola espressione di disarmo. Se nello sfondo emotivo dell’opera si percepisce, nitida, l’immagine del commiato a una persona anziana, è la scomparsa dei giovani che trafigge lo sguardo del testimone: “– è nel dolore totale – non oppone resistenza alle braccia che lo sollevano per distenderlo nudo sul tavolo”.

I fatti narrati nell’opera afferiscono alla realtà di una piccola città di provincia (e di un tempo passato, riferito simbolicamente all’età adolescenziale) che si espandono all’attualità. “L’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata” e ancora “all’alba spalancherà gli occhi senza nessun ricordo. La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto”.

Nel teatro scomposto della visuale lirica della Sorrentino una coralità spezzata riempie il silenzio delle assenze, della progettualità stroncata e dell’autonomia etica. Emerge il tema – mai risolto – dei giovani e della droga (“l’attimo innaturale della bocca/in villa comunale/tre fiale al giorno di morfina/il sonno dai lunghi capelli/tagliava i loro volti/indossavano la pelle di capra” e ancora “la polvere bianca sventra il proprio/antecedente, quello che era prima/delle stelle, nel tempo anteriore/alla città indifferente”), immagini surreali e, al contempo, oniricamente ancorate a una drammatica verosimiglianza ontologica. Astrazioni dionisiache suggeriscono la presenza della sacralità del dolore nell’epica della cronaca quotidiana: “– vi divoreranno/il coltello posato a due centimetri/dal lago/dal sangue/dalla carne strappata –/– vi insultano –/la capra geme sul tavolo/la gravità,/oscura forma,/la preda”. Ed è proprio dalla cronaca quotidiana che emergono i fatti di violenza che la poeta, senza cedere alla lusinga del giudizio, indaga e incastona alla memoria lirica per non lasciare che il passato cada nell’oblio e nell’indifferenza del presente.

Il femminicidio fa il suo tetro ingresso nel piazzale di una società avvezza alla ferocia: “la ragazza dal volto antico/si sottomette/rende cadavere la cosa/una forza la preda/non uccide ancora, è sospesa/su di lei/l’imperativo potente l’ha resa schiava”. Il corpo femminile è testimone della barbarie della città: “l’arteria della gola tesa/porgeva il collo alla lama/il promontorio dagli occhi languidi/tornava a deporla/sulla città distesa davanti ai loro occhi/quell’odore di labbra poteva già essere/c’era sempre stato/non sospettava di essere/coraggiosa e giovane”. L’intera umanità viene estirpata dal grembo materno e crolla per terra, nel sangue oscuro: “senza cautela il gesto umano/restringe l’insanabile vita/la risucchia via/deborda, cola sul pavimento/la tenebra”.

Brevissimi versi scandiscono il contrito ritmo del dramma come una cantica di grida indomabili che si intervallano a rabdomantici testi in prosa caratterizzati da una accorata prosodia invocativa ed evocativa in cui sono presenti incidentali frammenti realistici sui quali si innesca l’ipotesi della comunanza irrisolvibile del destino umano: “Adunata sul petto risuona fra le braccia la corrispondenza armonica del cuore in esilio. Le parole non ci sono. Sono nel silenzio di quella mattina d’agosto, alla fermata dell’autobus. Nel voltarsi”. La violenza ha i suoi rituali (“tutti mangiarono la capra/sgozzata, anche il più giovane”) dai quali non sfuggono carnefici e vittime all’interno di un’ergonomia universale incomprensibile in cui la fisiologia della mortalità maturata nell’uomo anziano e la patologia della fine affiorante dalla giovinezza si avvicendano e si confondono senza tregua.

Nell’addio “l’emergenza è un corteo di torture”, un’impellenza del divario esistenziale tra nascenti e morenti, perfettamente fungibili nell’economia del tempo e dello spazio. La gestualità dello spegnersi è oggetto di un’analisi acuta, mai descrittiva (“gli ultimi gesti/sconfinano nella gravità/sempre più giù/la testa contro il petto/impressa sul torace la faccia/l’ultima vena si è fermata/morire con gli occhi offuscati/oltre le labbra/compulsiva/sofferenza senza risposta”) in cui non viene accantonata la vocazione autoriale alla percezione dell’invisibile come estremo simbolo della vita: “oltrepassato/il confine restituita la voce/all’universo/la sorgente di luce non era più/visibile/era tramontata fra gli alberi”.

Se il fisico è la metafora dell’impermanenza e i sintomi della morte (“livide le estremità delle dita richiamate verso il basso/raggrumavano sangue/lo stupore della rosa/intorpidita e muta/il tempo fermo nella sua ora”) accennano all’inchino della carne allo spirito, l’amore affiora dalle fessure della morte consacrando l’uomo (e la poeta) alla “sconosciuta/profondità del vedere”. Non a caso, l’ultimo personaggio di questa città epocale è il giardiniere che, oltre la vita e oltre la morte, “a una distanza breve” ha lasciato in eredità la sua traccia negli utensili che usava per diserbare il giardino. Il naturale approdo al porto dell’esistenza risiede nel gesto ultimo e perpetuo dell’uomo che continua a coltivare, con pazienza e amore, la stessa terra da cui ognuno potrà raccogliere se stesso.

