Dopo aver dedicato un frammento alla pittura nel cinema, la visione de Il quadro rubato (2024) mi ha suggerito l’idea di scriverne uno sui film che abbiano al centro uno o più dipinti. Il film di Pascal Bonitzer al centro della vicenda ha I girasoli di Egon Schiele, bandito nel 1939 come esempio di arte degenerata dai nazisti. Un esperto d’arte lo ritrova per caso nella casa di un giovane operaio francese. La donna in oro (2014) di Simon Curtis racconta una storia vera simile, ma dentro una narrazione drammatica, quella di Maria Altman che vuole recuperare il ritratto della zia, Adele Bloch-Bauer, realizzato da Gustav Klimt e sottratto alla sua famiglia durante le deportazioni degli ebrei. Un anno prima era uscito Monuments Men diretto e interpretato da George Clooney. Durante la Seconda Guerra Mondiale gli americani arruolarono un gruppo di esperti d’arte per supportare il recupero di opere d’arte saccheggiate dai tedeschi.
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Frammenti di Cinema # 91
di Pasquale Vitagliano
Il cinema e la scrittura. Il film che è riuscito a tradurre in immagini il processo creativo legato alla narrazione scritta, al piacere della scrittura, avrebbe precisato Roland Barthes, è un film del 2012 di una coppia di registi esordienti e da allora rimasti semisconosciuti, The words. Il cast, invece, è importante con Jeremy Irons, Dennis Quaid e Bradley Cooper. Solo apparentemente sovrapponibile è Animali notturni, uscito qualche anno dopo, nel 2016, con la regia di Tom Ford. Anche qui il vero protagonista è la trama narrativa, ma non colta nel suo destino creativo, quanto nella sua meccanica rispetto alla realtà. Infatti, solo il cinema, con le categorie di spazio e di tempo tutte sue, riesce a rendere come verità e finzione si intrecciano quasi incomprensibilmente. Continua a leggere
Addio a Francesco Marotta. La sua poesia è stata una tempesta silenziosa.
Ci ha lasciato Francesco Marotta. Era nato settantuno anni fa a Nocera Inferiore ma ha vissuto in provincia di Milano dove ha insegnato storia e filosofia. E’ stato un poeta e un traduttore raffinato. Ha animato uno dei primi e più autorevoli blog letterari, La dimora del tempo sospeso. La sua ultima opera è Polvere, pubblicata da Anterem un anno fa. Personalmente l’ho conosciuto grazie al suo blog. Anzi, devo dire che è stato il primo che ho frequentato. L’ultima volta che ci siamo sentiti, qualche anno fa, si lamentava dello stato attuale della poesia, anzi, meglio, del mondo della poesia: rumoroso e conformista. Giustificava così il suo isolamento. Eppure, egli, con il suo blog, ha dato spazio alle voci più autentiche e promosso presenza e dialogo poetico e culturale. E’ rimasto comunque fino all’ultimo fedele alla sua vocazione, secondo cui, con le parole del suo poeta più amato René Char, la poesia se non si fa “tempesta” diventa puro calligrafismo, un “ricamo sulla pelle del nulla”. Lo associo ad un’altra figura che ci ha lasciato troppo presto, Gianmario Lucini, poeta ed editore, accomunati dalla stessa figura ieratica.
La poesia più potente è quella silenziosa.
(Pasquale Vitagliano)
20 righe (per niente) facili
di Pasquale Vitagliano
Il tema del Ethna, l’ultimo romanzo di Anna Bertini (Arkadia, 2025), è musicale. Anzi, è una canzone, Ethna’s Song. Intorno a questo tema, che ritorna puntualmente, come nel jazz, c’è l’imprevedibile assolo della vita di ciascuno di noi. La protagonista ritorna in un luogo, Castel Sonnino, dove aveva soggiornato in un periodo difficile della propria eistena. Si trova a dialogare con una sua doppia e a riscoprire la persona che era stata allora e che non è più. La musica tende il filo che le consente di non perdersi in questo viaggio a ritroso. “Ho cercato dentro di me un certo distacco, necessario per ripercorrere i giorni che hanno cambiato in modo radicale l’andamento della mia esistenza, e anche la mia indole”. Il jazz è il viatico per il suo rinnovamento.
Conclave. Un’ipotesi di saggio su Dio (nel cinema)
di Giulio Bruno
Un thriller teologico, oggetto di aspre critiche da una parte del mondo cattolico.
“La lotta per il potere è appena iniziata” recita la locandina del film Conclave, diretto da Edward Berger e tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris. E non c’è dubbio che la struttura narrativa di Conclave sia incentrata su una tale lotta e appaghi l’aspettativa dello spettatore di fruire di un racconto cinematografico ricco di suspense e di colpi di scena: considerato il tema forse principale che viene trattato, Conclave può essere considerato un thriller teologico, anche se la definizione è inevitabilmente non esaustiva rispetto ai contenuti proposti. Non manca del resto neanche un sorprendente finale, peraltro alquanto anomalo, ove si tenga conto dei tradizionali valori e della storia della Chiesa cattolica – e che, in definitiva, attiene ad altro importante tema del film.
Conclave ha suscitato aspre critiche in alcuni ambienti ecclesiastici ed accademici. Per esempio, Per il cardinale Gerhard Müller – prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede sino a metà 2017 (quando Papa Francesco lo sostituì con il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer) e, negli ultimi anni, uno dei più critici oppositori interni di Papa Bergoglio – “è un film di propaganda molto anti-ecclesiale e anti-cristiano che avrebbe potuto essere prodotto ai tempi di Hitler o Stalin“[1]. Per Regis Martin, “il film è in realtà è un atto di sovversione, non solo dell’ordine della natura, ma della grazia stessa, in particolare la grazia di Dio Onnipotente nel darci una Chiesa armata di sufficiente certezza che quando parla è Gesù stesso che sentiamo.”[2] Per padre Raymond J. de Souza, “si tratta di una sfida frontale per una Chiesa che propone dei credi – e li prega ogni domenica – e pubblica un catechismo universale”.[3]
La figura del cardinale decano Thomas Lawrence e i due temi principali del film.
Il regista Edward Berger – il suo precedente film ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’ vinse quattro premi Oscar nel 2023 – in merito alla eventuale esistenza, in generale, di un suo stile personale, ha parlato di “prospettive ristrette”: come spiegato da alcuni siti internet, tutto lo sforzo creativo si concentrerebbe in una grande soggettività che va a focalizzarsi sul protagonista. La struttura narrativa di Conclave è coerente con tale dichiarazione: in effetti, la figura del cardinale Thomas Lawrence (magistralmente interpretato da Ralph Fiennes), protagonista principale del film, incaricato del coordinamento del Conclave per l’elezione del nuovo pontefice in ragione della sua veste di decano del collegio cardinalizio, è centrale nella narrazione filmica e nella generazione dei principali significati racchiusi nel film. E ciò sia per l’incidenza, sull’esito del conclave, delle iniziative da lui responsabilmente intraprese, sia per gli alti valori morali nei quali, uomo integerrimo, crede con fermezza e che ispirano la sua condotta, finalizzata, durante tutta la durata del Conclave, a consentire la elezione del cardinale più meritevole, indipendentemente dalle logiche di potere, sia per il genuino tormento interiore che lo caratterizza. È per mezzo della sua figura che viene trattato il tema fondamentale del rapporto fede – dubbio. Le idee proposte al riguardo costituiscono il principale motivo delle aspre critiche di cui si diceva sopra, per via dell’omelia pronunciata da Lawrence.
Un secondo importante tema – il ruolo della donna nella società e nella Chiesa – è introdotto gradualmente attraverso la presenza premurosa, discreta e silenziosa, ma al tempo stesso vigile, delle suore, che crea un’atmosfera di soffusa spiritualità, un’aura di sacralità. La compostezza, il riserbo e la religiosa sobrietà delle suore stride, con una intensità che va accrescendosi nel corso del film, con il clima sempre più teso e insidioso, talora chiassoso e rissoso, che si instaura tra i cardinali.
(Continua)
[1] Cardinal Müller Calls ‘Conclave’ Film Hitlerian ‘Anti-Christian Propaganda’?, articolo di Edward Pentin,Senior Contributor del Register e EWTN News Vatican Analyst.
[2] Regis Martin è professore di teologia e docente associato presso il Veritas Center for Ethics in Public Life presso la Franciscan University di Steubenville, Ohio. Il passo citato, tradotto dall’inglese, è tratto da Conclave’ Snubbed at the Oscars — And It Won’t Win Any Awards for Accuracy Either.
[3] Padre Raymond J. de Souza, founding editor of Convivium magazine. Il passo citato, tradotto dall’inglese, è tratto dall’articolo ‘Conclave’ Cardinal’s Homily Mirrors Some of Pope Francis’ Actual Words.