 

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Informazioni su giovanniag

Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976), è scrittore, traduttore letterario e blogger. Autore del libro di viaggio "Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa" (Fusta Editore, 2020) e del romanzo psicologico "Viale dei silenzi" (Arkadia, 2019), ha anche preso parte al romanzo collettivo "Il postino di Mozzi", a cura di Fernando Guglielmo Castanar (Arkadia, 2019). È inoltre autore di una quadrilogia di romanzi distopici sul tema del crollo di internet e della società del controllo ("Sentieri di notte", "Partita di anime", "La casa degli anonimi" e "L’ultimo angolo di mondo finito", editi da Galaad tra il 2012 e il 2017 e in prossima riedizione in volume unico), in parte pubblicata anche in spagnolo e in polacco e in prossima riedizione in volume unico. Ha scritto, curato e tradotto vari libri sulle opere di J.R.R. Tolkien (su tutti, "Tolkien. Light and Shadow", opera bilingue italiana-inglese, ed. Kipple, 2019), e tradotto o co-tradotto saggi su William Shakespeare e Roberto Bolaño ("Bolaño selvaggio" a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, ed. Miraggi, 2019, tradotto insieme a Marino Magliani), oltre a libri di Jorge Mario Bergoglio, Kamala Harris, Arsène Wenger, Amir Valle e Peter Straub. Ha partecipato a numerose residenze letterarie e reading in Europa e negli Stati Uniti, e traduce da inglese, spagnolo, francese e portoghese, oltre a parlare il polacco. I suoi contributi critici sono disponibili sui blog “La Poesia e lo Spirito”, “Lankenauta”, “Poesia, di Luigia Sorrentino” e “Postpopuli”. Insieme alla giornalista Valeria Bellagamba, ha creato e gestisce la pagina Facebook "Anticorpi letterari", con interviste in diretta video a protagonisti del panorama culturale italiani e internazionale. Il suo sito è www.giovanniagnoloni.com.

8 pensieri su ““Piazzale senza nome”, di Luigia Sorrentino

  1. Antonio Fiori

    La denominazione scelta si presta effettivamente a qualche critica, avendo tra l’altro a disposizione ‘poetessa’ (sostantivo che a sua volta può non piacere). Io ogni tanto uso la poeta nel parlato quando so che l’autrice gradisce, scrivendo cerco di evitare sia la poeta sia la poetessa, preferendo l’autrice o rimanendo nel maschile ma intercalandolo con autrice per dimostrarne l’uso in senso generale

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  2. luigia sorrentino

    Cari signori che avete creato la discussione fra “poeta” e “poetessa”.

    La scelta è mia, nel senso che il poeta non è né maschile, né femminile, ma è un ibrido, un neutro, che raccoglie entrambi i sessi in uno. Non si dovrebbe fare questa distinzione a mio avviso, perché la voce della poesia è universale e si può leggere senza conoscere “il sesso” di chi l’ha scritta, perché la distinzione non aggiunge nulla alla poesia, semmai toglie qualcosa… .

    C’era una battuta che mi faceva tanto sorridere di Jolanda Insana che diceva che odiava essere definita “poetessa” perché le sembrava dispregiativo, un’offesa alle donne poeta. Ma non era l’unica: ricordo anche Maria Luisa Spaziani. Diceva che dire “poetessa” era un modo per offendere la poesia delle donne. E poi c’è la grande Cavalli: guai a chiamarla poetessa!

    Comunque pensatela come volete, alla fine quello che conta è ciò che uno scrive.

    Ci sono poeti “gnomi” diceva la Insana e donne poeta giganti: un nome per tutti? Amelia Rosselli.

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  3. Antonio Fiori

    Non posso che essere d’accordo con Luigia Sorrentino. La questione sorse in ambito ‘femminile’ e personalmente mi posi il problema per non essere scortese con alcune autrici. Non nego che la mano femminile non possa – talvolta – notarsi e distinguersi nella scrittura poetica da quella maschile, ma quel che è certo che la poesia è universale e il poeta pure.

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  4. Alessandro Canzian

    Entro anch’io in questa discussione, apprezzando la leggerezza della Sorrentino nell’affrontare la questione.

    Intanto se di tutto il libro e della recensione l’unico tema che emerge è la diatriba “poeta” / “poetessa” direi che si va sul poverello. Contrapporre un nome al “teatro scomposto della visuale lirica della Sorrentino, una coralità spezzata riempie il silenzio delle assenze, della progettualità stroncata e dell’autonomia etica” mi sembra oltremodo riduttivo.

    Poi ognuno legge quel che si riflette in sé.

    Dico la mia: la recensione mi piace, è ben focalizzata. Il libro pure.

    Non amo il termine “poeta”, e lo uso meno possibile. Come dice intelligentemente Fiori anche io non di rado lo uso perché richiesto dall’interlocutore. Non mi sento svilito né sento un “italiano”, lingua viva per definizione, svilita dall’uso.

    La Blanco usa “poeta” in linea con l’idea e la poesia della Sorrentino. Può non piacere, ma è stata molto pertinente.

    Tutto ciò che è vivo spesso non va nella direzione che a noi piace. C’è da chiedersi se siamo adeguatamente colti e forniti d’intelligenza poetica per poter giudicare.

    “Non a caso, l’ultimo personaggio di questa città epocale è il giardiniere che, oltre la vita e oltre la morte, “a una distanza breve” ha lasciato in eredità la sua traccia negli utensili che usava per diserbare il giardino”.

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  5. Antonio Fiori

    Carissimo Alessandro, hai naturalmente ragione nel richiamare l’attenzione sul libro e la recensione.
    Per quanto mi riguarda conosco la qualità e originalità delle letture critiche di Gisella Blanco e, naturalmente, quella della poesia di Luigia Sorrentino. La lettura di questa recensione (il libro ancora non lo conosco) mi ha indotto, su fb al breve commento che qui riporto: “Per far vedere davvero la realtà, la poesia deve trasfigurarla oppure, come per secoli si faceva nella pittura sacra, ricollocare gli eventi in un’altra epoca storica”

    Buona serata

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