Frammenti di Cinema # 90
di Pasquale Vitagliano
Ci sono film come quelli ispirati al Grande sonno, tratto dal romanzo di Raymond Chandler, che sono diventati cult e hanno dato origine anche ad un genere come il cinema Hard Boiled. Sono diventati talmente canonici da aver originato alla fine, per contrasto, numerosi tentativi di decostruzione. Sullo stesso piano, ma con un’operazione diversa, ci muoviamo con una storia che è diventata una vera e propria messa in abisso, a conferma che il cinema, specie quello grande, racconta sempre sé stesso. Anche in questo caso la fonte è un libro, Il talento di Mr. Ripley, romanzo di Patricia Highsmith. Ne esistono, infatti, molte versioni. A far riemergere questa storia è la riuscita mini-serie Netflix, Ripley, diretta da Steven Zaillian. La versione più famosa, tuttavia, resta quella di Anthony Minghella del 1999, con una particina persino per Fiorello. La prima versione al cinema è del 1960. Il film è francese, girato da René Clément e con Alain Delon, col titolo Delitto in pieno sole. Negli anni 2000 sono usciti addirittura due adattamenti: uno nel 2002 Il gioco di Ripley con John Malkovich, diretto dalla nostra Liliana Cavani, e Il ritorno di Mr. Ripley del 2005 con Barry Pepper, di Roger Spottiswoode. Per l’esattezza, si ispira al romanzo Il sepolto vivo, secondo di una saga di cinque romanzi con lo stesso protagonista. Analogamente, a L’amico americano di Wim Wenders del 1977, ispirato ad un altro titolo della stessa serie.
Frammenti di Cinema # 89
Ci sono film che restano in bilico tra fantascienza e distopia. Esemplare è Megalopolis (2025) l’ultima opera monstre di Francis Ford Coppola. Che film è? Una profezia, un incubo, una visione? La forma è irrisolta, ed infatti, nonostante il grande regista abbia progettato e lavorato per molti anni intorno a questa opera, il risultato è davvero modesto. La scelta del parallelismo con la decadenza dell’Impero Romano, con l’uso dei nomi e l’adattamento di quel mondo ad una civiltà del futuro da all’intero impianto un costante tono da parodia. All’opposto, inquietante per la capacità grottesca e cinica di ingrandire tratti distopici del nostro presente fino al parossismo è Triangle of Sadness di Ruben Ostulund, vincitore a Cannes nel 2022. Con un tocco di leggerezza che lo alleggerisce e un’apertura alla fisica quantistica, il triangolo-della-tristezza (lo spazio tra le sopracciglia) mi ha fatto pensare a Serenity – L’isola dell’inganno (2019) di Steven Knight. L’ultimo film di Liliana Cavani, L’ordine del tempo (2023) addirittura, azzarda a portare al cinema un saggio sulla fisica di Carlo Rovelli. Ma anche in questo caso, l’esito è negativo. Non parodistico, ma patetico, bilanciato solo dal rispetto per una grande regista ancora al lavoro, malgrado l’età.
Lo stato delle cose di Sepp Mall (Il Ponte del Sale, 2024)
di Pasquale Vitagliano
La poesia di Sepp Mall è una scoperta benaugurale. Sono entrato nel suo mondo verbale e ne sono stato affascinato. Il Ponte del Sale propone una raccolta di suoi testi, Lo stato delle cose (2024), tradotte dal tedesco in italiano da Stefano Zangrando e Sonia Sulzer. Come scrive Zangrando nella postfazione, nato a Curon Venosta nel 1955, “è il maggior scrittore italiano di lingua tedesca vivente”. Dunque, non è superfluo precisare che il giudizio ha a oggetto il testo tradotto. In ogni caso, altro rispetto a quello nella lingua-madre. Tuttavia, il passaggio non è un azzardo. La sponda non è deviazione. Infatti, lo stesso autore riconosce che i due traduttori sono riusciti a “traghettare la lingua, sana e salva fino a un altro lido”. E suoi versi hanno parlato anche a noi. Che cosa ne sappiamo (noi)/ dei sogni degli oggetti (…) Che ne sappiamo/ : dei loro sogni/ della loro/ voglia/ dei coltelli/ sedie nelle stanze abbandonate/ Quanto dobbiamo esser loro estranei/ e di peso.
20 righe (per niente) facili su Mario Macario
di Pasquale VItagliano
Se il disordine è l’ordine senza potere, come ha detto Léo Ferré, la poesia, forse, è la scrittura senza sintassi. Ne Il culto del disordine (Tabula Fati, 2025, nella collana diretta da Vito Davoli), antologia delle sue raccolte poetiche, Mauro Macario ci mette di fronte ad un tentativo esistenziale di poesia libertaria, cioè una poesia che usa la parole e il verso come viatico di liberazione umana. L’effetto è immediato e tangibile. Per esempio, spontaneamente sono stato indotto a leggere il libro dalla fine verso l’inizio. In effetti, Lucrezia Lombardi coglie questa circolarità. D’altra parte, l’anarchia non è caos, tant’è che un altro motto è vietato vietare ma doveroso vietarsi. La poesia di Macario, infatti, è tutt’altro che spontanea e caotica. In un frangente d’epoca in cui tutti sembrano esordienti, Macario ha una storica (e che storia). La sua poesia ha la leggerezza dei suoni, l’oralità di un’evocazione, nel suo svolgimento copre tutto il Novecento e ciò che resta è un nocciolo duro di significato essenziale e di forma pura, senza alcuna postura poetica.
Un racconto da Gli altri vedono il clown di Enrico Grandesso (Campanotto, 2025)
Questi racconti di Enrico Grandesso hanno una sapienza cechoviana. Fulmenei ma eloquenti, lucidi e insime sottilmente ironici. Il minimalismo delle situazioni rappresenta solo un approdo roccioso dal quale aprirsi al mare aperto. Infine, singolare e dunque da rimarcare è la capacità di mettere in relazione dinamica i luoghi con i personaggi. Stazioni, angoli di città e valli interagiscono con efficacia impressionistica con i protagonisti delle storie.
(Pasquale Vitagliano)
da Gli altri vedono il clown di Enrico Grandesso.
Tante cose
Si era svegliata da quel breve riposo quasi di soprassalto: eppure certa dell’immagine di lui che la guardava con il suo sorriso inquieto e dolce, con quegli occhi tra l’azzurro e il verde che nessun pittore avrebbe mai saputo mettere su tela. Gilbert, che aveva sempre saputo spiazzarla nei momenti importanti; il giovane uomo sempre giovane; nella felicità il suo punto di forza. Intanto fuoriusciva puntuale una voce leggera e dura, “allacciare le cinture, signore e signori, stiamo atterrando su Milano”. Un’ora e cinque dalla partenza, c’est vachement bon! I tempi erano rispettati. Un tipo alto, con la barba e un naso da capretto le aveva lanciato una brutta occhiata mentre tornava al suo posto. “Arabi” lo aveva sentito dire, “ammazzarli tutti! Senza pietà”. “Così poi il petrolio ce lo prendiamo noi, cazzarola!” aveva aggiunto uno seduto vicino a lui. “Li scannerei con la scimitarra”. Sapeva di non doverli neppure ascoltare; e il tempo avanzava, più rapido del previsto, dieci giorni dopo quel martedì maledetto. Continua a leggere
Frammenti di Cinema # 88
Dopo l’amore c’è la paura. Qual è il film più pauroso nella storia del cinema? Per la classifica di Broadband Choices il film più spaventoso a tutto il 2024 è Sinister (2012) di Scott Derrickson, secondo il criterio scientifico di misurare il battito cardiaco per l’intera durata del film. Devo ammettere che il film non è male. Ma non mi ha scosso più di tanto. Si segnala, invece, per essere una sorta di somma teologica del genere. Tutti gli elementi classici sono presenti: misteri, possessione, suspence, violenza, agnizione, ambiguità infantile. In questa classifica non ci sono film italiani. Neppure un film culto come Profondo rosso (1975) di Dario Argento. Per me, invece, il più spaventoso è The ring (2002) di Gore Verbinski, di cui ho visto prima il remake occidentale e dopo l’originale giapponese del 1998 diretto da Hideo Nakata. Qui scatenante è l’elemento familiare della follia. Determinante, poi, è la terrificante figura iconica di Samara con i lunghi capelli neri che le coprono il volto. L’ambiguità dei capelli lunghi, da elemento di bellezza e vanità femminile a inquietante immagine di dannazione l’intuisce anche un regista che con il genere non c’entra niente. Infatti, Andrej Tarkovskij ricorre alla stessa immagine ne Lo specchio (1975).
Da Di lentissimo azzurro di Angela Caccia (Campanotto Editore, 2024)
La poesia di Angela Caccia si inserisce nella tradizione ma con una naturalezza che rende la sua lirica familiare eppure inedita. Radicata nella sua terra è priva di qualsiasi ristrettezza regionale. Inspira le sue origini e espira un’anima universale. E’ come se guardasse il mondo da una finestra che delimita ma non chiude.
(Pasquale Vitagliano)
Sarà servito a qualcosa
leggere Omero farsi disturbare
il sonno da una mail
vivere
fino la ferita
e al grido sotterraneo uscire fuori dal calcolo?
Sarà servito
innamorarsi spartire
in due il peso di sé stessi
modellarsi uno all’altro
sino a fare
del dubbio l’unico fronte di liberazione?
… come Giacobbe e la sua anca rotta
poter lottare col proprio Angelo
per guadagnarsi un nome
Da Molti giorni da ieri di Elena Mearini (Marco Saya Edizioni, 2024)
La poesia di Elena Mearini ha un’armonia scultorea e una sibrietà metafisica. Si sente che la parola poetica esiste e vive di una vita propria, prima di essere scritta e detta. La forma finale, in realtà è “pre-formata” nel flusso dei versi. Talvolta il poeta crea mondi, altre volte, come in questo casto, la poeta scopre pre-esistenze, fa emergere poesia che già era contenuta dentro la lingua.
(Pasquale Vitagliano)
Cosa ci manca
non sappiamo
mentre diamo nome
alla strada al paese
all’uomo al cane
che vivono attorno
quale parola rifiuta
di fiorire in voce
e cade mai nata
al piede-padre perduto.
*
Tre fisse (domande semplici e concrete)
di Patizia Baglione
TRE FISSE a David La Mantia
Quanto influisce bellezza, dolore e amore nella tua poesia?
La mia poesia comincia dopo l’happy end. Dopo i festeggiamenti per il matrimonio di Cenerentola. Dopo che Robin Hood e Marian si baciano. Comincia quando gli altri chiudono il libro soddisfatti. La bellezza non è solo un fatto estetico per me. La penso come Pasolini: la bellezza è vitalità, slancio, rottura, frammentazione. La bellezza abbraccia il mondo se lo modifica, se ne altera la percezione. Non può essere solo spettacolo, visione. Ma deve essere boccone di fatica. E dolore. Quando scrivo, non sento, come tanti dicono, catarsi o liberazione. Solo l’affollarsi del rimpianto e del rancore. E l’amore? La mia raccolta Gesti lievi ha come sottotitolo L’amore se te ne accorgi. Ecco, è questo il problema. È che siamo immersi nell’amore e non ce ne rendiano conto.
Frammenti di Cinema # 87
“In amore non si dovrebbe mai dire: mi dispiace”: è la frase chiave di Love story (1970) di Arthur Hiller, che di tutti i film sentimentali costituisce il modello perfetto, quasi uno stemma. Si tratta di un vero canone che ha ispirato una caterva di film sull’amore. Fate un gioco: compulsate tutti i titoli che conoscete, pensate alla trama e confrontatelo col suo prototipo contemporaneo (sicuramente ce ne sono di precedenti, specie nell’Italia melodrammatica: penso alla saga della coppia Amedeo Nazzari-Yvonne Sanson). Il suo gemello contrario è In the mood for love (2000) di Wong Kar-wai, che, aderente alla cultura orientale, si fonda sul vuoto. La “love-story” è del tutto elusa, unicamente, sebbene pienamente, vagheggiata e mirata. L’arco viene teso fino al limite estremo per colpire il bersaglio. Questa certezza è già sufficiente. Non c’è bisogno di andare oltre.
Da Malarazza di Emilio Nigro (QED Edizioni, 2024)
Se i personaggi edificanti sono tutti uguali, gli esclusi sono uno diverso dall’altro. Questa constatazione rende intensa e attrattiva la raccolta di racconti Malarazza di Emilio Nigro per Qed, 2024. Lo sguardo dello scugnizzo, l’afonia della follia, i cocci che svelano l’anima, lo scandalo del figlio del sagrestano, le catene inspiegabili dell’amore, e l’amore (ancora più) inspiegabile pe le sue catene, la fiaba finale e fantasmagorica di burattini senza fili.
(Pasquale Vitagliano)
Lettera a un giovane poeta (che non c’è più)
di Pasquale Vitagliano
Non vale la pena andarsene in nome della poesia. La poesia non resta, ti segue e lascia un mondo che riverbera parole vane e sempre uguali. Amore mio veramente/ Se non mi ami muoio giovane, canta Achille Lauro in Incoscienti giovani a Sanremo 2025. La morte di un giovane poeta prima di essere una tragedia è per gli altri una postura. Ciò rende il dramma umano e familiare ancore più insopportabile. Non interessa a nessuno se lo conoscevo se c’eravamo scambiati parole, pensieri, messaggi.
Quello che è insopportabile, invece, è vedere riflessa nella sua fine inattesa e ingiusta la vanità dei poeti (meno delle poete, magari significa qualcosa) d’oggi“. “Mi aveva scritto… C’eravamo scambiati le poesie… Gli dedico questa mia poesia…” Addirittura leggo chi scrive, “Sono contento che gli piacesse il mio ultimo libro”. Quasi che la consacrazione mortale dell’uno fosse un viatico a quella in vita dell’altro. Triste. Qui non lo voglio ricordare (chi sono io per farlo?), ma voglio cogliere l’occasione per indicare un orizzonte di maggiore sobrietà e serietà umana e artistica. Non oso immaginare cosa abbia vissuto questo ragazzo, dico solo che la sua scomparsa è ancora più orribile dentro questo scenario. Almeno per me, è la conferma di un crinale inguardabile (e illeggibile) che la poesia sta prendendo: sembra che tutti quanti noi ci affolliamo freneticamente davanti ad un immaginario palco di Sanremo della Poesia per essere selezionati finalmente a salire. Ci sarebbe da discutere e riflettere insieme (invece che rifletterci narcisisticamente anche nel dolore). Non ho letto commenti, forse a parte Matteo Fantuzzi che ringrazio, volti ad interrogarci. Ho letto solo “canzoni”.
Frammenti di Cinema # 86
di Pasquale Vitagliano
David Lynch non è il mio regista preferito ma The elephant man (1980) è il film al quale sono sentimentalmente più legato. Come Victor Hugo, secondo Leonardo Sciascia, ci ha insegnato cosa significhi veramente essere cristiani, David Lynch si ha insegnato ad essere umani. Il tema del corpo, del volto, in particolare, della mostruosità sono al centro della sua ricerca artistica. Senza di lui, Coralie Fargeat non avrebbe concepito The Substance (1924) con una rinata Demi Moore. La manipolazione della faccia per avere un volto nuovo e, magari, anche un’anima diversa, ha spesso stimolato il cinema. Già nel 1947 ne La fuga (1947) di Delmer Daves, l’espressione iconica di Humphrey Borgart non appartiene al volto originario del protagonista. Assassino in fuga, decide di rivolgersi ad un chirurgo plastico per modificare i propri connotati. Anche il trafficante Manitas cambia indentità, ma per diventare una donna. Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard è candidato a 13 premi Oscar per il 2025. Il medico di Tel Aviv, che finalmente realizzerà il suo desiderio, l’avverte: si può cambiare il corpo, non l’anima.
Da Exit Imago Mundi di Michele Ziviani (QuiEdit, 2024)
La poesia di Michele Zuviani più che sperimentale è inusitata. Egli spezza la tradizione nello stesso momento in cui la recupera. E’ un scrittura post-impressionista che attinge alle neuroscienze come la pittura si faceva ispirare dalla fotografia.
(Pasquale Vitagliano)
SALA GIOCHI
Di sibili elettronici
l’avventore udia i rombi
che i vetri luminosi
producean insistentemente.
Tra il trillo d’un trabiccolo
e il tintinnio costante
d’un gettone gettato
il lume abituato scintillava.
Dinoccolato impazza
l’uomo adiacente al bercio
delle trombe vittoriose
dei cherubini festanti.
Squillino le trombette,
mentre il giovine abbassa
il cane per sparare.
La canna, però, non emette guaito.
Si sfoga così, batte
i pugni e stronca vite.
Con aggraziato movimento
colpisce il bimbo chino a contare.
*
I nuovi creatori di Andrea Billau. Per una teologia laica.
Nel suo libro – invero un tempo lo avremmo chiamato pamphlet – I nuovi creatori. Il nostro destino di liberazione dalla tragicità (Multimage, 2024), Andrea Billau ci propone un tentativo di costruzione di una teologia laica. Dunque, si tratta di un’opera inattesa, in quanto in controtendenza rispetto alla desacralizzazione del mondo e al laicismo d’antan; e sorprendente per la torsione del punto di vista. Egli scrive che la “postura religiosa, al contrario di quanto viene detto comunemente, è una postura di ribellione all’ingiustizia dell’esistente e solo una sua perversione teocratica l’ha resa funzionale al mantenimento del potere.” Se considerate che Billau è un giornalista di radio radicale, la singolarità dell’affermazione è lampante.